Il respiro e la voce

Quando ascolto la musica di John Coltrane, mi sembra di cogliere una fatica e una meraviglia. Fatica: lo sforzo e l’incessante sfida tecnica; meraviglia: la dolcezza di certi passaggi, l’incanto dell’ingranaggio armonico e melodico. Mi chiedo allora se fatica e meraviglia non siano i due poli da cui nasce ogni forma artistica, compresa la letteratura.
In effetti, il mio primo ricordo è la fatica. Da bambino, come succede a molti mancini, formavo le lettere al contrario e creavo grovigli invece di parole: lo slancio di ciò che volevo dire era frenato da quelle aste, da quelle arcane linee ricurve.
Ancora oggi c’è una frizione nel momento in cui ciò che avverto dentro di me, come potenzialità indefinita, trova un modo di espressione, uno solo, con tutti i suoi limiti. Quello che appare sulla pagina è sempre diverso da quello che avevo in mente: prima di tutto perché ciò che scrivo esiste, mentre ciò che penso è come una vela che passa in lontananza. Dare voce ai personaggi, costruire una storia mi suscita meraviglia: in fondo né la storia né i personaggi mi appartengono; semplicemente, li ho trovati lungo la via.
Ascoltare Coltrane è diventato un modo d’interrogarmi sul mio lavoro. All’inizio non me ne rendevo conto: ero soltanto stupito da quel saxofono insieme impetuoso e limpido, fluviale, serio, sempre teso alla ricerca di qualcosa. Ero studente e vivevo a Zurigo quando, per caso, mi trovai ad ascoltare A love supreme (Impulse 1964). Si tratta della sua opera forse più celebre: una suite divisa in quattro parti (Acknowledgement, Resolution, Pursuance, Psalm), che è allo stesso tempo Canzona di ringraziamento (come l’avrebbe definita Beethoven), professione di fede, autentica dichiarazione di gioia spirituale, applicazione delle ricerche di Coltrane nel campo della modalità e molto altro ancora (così Carlo Boccadoro nel suo Jazz, Einaudi 2005). A emozionarmi era soprattutto la parte finale, Psalm. Nella mia ignoranza musicale, mi colpiva soprattutto il suono, dolente, misterioso, e le frasi ripetute sopra il rimbombo dei timpani, gli accordi del pianoforte, il lungo strascinio dei piatti. Anni dopo, leggendo qualche libro su Coltrane e in particolare su A love supreme, scoprii che in Psalm il saxofonista suonò avendo in mente un testo scritto da lui stesso, riportato nel libretto del disco. Sotto la musica, insomma, si nascondevano le parole, e la musica le portava oltre, espandeva il loro significato.

John Coltrane ebbe una vita breve. Nato il 23 settembre 1926, morì a quarantun anni il 17 luglio 1967. I suoi primi dischi come leader uscirono nel 1957: negli ultimi dieci anni di vita continuò a esplorare strade impervie, in una continua, bruciante evoluzione, sorprendendo – e talvolta sconcertando – il suo pubblico. Lui stesso, in un’intervista, definì il suo metodo di lavoro: Parto da un punto e vado il più lontano possibile. La musica di Coltrane (insieme a quella di molti altri) è per me un’esortazione a percorrere strade nuove, nel mio lavoro e nella mia vita. Questo non significa lasciarsi tutto alle spalle, ma cercare la novità anche nel fluire dell’abitudine. Come scrive il critico musicale Xavier Daverat, la ripetizione coltraniana è un fenomeno di memoria diretto verso l’avvenire. Si tratta di essere pronti a vivere la fatica, senza abbandonare la meraviglia. Lo stesso Coltrane diceva: Essere un musicista è un’esperienza davvero unica. Ti permette di andare molto, molto a fondo. La mia musica è l’espressione spirituale di quello che sono: la mia fede, il mio sapere, la mia essenza. E aggiungeva: Voglio parlare all’anima delle persone.

Di sicuro, Coltrane parlò all’anima di molte persone con la melodia commovente di Alabama, registrata il 18 novembre 1963 nello studio di Rudy Van Gelder a Englewood Cliffs (New Jersey). Poco più di un mese prima, il 15 settembre, il Ku Klux Klan aveva perpetrato un attentato in una chiesa battista a Birmingham, in Alabama, ed erano rimaste uccise quattro bambine.
Il brano Alabama si trova nell’album Coltrane Live at Birdland (Impulse 1963). Nelle note di copertina, lo scrittore Amiri Baraka (pseudonimo di LeRoi Jones) cita una frase dello stesso Coltrane secondo cui il pezzo rappresenta musicalmente qualcosa che ho visto laggiù e che da dentro di me si è trasferito nella musica. È impressionante sentire il lamento del sax sopra la batteria che cresce sullo sfondo come un fenomeno naturale… un tuono che si rinforza, nubi di tempesta o nubi di guerra nella giungla (Amiri Baraka). Protesta, canto, preghiera: s’intuisce il respiro spezzato dalla sofferenza, lo stupore di un uomo davanti all’assurdità del male. Ma il respiro diventa musica. Il respiro diventa bellezza. Il soffio risale dai polmoni, percorre il tubo del saxofono e piange per quelle bambine, piange per lo strazio di tutti gli attentati. Anche per quelli di oggi; Coltrane non poteva saperlo, ma nel suo pianto risuona il dolore per ogni violenza, per ogni bomba scagliata dall’odio. E in quel pianto l’umanità resiste, anche in mezzo al caos, e afferma una speranza. Il respiro diventa voce.

PS: La versione video di Alabama proviene da uno spettacolo televisivo statunitense del dicembre 1963. I musicisti sono gli stessi dell’album: John Coltrane al sax tenore, MCoy Tyner al piano, Jimmy Garrison al basso ed Elvin Jones alla batteria. Fra l’altro, è lo stesso quartetto che registrò A love supreme.

PPS: Senza far riferimento a Coltrane, ho parlato qui della mia personale esperienza di saxofonista (agguerrito, ma principiante…). La musica di Coltrane, insieme a quella di altri musicisti jazz, è una delle fonti d’ispirazione per il mio romanzo L’arte del fallimento (Guanda 2016). In particolare, ho parlato qui del brano In a sentimental mood (inciso da Coltrane nel 1962 con Duke Ellington).

PPPS: Ringrazio Lina per il saggio di scrittura. Le dichiarazioni di Coltrane provengono da vari libri: “Je pars d’un point et je vais le plus loin possible”. Entretiens avec Michel Delorme suivis d’une lettre à Don DeMichael (Éditions de l’éclat 2012); Coltrane secondo Coltrane. Tutte le interviste (2010, a cura di Chris DeVito; l’edizione italiana, stampata nel 2012, è a cura di Francesco Martinelli per EDT); Lewis Porter, Blue Train. La vita e la musica di John Coltrane (1998, traduzione italiana di Adelaide Cioni nel 2006 per Minimum Fax); Ashley Kahn, A Love Supreme. Storia del capolavoro di John Coltrane (2002, traduzione italiana di Fabio Zucchella nel 2004 per Il Saggiatore; da questo volume ho preso alcune delle fotografie che vedete sopra). Ho citato anche Xavier Daverat, Tombeau de John Coltrane (Parenthèses 2012). Per chi volesse approfondire l’influenza di Coltrane sugli altri musicisti, può essere utile il dossier speciale John Coltrane 50 ans après, apparso sul numero 696 di “Jazz Magazine” (luglio 2017).

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Lady Sweet

A volte mi capita di trovarmi da qualche parte in macchina, di notte. Di solito ho appena parlato con qualcuno, magari ho visto degli amici, ho cenato, ho letto brani delle mie storie, ho discusso di letteratura, della vita, o semplicemente di quelle cose stupide che vengono in mente la sera tardi. Al momento in cui chiudo la portiera e mi avvio per tornare a casa, c’è un silenzio nel quale riecheggiano pensieri buoni o pensieri molesti. Se sono buoni, lascio che il silenzio li faccia crescere. Se sono molesti, cerco di combatterli con l’aiuto di Dexter Gordon.
IMG_0066Il suo sax tenore, con un suono che sembra risalire dal profondo della terra, è l’ideale per accompagnare i viaggi a notte fonda. C’è una vibrazione antica come i vulcani, e nello stesso tempo c’è una limpidezza nitida come un cielo primaverile, dove spiccano i colori, la forma delle note. Tutto questo insieme a una sapienza ritmica così naturale, così ovvia che sembra lo sguardo di un amico in mezzo alla folla, una strizzata d’occhio, il suono di un passo conosciuto che si avvicina alla porta. Di solito ascolto l’album Go, oppure Our man in Paris. Lo strazio dolce delle ballate è compensato dai brani veloci, nei quali Gordon si diverte a scolpire ogni nota, a sputarla fuori rotonda e perfetta, concedendosi ogni tanto qualche citazione ironica.
IMG_9994Protagonista della scena musicale americana negli anni Quaranta, il saxofonista conobbe in seguito anni dolorosi, nei quali l’alcol e le droghe presero il sopravvento. Alto un metro e novantasei, dinoccolato, con gli occhi gentili e un sorriso affascinante, Long Tall Dexter si perse nel buio degli ospedali, delle prigioni, in una rovina che pareva irreversibile. Invece trovò il coraggio di tirarsene fuori: si trasferì in Europa, a Parigi e a Copenaghen, e seppe inventarsi una seconda carriera. Addirittura, nel 1986, fu scelto dal regista francese Bertrand Tavernier per interpretare ’Round midnight, che è forse il miglior film sul jazz che sia mai stato girato fino a oggi.

Non è il classico biopic, ma il tentativo di rappresentare un’atmosfera, una visione del mondo. Dexter Gordon interpreta il personaggio di Dale Turner, un grande musicista alcolizzato; è una figura in parte ispirata al saxofonista Lester Young, in parte al pianista Bud Powell, in parte allo stesso Gordon. Il film è ambientato alla fine degli anni Cinquanta e narra la storia dell’amicizia fra Turner e Francis Borier, un grafico appassionato di jazz. Non avendo i soldi per il biglietto, Francis si rannicchia sul marciapiede, accanto a una finestra del Blue Note di Parigi. Sera dopo sera, ascolta con rapimento la musica di Turner, che si esibisce dal vivo. Con il tempo fra i due comincia una lunga, intensa amicizia.
UnknownCome tutte le grandi amicizie, anche questa è inaspettata e diffonde intorno a sé un fermento di vita, di scoperte. Francis racconta a Turner come la sua musica lo abbia cambiato e lo abbia portato a interessarsi di arte, di letteratura, lo abbia reso più sensibile. Turner continua a suonare, ma non riesce a stare lontano dall’alcol. Di continuo Francis lo va a cercare negli ospedali e nei commissariati, lo trascina fino al suo appartamento, lo mette a letto.
FullSizeRender-5Come spiega allo stesso Francis un conoscente di Turner: Quando devi esplorare ogni sera, ti suscitano dolore anche le cose belle che trovi. Il film rappresenta bene questo tormento. Gordon infatti non è un attore, così come tutti i musicisti che si vedono nel film. I concerti sono ripresi dal vivo: c’è una tensione reale che si percepisce nei gesti di Herbie Hancock al piano, John McLaughlin alla chitarra, Billy Higgins o Tony Williams alla batteria. Tavernier voleva proprio mostrare la violenza della creazione, il sudore dello sforzo, gli sguardi di due musicisti che si domandano a vicenda quali note suoneranno. Ci sono momenti che solo la diretta poteva offrire: quando Billy Higgins prende le spazzole, poi vede Dexter che sta suonando una variazione e allora cambia e prende le bacchette… non potevo fare tutto questo in playback. È come se in un western gli attori non fossero capaci di cavalcare.

Turner è consapevole del suo talento, ma anche del logorio che questo comporta. Non puoi uscire e prendere uno stile così, cogliendolo da un albero. L’albero è dentro di te, e cresce con naturalezza. Il saxofonista sconta con la sofferenza la crescita dell’albero interiore, staccandosi sempre di più dalla realtà e riducendosi in uno stato pietoso. Finché un mattino, dopo aver visto Francis piangere per lui, Turner promette di cambiare. Le presenze oscure nell’anima del musicista non se ne vanno del tutto, ma in qualche modo allentano la presa. Turner riesce a suonare, a incidere, a comporre musica. La storia è ispirata alla realtà per tanti piccoli dettagli. Il personaggio di Francis Borier, per esempio, ricorda Francis Paudras, lo scrittore amico di Bud Powell (che aveva suonato con Dexter Gordon proprio a Parigi).
Unknown-2Grazie anche alla splendida colonna sonora di Herbie Hancock, Tavernier riesce a mostrare con delicatezza questi paesaggi interiori. Restano nella memoria la voce roca e cantilenante di Gordon, la sua ironia, la dedizione di Francis, il rapporto di entrambi con le loro figlie, i colori azzurri e grigi dei locali notturni parigini, cui fanno da contrasto la luce forte delle poche scene girate all’aperto. Ogni tanto alle immagini del film si alternano quelle in bianco e nero catturate da Francis con una cinepresa; in questo modo si fondono lo sguardo onnisciente del regista con quello intimo e affettivo dell’amico.
imagesIn una delle poche scene in esterno giorno, i due protagonisti sono seduti su una spiaggia. Turner riflette a mezza voce: È strano che il mondo si trovi all’interno del nulla. Insomma, tu hai il cuore, l’anima, dentro di te; i bambini stanno dentro le loro mamme; i pesci stanno dentro il mare. E il mondo? Il mondo si trova dentro un niente. Turner tace e guarda il mare, ma queste domande tornano con forza nella voce possente del suo sax, che lui chiama Lady Sweet.

’Round Midnight ha molti aspetti malinconici, ma la forza, la vitalità della musica afferma una speranza. È memorabile, per esempio, la scena in cui Turner ritrova la cantante Darcey Leigh (interpretata da una sfavillante Lonette McKee). Fra i due c’è una tenera e tenace amicizia, che ricorda quella fra Lester Young e Billie Holiday. L’intensità del loro legame si esprime nella complicità con cui interpretano il brano di Gershwin How long has this been going on? Ci sono rapporti umani che le parole non arrivano a definire; ma per fortuna – come dice lo stesso Dale Turner – non tutto ha bisogno di parole.

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PS: Dexter Gordon nacque a Los Angeles il 27 febbraio 1923 e morì a Philadelphia il 25 aprile 1990. Ho citato all’inizio gli album Go (Blue Note 1962) e Our man in Paris (Blue Note 1963). Esistono pure due dischi con la colonna sonora del film, entrambi molto buoni: ’Round midnight (Columbia 1986) e The other side of ’Round midnight (Blue Note 1986). Le parole di Bertrand Tavernier provengono da un’intervista con Léo Bonneville, pubblicata sul numero 127 della rivista Séquences nel 1986. La canzone ’Round midnight, venne composta dal pianista Thelonius Monk e dal trombettista Cootie Williams all’inizio degli anni Quaranta, con parole di Bernie Hanighen (è uno dei brani più noti e più suonati nel mondo del jazz).
La fotografia che appare sopra questo Post Scriptum è di Giuseppe Pino, che la scattò a Milano nel 1971; è tratta dal volume Sax! (Earbooks 2005). Qui sotto, invece, vedete un ritratto di Gordon nel 1948 al Royal Roost di New York; è opera di Herman Leonard ed è una delle foto più celebri del jazz. Le altre immagini di questo articolo, quando non siano le copertine dei dischi o la locandina, sono dei fotogrammi tratti dal film.
Una versione di questo articolo si trova sulla rivista Cinemany.

 

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Coriandoli nella birra

Esco di casa alle quattro del mattino, faccio qualche passo e incontro una chiazza di vomito sul marciapiede. Per qualche secondo rimango fermo a guardarla. Mi sembra quasi una creatura viva, che possa contraccambiare il mio sguardo. È una sostanza semipastosa di colore bruno-verdastro, nella quale galleggiano brandelli più scuri e anche qualcosa di arancione (forse dei resti di carote?). Il vomito possiede la capacità di suscitare empatia: per un attimo anch’io devo soffocare un conato, quando mi arriva un effluvio di bile, succhi gastrici e birra, misto a un vago odore di dignità perduta. È un riflesso potente: perfino mentre digito queste parole sulla tastiera del computer, devo tenere a bada i miei recettori esterni, perché non portino l’ordine di rilascio ai neuroni nel tronco dell’encefalo.

Be’, per il momento siamo al secondo paragrafo e non sto vomitando. Nemmeno voi, spero. Dopo aver cautamente aggirato la chiazza, mi dirigo verso il centro della città, che da lontano si annuncia con un boato. È la notte tra sabato e domenica. Bellinzona è blindata e sorvegliata da squadre di agenti della sicurezza: le notti del carnevale Rabadan sono lunghe e affollate. In passato mi è capitato di viverle nell’ordine giusto, cominciando cioè dalla sera e arrivando fino alle ore piccole; quest’anno mi sono detto: perché non fare due passi fra le quattro e le cinque del mattino, per afferrare l’atmosfera del Rabadan con mente fresca? Magari potrei finalmente comprendere quella scintilla, quell’accensione segreta di allegria che ancora non sono riuscito a cogliere, pur avendo partecipato a decine di carnevali.
IMG_9723Prima di avvicinarmi al recinto che chiude la città, incrocio una coppia con il costume abbinato: Coniglio e Coniglia, con le orecchie lunghe, un batuffolo di coda e i baffi dipinti sulle guance. Stanno litigando, mentre camminano ai due lati opposti della strada. Provo un certo imbarazzo mentre passo in mezzo. Coniglia sta accusando Coniglio di essere troppo geloso e nessuno dei due risponde al mio cenno di saluto. Qualche minuto dopo incontro una ragazza esile e bionda, con un costume scintillante di lustrini. Se ne sta accasciata addosso a un muretto e ha gli occhi un po’ vacui, perciò oso chiederle: Tutto bene? Lei mi guarda e risponde stancamente: Vaffanculo.
IMG_9721Proseguo verso il centro. Vaffanculo, penso, che bell’inizio. Ecco cosa succede a parlare con le ragazze esili e bionde intorno alle quattro del mattino. Vaffanculo. Niente da dire, me lo merito. Prima di partire mi sono documentato leggendo Zygmunt Bauman, che usa addirittura la parola fratellanza. Dopo aver sottolineato come il carnevale tenga a bada le ansie dell’individualità con una gioiosa marea di identicità indifferenziata, Bauman spiega infatti che la funzione (e il potere di seduzione) del carnevale liquido-moderno risiede nella rianimazione momentanea di una fratellanza sprofondata nel coma. Carnevali di questo tipo sono affini a “danze della pioggia” e sedute spiritiche, in cui la gente si tiene per mano ed evoca il fantasma della comunità deceduta. Be’, non dico che volessi tenere per mano la esile ragazza bionda, ma non era nemmeno mia intenzione evocare un “vaffanculo”. È andata così, non ci pensiamo. Mentre mi unisco alla fratellanza che invade le vie di Bellinzona, rifletto sulla forma di questo divertimento. Secondo me si sviluppa in due nodi di tensione:
1) Tensione fra proiezione esterna (PE) e discesa nell’intimità (DI);
2) Tensione fra violenza sfrenata (VS) e desiderio profondo di relazioni (DP).

1) PE / DI
La Proiezione Esterna sta nel modo in cui ci stacchiamo dal nostro io, lasciandoci condurre dal ritmo della musica e delle luci, rassicurati dalle canzoni che si ripetono uguali anno dopo anno. Poi c’è la meraviglia, l’incanto di vedere le strade di ogni giorno animate da maschere, volti dipinti, animali antropomorfi, personaggi storici, mostri, fate. Il carnevale ci spinge a uscire, a muoverci. Forse, a pensarci bene, anche la chiazza di vomito si può annoverare fra le proiezioni (o deiezioni) esterne.
IMG_9720La Discesa nell’Intimità, dopo una certa ora, s’insinua negli individui dispersi: li vedi sulle gradinate, o appoggiati contro un muro come la ragazza del vaffanculo. Non sono semplicemente ubriachi; credo che in un angolo del loro inconscio si siano accorti che, nonostante le reiterate danze della pioggia, la siccità non accenna a diminuire. Qualcuno si chiude in una cabina telefonica. Un ragazzo vestito tutto di nero se ne sta accovacciato con la testa fra le mani accanto a una coppia che si bacia solennemente. Un uomo di mezza età è rimasto bloccato nell’autosilo e da dietro la grata implora un agente di farlo uscire. Non posso, risponde quello. L’uomo allora si stringe nelle spalle e dice Tanto fra poco finisce tutto, no? Poi torna nelle viscere della terra.


2) VS / DP
IMG_9722La Violenza Sfrenata sono le risse, ma non solo. A un certo punto mi vengono addosso quattro o cinque energumeni che se le danno di santa ragione, tanto che rischio di prendermi qualche pugno anch’io. Gli agenti della sicurezza bloccano i più facinorosi, in particolare uno travestito da frate e un altro che, con un abito da leopardo, grida Ti ammazzo, zio, giuro che ti ammazzo all’indirizzo di un uomo con il costume zebrato (il che rispetta in un certo senso le leggi di natura). Il carnevale può spaccare le amicizie, incrinare o frantumare le coppie. Se non prendi questo treno – sibila al telefono un uomo stempiato, coperto da un poncho messicano – con me hai chiuso, no, dico sul serio, hai chiuso! In generale, c’è un gran perdersi e telefonarsi e ritrovarsi per poi perdersi di nuovo. Nelle ore che precedono l’alba, con il cumulo crescente di rifiuti, aumenta il Desiderio Profondo di avere qualcuno accanto. Una ragazza in coda al chiosco delle piadine chiacchiera con un gruppo di amici, mentre specifica gli ingredienti e nello stesso tempo digita due messaggi, che riesco a leggere da dietro le sue spalle. SMS.1: Sam ho tanta voglia di vederti; SMS.2: Vorrei davvero dormire abbracciata con te.

IMG_9726In questo incrocio di tensioni, c’è chi tenta di prolungare la notte. Dopo le tende, dopo le Guggenmusik, restano i locali notturni come il Chupito o La Clava. Dai ragazzi – supplica uno vestito da pollo, con il pomo d’Adamo che si muove frenetico – non fate i bastardi, dai, nemm al Chupito – continua a ripetere, come in una cantilena – nemm al Chupito, nemm al Chupito, oh, raga, dai, nemm al Chupito. Sono gli ultimi sussulti della festa, gli ultimi abbracci prima del disgregamento, quando ognuno camminerà da solo sulle strade vuote che portano alla quotidianità. E io, che sono qui nel cuore della festa? Per me è diverso: sono già solo. Mi si avvicina un orso rosa, mi chiede se ho una sigaretta. Te la pago – mi assicura – te la pago due franchi, eh, mica te la voglio rubare. Gliela venderei volentieri, ma non ne ho. Non c’hai neanche una canna, eh? No, mi spiace. E l’orso rosa si avvia sconsolato.
IMG_9725So che il carnevale ha molte facce. Forse io non sto contemplando la migliore. Ci sono i bambini che gettano i coriandoli – anch’io mi travestivo da cowboy – ci sono le famiglie, i nonni, i risotti in piazza. Ma credo che pure in queste manifestazioni diurne, per così dire, si celino le tensioni che ho elencato sopra. Il carnevale presenta sempre una frattura tra esteriorità (anche solo nel concetto di maschera) e interiorità. Non manca neppure la violenza, intesa come trasgressione e improvvisa interruzione della routine, così come il desiderio profondo di relazione, che ci rende difficile essere e restare soli mentre fuori echeggiano i petardi e le fanfare.


IMG_9724Entro ed esco dalle tende, percorro il viale cosparso di immondizia. Sempre di più la solitudine mi avvolge come un telo impermeabile, o meglio, come un blocco di ghiaccio che mi separa dal mondo. Sono sobrio, indosso un paio di jeans, una giacca, una sciarpa. Non conosco nessuno. La mia sensazione supera il qui e ora, mi fa percepire tutto l’irrimediabile peso del mio essere me stesso. Mi accorgo che sto accelerando il passo, come se la velocità potesse vincere l’angoscia. Sorprendo stralci di conversazione: aneddoti, saluti, beghe fra innamorati, qualcuno che si lamenta di avere i coriandoli nella birra, scoppi di risate.
IMG_9727Per terra scorgo un paio di ali rosse, abbandonate come un cuore infranto. Penso alla fatina o alla farfalla o al diavoletto che le ha smarrite. Senza volare, come farà a uscire da questo recinto? Come combatterà la sua lotta contro la solitudine? Quale via misteriosa percorrerà per trovare una mano tesa, una persona con cui condividere la fatica di vivere?
Anch’io sperimento sulla mia pelle le tensioni del carnevale. Soffocato dalla folla, chiuso nel ghiaccio, mi sento colmo di violenza. Quando l’orso rosa torna alla carica, dicendo che può pagarmi anche tre franchi, mi viene voglia di prenderlo a sberle – ne sono io stesso sorpreso, ma è così (VS). Nello stesso tempo ho nostalgia di tutte le persone che conosco, e ho la sensazione di esserne ormai lontano, di essere definitivamente murato nella mia identità (DP). Fuori di casa, fuori dagli orari normali (PE), cerco rifugio nel gesto solitario del camminare, affinché mi ripari dai pensieri più oscuri (DI).

Esco dai confini del Rabadan, lasciandomi indietro le sbarre, come una scimmia che fugga da uno zoo. Mi allontano dalla cittadella blindata, ma la tristezza non mi abbandona. Arrivato a casa – il quartiere è immerso nel sonno – metto gli auricolari e ascolto il sax di Sonny Rollins. Il suo assolo in Serenade mi pare come un grido, come un riassunto di ciò che si annida in fondo all’anima. Rollins ha inciso questo brano a 76 anni: benché la sua voce ruvida sia carica di esperienza, lui è ancora capace di scherzare, con eleganza e perfino con una punta d’impertinenza. Il brano conserva la delicata tenerezza dell’originale, composto da Giovanni Drigo ed eseguito il 10 febbraio del 1900 al palazzo degli zar a San Pietroburgo. Grazie a Rollins la musica si arricchisce di ironia, di swing, e diventa per me un canto di dolore e speranza, posto come suggello a questa notte di coriandoli nella birra e ali di farfalla smarrite.

PS: Da sempre il carnevale è una circostanza che mi affascina, come scrittore. Perciò ogni tanto torno a esplorarlo, a indagarne le luci e le ombre. Avevo già parlato del Rabadan nel romanzo L’uomo senza casa (Guanda 2008). Al momento il libro è esaurito pure in edizione tascabile, ma Guanda lo ripubblicherà fra pochi giorni, con una nuova copertina (ne riparlerò anche qui sul blog).

PPS: Ecco la formula che ho cercato di mostrare in questo articolo (dopo la somma delle due frazioni-tensioni, ho aggiunto un differenziale-imprevisto, perché a carnevale non si sa mai che cosa possa accadere; AC = Atmosfera Carnevale).

Formula Carnevale

PPPS: Serenade si trova nel disco Sonny, please (Doxy 2006); Rollins l’ha interpretata regolarmente fino a ottant’anni e oltre nei concerti dal vivo, come quello da cui ho preso il video che vedete sopra. Il primo video presenta invece Gerry Mulligan al sax baritono, insieme ad Art Farmer (flicorno), Bob Brookmeyer (trombone), Jim Hall (chitarra), Bill Crow (basso), Dave Bailey (batteria); è tratto dall’album Night Lights (Philips 1963). Il brano s’intitola Morning of the carnival; l’originale – Manhã de Carnaval – venne scritto nel 1959 dal compositore brasiliano Luiz Bonfá con le parole di Antônio Maria per il film Orfeu Negro del regista francese Marcel Camus.

PPPPS: Le parole di Bauman provengono da L’etica in un mondo di consumatori, pubblicato da Laterza nel 2010 con la traduzione di Fabio Galimberti.

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Malinconia

Ormai il bollettino meteorologico non dimentica niente: mutamenti di pressione, sole, neve, ogni soffio di vento e ogni percorso di nuvole sono colti prima che nascano, annotati, divulgati, proiettati sotto forma di grafici e frecce colorate. Quello che ancora non si spiega né con le isobare né con l’anticiclone delle Azzorre sono gli improvvisi passaggi della malinconia. Senza cause scientifiche, senza ragioni apparenti eccola che ci raggiunge, nel cuore di un mattino sereno oppure verso sera, all’imbrunire.
IMG_9108In questi casi c’è poco da fare, bisogna attendere che passi. La radio non aiuta e alla tivù non ci sono fanciulle sorridenti che annunciano il ritorno del sereno. Ognuno ha i suoi mezzi non dico per combatterla – è assai difficile – ma almeno per tenerla a bada. Io per esempio, specialmente se arriva di pomeriggio, faccio qualche nota lunga con il saxofono. Non è una vera e propria melodia: a volte poi provo qualche brano, a volte mi limito alle note lunghe. Di solito è la prima parte del mio allenamento, e serve a cercare un timbro, a misurare l’efficienza dell’ancia e la posizione del bocchino. Mi metto in un angolo del mio studio, in modo che le pareti riflettano il suono e possa giudicarne la sostanza: se pieno, limpido, affannato, ricco di armonici o esitante, soffiato, liquido, sghembo. Piano piano, una nota dopo l’altra, cerco di trovare una voce che mi assomigli.
IMG_9109Dal profondo dell’addome, passando per i polmoni e per la gola, il respiro si propaga attraverso il sax, e raggiunge una tonalità, esprime un modo di essere. Se non so stare calmo, le note lunghe sono esitanti, si spengono subito. Allora mi concentro sui dettagli, sui millimetri di ancia e sulla mia posizione, sul fiato, sulla tastiera. Senza che me ne renda conto, per qualche minuto, la malinconia lascia spazio a un re bemolle basso, a un do diesis o a una nota sovracuta, raggiunta arrampicandomi in cima alla scala e poi buttandomi nel vuoto.
Non sono un bravo musicista; non lo sarò mai. Ma avventurarmi in queste terre ignote mi aiuta a tenere a bada i rannuvolamenti dell’anima, e m’insegna che per trovare una voce occorre fatica e ascolto. Soprattutto, bisogna accettare la propria fragilità. Così è pure quando scrivo, quando cioè mi esprimo nel mio campo: in quel caso, trovare una voce è un impegno necessario, al quale sto lavorando da anni, romanzo dopo romanzo. In fondo, se continuo a scrivere, è perché credo che questa sia la mia via d’accesso al mistero del mondo e di me stesso. Nella scrittura, la ricerca di una voce diventa condivisione della voce stessa, perché altri percorrano i paesaggi che ho esplorato nella mia solitudine.
IMG_9104Mi aiuta l’ascolto delle voci altrui. Nella lettura, naturalmente, ma pure nella musica. A volte il suono di un sax mi racconta cose di me stesso per le quali ancora non ho trovato le parole. In una delle sue prime poesie, scritta a ventun anni, Cesare Pavese evoca un’esperienza simile, vissuta durante una passeggiata. Fragorosa sul viale / ecco a un tratto l’orchestra si spegne. / Sull’orchestra in sordina, / canta spietato un saxofono rauco. // Fin la folla si arresta. / Le case indifferenti / gravano il cielo intorno. // Vibra la voce barbara. Il poeta sente che la musica frantuma i suoi pensieri, cancella la stanchezza e lascia l’anima come indifesa. È la mia voce stessa / che echeggia questa notte. / Nell’anima smarrita / canta alto, altissimo la solitudine / una canzone ubriaca della vita. / La stanchezza fuggita, non vivo per un attimo che all’urlo / modulato, esultante. / Tutta l’anima mia / rabbrividisce e trema e s’abbandona / al saxofono rauco. / È una donna in balia / di un amante, una foglia / dentro il vento, un miracolo, / una musica anch’essa.
Il saxofonista Billy Harper narra di aver sognato che stava camminando nella Settima Avenue di Manhattan; con sé aveva un vecchio mangiacassette vuoto. A un certo punto, dal cielo è scesa una gigantesca mano che gli offriva una cassetta. Allora Harper l’ha presa, l’ha inserita nel mangiacassette e ha udito sprigionarsi una melodia bellissima. In quel momento si è svegliato e subito è corso a suonare quella stessa melodia.

Il brano s’intitola If one could only see. Lo trovate nel disco The Roots of the Blues, in cui il pianista Randy Weston (nato nel 1926) suona in duo con lo stesso Billy Harper (nato nel 1943). Il disco è uscito nel 2013: nonostante Weston avesse ottantasette anni e Harper settanta, l’energia che i due sprigionano ha un impeto giovanile e una vitalità senza tempo.
IMG_9103Weston ha uno stile percussivo, intriso di blues in ogni tocco, mentre Harper, che viene dalla scuola texana (è nato a Houston), ha una sonorità rugosa e potente. In lui c’è una dimensione spirituale che ricorda Coltrane e nella quale riecheggiano anche le sue radici gospel. In più, quando Harper trova una nota lunga, ci si aggrappa e la spreme fino all’ultima goccia di sentimento, di significato, di speranza. Certe volte, alla fine della nota lunga, uno si volta a guardare e – come per incanto – non c’è più traccia della malinconia. Oppure, se la malinconia persiste, c’è la consapevolezza di non essere soli. Passando per la musica tutte le nostre malinconie si chiamano e si rispondono, come in un blues, e anche se il dolore rimane, almeno è un dolore condiviso.

PS: La lirica di Pavese fa parte della piccola suite Blues della grande città, scritta nel 1929. La si trova nel volume Le Poesie (Einaudi 1998). Entrambi i brani musicali vengono dal disco Roots of the Blues (Universal 2013), che presenta perlopiù brani composti da Weston, come Blues to Senegal, insieme a If one could only see (composto da Harper) e a qualche standard come Body and soul e Take the A train.

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PPS: L’immagine qui sopra è la copertina dell’album. Le prime due fotografie sono del mio sax; quella posta fra i due video è di Giuseppe Pino, tratta dal volume Sax! (Earbooks 2005). L’immagine qui sotto è un ritratto di Billy Harper, contenuta nel libretto di The Roots of the Blues e scattata da Jules Allen nel 2013.

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Merlità

C’è una poesia di Toti Scialoja che dice: L’uccello nero / salta leggero, / si chiama merlo / senza saperlo. L’altro giorno, tanto per fare conversazione, l’ho recitata a una bambina, suscitando grandi risate. Le ho chiesto per quale motivo ridesse e lei mi ha spiegato che il merlo era buffo, perché non sapeva nemmeno chi era. Allora mi sono informato: E tu lo sai chi sei? La bambina mi ha rivelato il suo nome, poi mi ha detto: Anche tu sai chi sei, no? Certo, le ho risposto, io sono il merlo.
fullsizerenderCi sono giornate così, da merlo. Saltelliamo leggeri (o più spesso arranchiamo pesanti) senza sapere bene chi siamo veramente. A volte, risalire a sé stessi è un’impresa. Nella maggior parte dei casi, cerco di avvicinarmi alla mia identità per mezzo del lavoro, ma talvolta è il lavoro stesso a privarmi di consistenza. Per farla breve, il mio mestiere è scegliere parole da presentare a chi vuole ascoltarmi. È chiaro allora che si crea un divario fra le mie parole e il mio “io”. Che le mie storie siano i miei saltelli? Che siano proprio loro a nascondermi il mio essere merlo?
copia-di-fullsizerenderBene, mi rendo conto che questi ragionamenti possano sembrare sintomo incipiente di schizofrenia. Provo a spiegarmi con un esempio. Il critico musicale Alain Gerber, nel suo Balades en jazz (Gallimard 2007), racconta di un incontro con il grande sassofonista Stan Getz (1927-1991). Siamo nel famoso locale “Chat qui pêche” di Parigi, un sabato pomeriggio. È un’ora senza incanto: nel seminterrato il giorno arriva come un filo di luce grigiastra, e fra le pareti ristagna ancora il fumo della notte precedente. Il sax di Stan Getz pende inerte dal suo braccio, mentre lui è assente, quasi stordito. Gerber è imbarazzato: poco prima ha visto Getz comportarsi in modo ridicolo, protestando per delle sciocchezze, scoppiando a piangere come un bambino. Aveva gridato, era diventato tutto rosso. Gerber riflette con amarezza: Quando l’avevo incontrato nei dischi in cui era di poco più vecchio di me, una dozzina di anni prima, l’avevo preso per un re di questo mondo. Confondiamo sempre i musicisti con ciò che non sono: in particolare, li confondiamo facilmente con la loro musica. Davanti ai miei occhi, il gigante si era trasformato in un bambino viziato. Odioso, irascibile e precario. Gerber non vuole rinunciare alle illusioni di gioventù, alla semenza ancora verde di un amore puro. Con uno slancio disperato, si mette allora a canticchiare Hershey bar, una di quelle melodie che avevano incoronato Stan Getz nei miei sogni, in passato. Il musicista si gira, lo guarda, fa un sorriso un po’ di gomma e si porta il sax alle labbra.

Quando suona, accade una sorta di prodigio, come se Stan Getz conoscesse da sempre Alain Gerber: le sue frasi leggevano in me come in un libro aperto. Il critico riflette: mai un concerto fu tanto privato come quello. Nello stesso tempo si rende conto di essere davanti a un enigma: qualcosa che possiedo senza comprenderlo. Ha l’impressione di aver colto un riflesso di paradiso: comme un reflet d’un paradis où l’on ne saurait pas son nom. Il paradiso allora significa scordarsi il proprio nome? In questo caso il merlo di Scialoja sarebbe sulla via giusta… ma non ne sono convinto. Getz era un uomo pieno di limiti, infantile, schiavo della droga; tuttavia, mediante il suo strumento, aveva il dono di creare una bellezza straordinaria. Qual è il vero Stan Getz, fra i due che si sono manifestati quel sabato pomeriggio in un seminterrato parigino? Non riesco a rispondere: per me lo sono entrambi. Forse non sono necessari i limiti, perché sorga la bellezza; ma di fatto mi pare che nel nostro mondo accada sempre così: la voce più pura nasce dall’imperfezione, e non c’è melodia sublime che non celi nel profondo una ferita.
Perciò, nel mio piccolo, cerco di stare lontano dalla pericolosa suddivisione fra le mie parole e il mio cosiddetto “io autentico”. So che anche quando invento storie dissemino qualcosa di me; e quando parlo delle mie faccende qui sul blog, non sempre riesco a trasmettere l’essenza del mio pensiero. Anzi, ogni tanto parto per dire una cosa e alla fine mi accorgo di averne detta un’altra. Chissà, magari capiterà anche stavolta…
image1Un tempo, nella scrittura, ero un perfezionista: come se tutto dipendesse dal mio scegliere le parole giuste. In parte lo sono ancora. Ma cerco di imparare ad accogliere gli imprevisti; e forse è anche per questa ragione che ho deciso di suonare il sax (ne ho parlato qui). Non ho nemmeno un centesimo della grazia di Stan Getz, naturalmente. Quando suono non mi trovo sul mio terreno – come accade invece quando uso le parole – e di continuo devo fare i conti con la differenza fra ciò che vorrei e ciò che sono. Ma non è così anche quando scrivo, in un certo senso? Per quanto possa pianificare e costruire, c’è un nucleo segreto al quale non accederò mai. In altre parole, anche quando il merlo scopre di essere merlo, non saprà mai fino in fondo in che cosa consiste la sua “merlità”. È una sofferenza? Direi di sì, è una continua incertezza; ma sapere tutto, forse, sarebbe ancora peggio. Ogni gesto creativo, ogni atto di comunicazione è in gran parte misterioso. Come cantava Gianmaria Testa: …e non sapremo mai / da che segrete stanze / scaturisca il canto / e da quali lontananze, paure, rabbia / tenerezza / o rimpianto / e da quale nostalgia / prenda voce e parta / questa lunga scia / che ancora adesso / e imprevedibilmente / ci porta via.

PS: La poesia di Scialoja viene da Amato topino caro (Bompiani 1971); si trova pure nella raccolta Versi del senso perso (Einaudi 2007). La canzone di Testa è presa dall’album Extra-muros, pubblicato nel 1996 (Tôt ou tard) e poi ancora nel 2005 (Harmonia mundi). L’incisione di Hershey bar è avvenuta a New York il 17 maggio 1950; insieme a Getz ci sono Al Haig al pianoforte, Tommy Potter al basso e Roy Haynes alla batteria; il brano si trova in The complete Roost sessions (Definitive Classics 2008). Non so a quale epoca risalga l’aneddoto di Gerber (nel libro non lo specifica), ma credo che sia negli anni Sessanta. I merli sono quelli del gioco Il mio primo frutteto (Erster Obstgarten, Haba 2009). La fotografia di Stan Getz è di Giuseppe Pino, tratta dal volume Sax! (Earbooks 2005).

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