Da tre o quattro anni, all’inizio di novembre, non vado a Sarajevo.
La tradizione cominciò quando venni invitato a tenere una conferenza, nel 2011 o 2012. All’ultimo momento però dovetti rinunciare, a causa di un impegno di lavoro. Negli anni successivi ci riprovammo, ma succedeva sempre qualcosa: un disguido, una malattia, un’emergenza.
Finché arriviamo al 2015. Questo è l’anno buono. Prendo il biglietto d’aereo, preparo il mio intervento, scrivo alla persona che parlerà con me (un professore dell’università locale). La sera prima ho una riunione e finirò tardi, perciò riempio la valigia in anticipo. Haris, il mio gentilissimo interlocutore a Sarajevo, ormai non ci credeva più, e mi assicura con entusiasmo che verrà a prendermi all’aeroporto. Non l’ho mai incontrato, ma ci conosciamo da anni: non passa novembre senza che facciamo lunghe conversazioni telefoniche, di solito in francese.
Abbiamo però sottovalutato la “maledizione di Sarajevo”. La sera intorno alle nove ricevo un messaggio dalle Austrian Airlines: sono cambiati i “booking details” e per me è previsto un “new flight”… un volo diverso che, guarda caso, arriverà un paio d’ore dopo la fine della conferenza. Comincia allora una lunga nottata: chiamo Haris, chiamo la compagnia aerea, vengo messo in attesa e mi ascolto Sul bel Danubio blu, torno alla riunione, chiamo di nuovo Haris, la compagnia, Sul bel Danubio blu, Haris, riunione, Danubio, Haris… finalmente mia moglie, da casa, dopo essere quasi affogata nel Danubio, riesce a parlare con una centralinista, ma scopre che non esistono soluzioni. Anche quest’anno non andrò a Sarajevo. Haris, nel cuore della notte, ha ancora la forza di rassicurarmi: ma l’anno prossimo ce la faremo, vedrai.
Sarajevo. Ormai è diventata una terra promessa, una città mitica e fiabesca. Anno dopo anno, è il posto da immaginare senza vederlo, è il viaggio da fantasticare senza compierlo. Forse è giusto così: forse ognuno deve avere un luogo da sospirare, una palestra per l’immaginazione.
Negli anni scorsi mi è capitato di tenere conferenze in vari paesi: Russia, Cina, Turchia, Germania, Spagna… Ogni volta è stata un’esperienza memorabile, e ogni volta ho imparato qualcosa sul mio mestiere, grazie al confronto con lettori e colleghi. Per fare soltanto un esempio, in Cina ho incontrato un artista della calligrafia. Il suo campo d’azione è il parco Fuxing, a Shangai. Intinge un pennello nell’acqua e sul vialetto riproduce gli ideogrammi di un poema antichissimo. Con mirabile precisione traccia i suoi ghirigori, mentre il sole asciuga l’acqua, tanto che alla fine del poema già l’inizio sta scomparendo.
La letteratura dunque è volatile come acqua al sole? Ma le storie rimangono. Poco distante dal parco, c’è un cantastorie che proietta delle immagini dietro un paravento. La gente fa la coda per accostare gli occhi a una fessura e per ammirare marinai, guerrieri e sirene. La voce del narratore (con tanto di microfono) racconta in cinese una vicenda di amore e avventure. Anch’io ho visto, ho ascoltato e non ho capito niente. Ma in un certo senso la vicenda di quell’eroe che cerca di tornare a casa mi sembrava di conoscerla, mi sembrava che mi appartenesse.
Dalla Cina ho imparato che le storie sono una materia fragile e insieme resistente. Perciò bisogna raccontarle con leggerezza (sono solo storie), ma anche con umiltà e rispetto (noi siamo quelle storie).
E da Sarajevo, che cosa ho imparato?
Forse che c’è sempre una storia nuova, ancora da raccontare. In quell’attimo, prima del “c’era una volta”, tutte le strade sono ancora aperte, e davanti a noi c’è la vertigine delle possibilità, come in un’eterna giovinezza. Ho imparato questo e, come bonus, ora sono pure capace di canticchiare Sul bel Danubio blu. Ma l’anno prossimo, vedrete, tutto andrà liscio e finalmente vedrò Sarajevo, finalmente il mistero si svelerà… o forse no.