rOssUrAcArÌ

Mi capita spesso di andare in bicicletta da Rossura a Carì, nella parte alta della valle Leventina (nel Canton Ticino). È una salita ripida, lunga una decina di chilometri. Ho sempre pensato che il suono dei due toponimi, nel mutare delle vocali, riassumesse il percorso: all’inizio, dopo il bivio tra Faido e Rossura, il respiro comincia a farsi difficile (rO), poi l’affanno cresce chilometro dopo chilometro (ssU), finché dopo Campello arriva un tratto pianeggiante per tirare il fiato (rAcA), prima dell’ultimo strappo (rÌ) dove braccia, cuore e polmoni si aggrappano al manubrio.
Viaggiare in bicicletta, anche quando si arranca come nel mio caso, non consente l’immersione nel paesaggio di chi va a piedi; ma non c’è neppure il distacco di un transito in automobile. In bicicletta riusciamo ad afferrare qualche dettaglio – un frammento di frase, un profumo – ma poi siamo già lontani. Quando camminiamo, in un certo senso, facciamo una piccola pausa a ogni passo, mentre in bici il nostro corpo deve piegarsi alle esigenze implacabili di una macchina. Salendo verso Carì, per esempio, sento il battito di un picchio nel bosco, vedo guizzare una biscia in una macchia di rovi; addirittura, a un certo punto, un cerbiatto spaventato mi taglia la strada. Ma è un lampo: appena registro la presenza degli animali, sono già oltre. A Calpiogna suonano le campane di mezzogiorno. Nell’aria, si diffonde un odore di salsicce alla griglia. Alle finestre c’è un profluvio di bandiere rosse con la croce bianca (il primo di agosto è la festa nazionale svizzera). A Molare, alla fine di un chilometro impervio, appare una catasta di legna che aspetta di consumare il suo destino come falò.
A lungo salgo da solo, poi vengo superato da qualche automobile. Passa pure un idiota che taglia le curve a una velocità folle: mi viene in mente che, se fossi stato in discesa, avrei corso il rischio di venire falciato. Qualcuno sta pranzando fuori su tavoli di legno, altri fanno il bagno in piscina. Seminascosta da una siepe, noto una fanciulla dal corpo dorato, distesa a prendere il sole con il petto scoperto. Ma la macchina, come dicevo, è implacabile: tutto viene consumato nel flusso dei pedali…
Ci sono cartelli che annunciano case e terreni in vendita. Nel momento in cui il sole picchia più forte, mentre la fatica si fa sentire, mi viene in mente che potrei fermarmi qui, come facevano i pionieri che andavano verso ovest: comprare un pezzo di terra, costruire un ranch e mettere su un allevamento di cavalli. L’idea assurda si dissolve nel momento in cui nasce, anche perché la strada sale, s’impenna ancora.
Le curve diventano momenti preziosi, in cui prendere un respiro più lungo prima di alzarsi sui pedali. Sulla sinistra avvisto un cartello che segnala un distributore self service di formaggio, aperto ventiquattr’ore su ventiquattro. M’immagino un buongustaio che, colto da improvviso appetito nel cuore della notte, si arrampichi fin quassù, inserisca la carta di credito e ottenga l’agognato pezzo di Piora o di formaggella.
Un paio di anni fa anche il Giro della Svizzera fece tappa a Carì. Resta ancora qualche segno: una sagoma di ciclista sul tetto di un garage e alcune scritte sull’asfalto. Mi limito a segnalarne tre: 1) Un incitamento a Fabian Cancellara, un professionista che nel frattempo si è ritirato (ma il suo nome dura ancora sulle strade); 2) Un gigantesco pene maschile, sbiadito ma tenace; 3) lo slogan W IL NOCINO, proprio nel tratto più impegnativo.
La borraccia è ormai vuota. M’inerpico verso la fontana che mi aspetta alla fine, ai margini di un prato. Solo il primo sorso di acqua fresca interromperà la sofferenza. Perché in fin dei conti andare in salita con la bicicletta è un gesto che provoca sofferenza. Nient’altro. Forse è proprio per questo che mi piace. Non mi aiuta a rilassarmi, non è una cosa divertente, non ha aspetti socievoli (vado sempre da solo), non ho bisogno di perdere peso e non sento l’esigenza di fare sport.
Fra l’altro, mi piace uscire negli orari in cui il sole è a picco: il caldo, il sudore, la tensione nelle gambe e nelle braccia, il respiro spezzato… ho la sensazione che tutto questo serva a bruciare i pensieri neri, portandomi in una dimensione dove esiste solo il presente. Il cervello è intento nella prossima pedalata, nella prossima curva, e non può soffermarsi nella tristezza. Sebbene questo in realtà non sia del tutto vero: lungo un tratto lontano dagli abitati, in mezzo a un bosco, noto una palla di plastica colorata dentro un tombino. Non ci sono case, nei paraggi, non ci sono ragazzi né piscine. Mi chiedo da dove sia rotolata la palla e quanto durerà, nell’ombra perenne di quel buco. Inevitabilmente, paragono il percorso della palla smarrita al mio, al nostro. Quando anche noi rotoleremo via, presto o tardi, da quale genere di tombino oscuro dovremo passare?
Mi sembra però che nello sforzo di salire la riflessione non sia del tutto nefasta. Ai bordi della via, ci sono parecchie cappelle con dipinte scene sacre. Una, in particolare, mostra Gesù appena deposto dalla croce nelle braccia di Maria, coperta da un manto azzurro che spicca da lontano. Anche questo dolore immenso si unisce alla mia piccola sofferenza, al mio affanno. Penso alle persone ammalate, penso ai morti che ho conosciuto, li passo in rassegna uno per uno mentre salgo. Può darsi che, in qualche maniera inesplicabile, la mia fatica abbia una doppia funzione: da un lato mi aiuta ad avere ben presenti i morti, il male, la disperazione; dall’altro mi permette di gettare i pensieri nel prossimo giro di pedali, senza indugiare nelle ombre della malinconia.
Quando scrivo ho l’impressione d’innescare un meccanismo simile. La differenza è che la salita in bicicletta non costruisce niente, mentre la scrittura lascia un segno che può essere condiviso. Proprio questa prospettiva, la condivisione dell’interiorità che diventa racconto, è ciò che mi motiva a scrivere. A volte però mi capita di chiedermi se il senso più profondo non consista nell’offerta – che sia un romanzo o una salita. Come se fosse necessario offrire la fatica per mettere a nudo frammenti di sé o del mondo.
C’è un brano di John Coltrane che esprime bene questo aspetto: infatti s’intitola proprio Offering. So di aver già parlato di Coltrane un paio di settimane fa, per ricordare i cinquant’anni dalla sua scomparsa, ma mi pare opportuno proporre l’ascolto di questo pezzo stupefacente. (Non si tratta di musica facile: le orecchie sensibili stiano in guardia…) Per me il sax tenore di Offering è figura di un uomo che s’inerpica su una china, in bicicletta o a piedi, raggiunge l’apice dello sforzo e poi, finalmente, si placa nel respiro libero e lirico della discesa.

Per una cinquantina di secondi Coltrane suona volute di note che si alzano come segnali di fumo (mi pare che riprenda qualcosa da Aknowledgement, in A Love supreme). È accompagnato da Alice Coltrane al piano, Jimmy Garrison al basso e Rashied Ali alla batteria. Poi, lentamente, cresce l’onda del delirio. Il basso tace, o forse ha sempre taciuto, sopraffatto dalla forza d’urto. Anche Alice Coltrane si ferma, intimorita. Rashied Ali invece incalza Coltrane, lo pungola, lo sferza, e la furia tumultuosa del sax diventa frastuono, urlo, strazio, tensione vibrante verso un oltre che non si lascia afferrare. Infine, cessata la tempesta, tornano gli accordi del pianoforte. Ora il sax è quasi melodico, intriso di tutto ciò che è riuscito a sfiorare lassù, dove il fiato si fa corto e appaiono visioni nel nitore dell’azzurro.

PS: Offering si trova nell’album Expression (Impulse, settembre 1967). Il brano venne registrato il 15 febbraio 1967; pochi mesi dopo, il 17 luglio, Coltrane morì per un tumore allo stomaco.

 

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La mauvaise réputation

Perché la Svizzera è una nazione?
Ogni tanto Natalia se lo domandava. Gli svizzeri non parlano la stessa lingua, non hanno la stessa religione e nemmeno la stessa cultura, non mangiano le stesse cose, non si vestono allo stesso modo. Perché hanno deciso di stare insieme?
Ci sono ragioni storiche, Natalia lo sapeva. Ma se incontrava uno svizzero tedesco, faticava a comprendere ciò che le diceva. È mai possibile che due compatrioti non possano comunicare? Del resto, la stessa Natalia era un esempio perfetto del mistero elvetico: era fiera del suo paese e non lo avrebbe cambiato con nessun altro, anche se aveva rinunciato a capire lo schwitzerdütsch. In fondo, gli svizzeri hanno almeno il privilegio di poter andare all’estero restando in patria.
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Nel romanzo La sparizione, pubblicato da Guanda nel 2010, raccontavo di un delitto avvenuto durante la festa nazionale svizzera del primo di agosto. La protagonista Natalia, una ragazza di diciassette anni, si trova in un paese fra le montagne del Canton Ticino. È triste, perché da poco ha perso suo padre, ma come ogni anno appende alla finestra la bandiera rossa con la croce bianca: era un gesto che faceva insieme a suo padre, ora è un modo per ricordarlo.
Penso che la patria sia soprattutto questo: un legame con chi è venuto prima di noi. Da qualche parte su questa terra dobbiamo pur vivere, e non si può vivere senza condividere parole, usanze, ricordi. Ecco, questa condivisione fra vicini di casa con gli anni diventa una bandiera, una costituzione, un insieme di leggi. Ma tutto questo ha valore solo se riesce a incarnarsi nel filo dei giorni, nella banalità dei gesti quotidiani più che nella retorica. Non sono mai stato particolarmente patriottico, né mi sono mai appassionato alla politica; ai discorsi durante le cerimonie ufficiali preferisco il silenzio che segue quando tutto è finito e qualcuno smonta il palco. Il fatto che io sia un cittadino svizzero in fondo è casuale: potrei essere nato altrove o potrei condurre vita nomade. Ma è successo invece che sia nato qui, e allora ogni tanto mi capita di riflettere sul mio paese.
IMG_5623Spesso (non sempre) ambiento le mie storie in Svizzera. Questo non solo perché mi costa meno tempo in viaggi e ricerche, ma soprattutto perché ritengo che sia un luogo affascinante e meritevole di narrazione. La Confederazione elvetica è uno stato unico al mondo: al centro dell’Europa, crocevia di genti e culture, miracolo di convivenza fra popoli diversi. Sono fiero di essere svizzero? Sì, ma sono anche incuriosito. Com’è possibile questa anomalia geografica e politica? Che cos’è oggi la Svizzera, che cosa rappresenta per chi come me, di lingua e cultura italiana, tenta di vivere facendo lo scrittore?
IMG_5627Della Svizzera naturalmente non mi sfuggono i limiti, i difetti (talora molto preoccupanti). Tuttavia, quando scrivo, il mio scopo non è scoperchiare le vergogne sotterranee del paese, bensì rappresentarlo così com’è, con il suo reticolo di luci e ombre. Anche quando ho parlato del primo d’agosto, ho voluto mostrare la doppia faccia della medaglia: la festa, con i petardi e il falò, ma pure la solitudine di chi è tagliato fuori, la malinconia di chi non riesce a partecipare. Sempre nel romanzo La sparizione, proprio mentre sfavillano i fuochi d’artificio, Elia Contini litiga con Francesca, la sua ragazza. Lei lo rimprovera di non avere progetti seri per il futuro, lui preferisce scansare il conflitto. Allora Francesca se ne va. E Contini?
Rimase a lungo in silenzio. Dopo un po’, si accese una sigaretta. Finì di bere il vino. Ogni tanto qualcuno faceva scoppiare un petardo. Il gatto grigio arrivò di corsa dal sentiero e si rifugiò in un angolo. Che c’è, gatto, non ti piace il primo d’agosto? Il gatto muoveva la coda. Non so, Contini, più che altro apprezzo la pace. E tu?
Io cosa? Io che cosa sto cercando, pensò Contini, che cosa voglio?
Domanda troppo complessa, per il momento. E poi i gatti non amano le domande. Contini si chinò a dare un buffetto alla bestiola, poi si alzò e rientrò in casa. Qualche minuto dopo, ne uscì con abiti scuri e una macchina fotografica. S’inoltrò nel bosco.
Percorse qualche metro fra gli arbusti e i noccioli, poi sbucò sul sentiero e se ne allontanò di nuovo per inerpicarsi su un pendio. Traversò una macchia di faggi e scese verso il Tresalti. Sapeva che di là dal torrente c’erano grandi cespugli di more e lamponi. Spesso accadeva che una delle volpi si spingesse fin lì per mangiare frutta. Forse per le more era un po’ presto, ma i lamponi erano già belli grossi.
Contini si nascose sul bordo del Tresalti. Trovò una posizione comoda, accese la macchina fotografica. Alla luce della luna, il bosco era un fondale nero, sul quale si muovevano ghirigori di rami e foglie mosse dal vento. Contini abituò gli occhi all’oscurità e si preparò ad aspettare.
Il primo d’agosto è la festa nazionale, e tutte le nazioni in fondo si assomigliano: c’è chi guarda i fuochi d’artificio, chi canta, chi ricorda i propri cari scomparsi, chi ascolta i discorsi, chi li pronuncia, chi accende i falò e chi se ne va nel bosco a cercare le volpi. È giusto così. In fondo, una comunità umana ha bisogno anche dei solitari, dei refrattari, degli scorbutici. Quelli che hanno una mauvaise réputation e che il giorno della festa nazionale se ne stanno a letto a dormire, come racconta un cantautore molto amato da Contini.

In conclusione, buon primo d’agosto a tutti: a chi dorme, a chi festeggia (e a chi cerca le volpi, naturalmente…).

PS: Mi è già capitato qui sul blog di riflettere sul tema dell’integrazione (una parola assai pronunciata nei discorsi ufficiali). Potete inoltre scaricare qui, in formato digitale a 0.99 euro, il racconto Swisstango, nel quale fra le altre cose evoco alcuni luoghi comuni elvetici visti da uno straniero (poi c’è di mezzo anche una rapina nel cuore della Svizzera… ma proprio nel cuore che più cuore non si può!).

PPS: La mauvaise réputation risale al 1952. So che forse non è il brano più appropriato per la festa nazionale… Ma consideriamolo un omaggio a Contini. E comunque, dopo Brassens, potete sempre ascoltarvi anche l’inno svizzero.

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