Propongo anche qui un articolo apparso sabato 21 marzo 2020 sul quotidiano svizzero “La Regione” (lo potete leggere nel sito del giornale). Non ho modificato il testo, ma ho aggiunto qualche fiore primaverile.
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Quando esco a fare la spesa, nelle strade vedo facce tirate e sguardi che misurano le distanze. Abbiamo paura, è normale. Una certa ansia è inevitabile e perfino utile. Mi chiedo tuttavia: come fare perché il panico non abbia l’ultima parola? Più che limitarci a esclamare #iorestoacasa, dobbiamo forse aiutarci a dare un senso a questo limite, a questa immobilità. Non basta sognare il futuro – #andràtuttobene – ma possiamo cercare forme di bellezza anche dentro le circostanze avverse. Dopo che hanno chiuso le scuole elementari, le mie figlie hanno cominciato a giocare alla scuola. Ognuna delle due impersonava il ruolo di una maestra. Entrambe avevano una classe di una ventina di allievi, a cui si rivolgevano con domande, richieste, rimproveri. Hanno invaso ogni spazio con esercizi, compiti, comunicazioni ai genitori, pagelle, quaderni, carta, colla, matite. Le loro maestre (quelle vere) hanno inviato dei compiti (veri), ma tutto si mescola nel gioco e la mia casa è piena di alunni immaginari: me li ritrovo sul divano, in sala da pranzo, nel mio studio. Prima di andare in bagno, ormai, dico alle bambine: se ci sono allievi immaginari qui dentro, per favore cacciateli fuori! Fra l’altro, proprio in questi giorni avremmo dovuto traslocare, ma naturalmente non è possibile. Siamo ancora qui, viviamo un’altra primavera dentro queste mura a cui avevamo già detto addio. A volte le mie figlie scorgono dall’altra parte del giardino una loro coetanea. Si scambiano qualche parola con imbarazzo, nonostante abbiano passato intere giornate a giocare insieme. Non sono abituate alla distanza. A me sembra triste vederle così, ma dopo un po’ le bambine cominciano a scambiarsi informazioni. «Quante figlie avevi tu?» chiede l’una indicando le bambole dell’altra. «Sette» risponde l’interpellata, e precisa che «erano tutte appena nate». Io mi complimento per il parto settigemellare e mi abituo all’idea di essere nonno. Ecco una forma di resistenza: affidarsi all’immaginazione per combattere l’angoscia. Certo, il dolore non si cancella, anche perché la pandemia non è uguale per tutti. C’è chi deve spostarsi ogni giorno per lavorare, chi è senza casa, chi è separato dai suoi famigliari, chi non riesce più a tirare avanti. Non siamo in grado di colmare tutte le sofferenze, ma possiamo fare del nostro meglio per infonderci coraggio. Come scrittore, non capisco se sia meglio offrire la mia testimonianza o il mio silenzio. Se mi avventuro nei social network vengo inondato da un flusso di notizie, teorie, discussioni, litigi, appelli, racconti, drammatizzazioni e sdrammatizzazioni… Questo mi spaventa. Perché proprio io dovrei aggiungere altre parole? Il romanziere Andrea Pomella, descrivendo sé stesso mentre in questi giorni fa ginnastica insieme a suo figlio, annota che gli è «sembrato di sentire la sua voce da grande che tenta di ricordare. Allora – aggiunge – ho pensato che non voglio perdermi niente, nemmeno queste giornate messe in fila sul davanzale come bottiglie vuote ad asciugare». Anch’io tento come tutti d’infondere vita a queste giornate-bottiglie. Perciò scrivo questo articolo, leggo, riordino la casa, cucino, suono il sax, mi cimento con lo studio dell’arabo (o almeno ci provo…), ogni tanto lavoro alla radio e mi collego con i miei studenti liceali per le videolezioni. L’altro ieri abbiamo letto insieme Vittorio Sereni, e in particolare un testo risalente agli anni Quaranta. Prigioniero degli americani in Algeria, il poeta scopre che è difficile pensare ad altro «poiché questo è accaduto: che i fatti si sono sostituiti alle immagini; che quattro o cinque sentimenti elementari si sono sovrapposti all’immaginazione». Guardando sullo schermo le facce degli allievi, ho indovinato nei loro sguardi la stessa difficoltà a pensare ad altro. Tuttavia, insieme alla fatica di restare sempre in casa, ho intravisto anche la consapevolezza che non sia inutile, in queste circostanze, parlare di poesia. Sereni racconta che nel campo di prigionia c’era chi scriveva, come lui. Ma subito dopo dice che la sua fiducia è soprattutto «per l’ignoto che tornerà a casa senza preziosi quaderni nel sacco perché osa ancora credere alla pazienza e alla memoria». Ecco un’altra forma di resistenza: credere alla pazienza e alla memoria.
Proseguendo la lezione, ci siamo imbattuti in un perfetto endecasillabo: «Così, distanti, ci veniamo incontro». Un verso composto da Sereni più di settant’anni fa, in una situazione diversa, ci ha raggiunti come un dono (qualcuno ha detto che potrebbe diventare un hashtag: #cosìdistanticiveniamoincontro). Ho deciso che lo prenderò come un’indicazione di rotta. La disponibilità all’incontro, all’incontro vero, può aiutarci a lottare contro la sofferenza, le ingiustizie, la paura, la fatica.
«Così, distanti, ci veniamo incontro.»
PS: Grazie al quotidiano “La Regione” e in particolare a Lorenzo Erroi, che mi ha esortato a scrivere questo articolo nonostante la mia iniziale reticenza. Grazie anche ad Andrea Pomella: la sua immagine di questi giorni come bottiglie vuote mi ha spinto a riflettere sulla mia quotidianità.
PPS: Ho scattato queste fotografie nelle scorse settimane (fino all’inizio di marzo). La prima immagine, invece, ritrae una genziana primaticcia cresciuta nel giugno 2019 sull’altopiano della Greina, a circa 2300 metri sul livello del mare. Ho sempre amato le genziane primaticce (Gentiana verna) perché in luoghi aspri e remoti annunciano lo scioglimento delle nevi. Il loro blu profondo, misterioso, esprime la lontananza e forse anche la promessa di una stagione più serena.
PPPS: Dal sito del liceo, ecco un frammento di video in cui – rispondendo a una domanda sulle lezioni in diretta video – cito anche il verso di Vittorio Sereni.
“Viaggi immaginari” è una serie di reportage da luoghi che non ho mai visto, scelti a caso sulla mappa del mondo. A farmi da guida l’antico gioco Hanafuda, che scandisce le stagioni dell’anno. Ogni mese le carte mi accompagnano nella scrittura di un racconto di viaggio e di un haiku.
Novembre Hanafuda: Salice / Poeta / Rondine Luogo: as-Summan (لصمّان), Arabia Saudita
Coordinate: 23°40’19.6″N; 49°25’45.3″E
(Latitudine 23.67210; longitudine 49.42926) La scrittura, così come la lettura, è un modo di allungare la strada. Se nella mia vita devo andare da un punto A a un punto B, come dicono i matematici, se devo affrontare qualsiasi esperienza, potrei scegliere la via più rapida, quella più efficiente. Il gesto di prendere un foglio e scrivere – o di aprire un libro e leggere – è una perdita di tempo, una sorta di espediente per vivere vite che non sono la mia. Eppure, quanta ricchezza in questa divagazione fra il punto A e l’inesorabile punto B.
Capita a volte di sorprendere una lentezza, una sospensione nascosta nelle cose ordinarie. Qualche giorno fa stavo tornando a casa lungo una strada che dal centro della mia città porta verso la collina. Faceva freddo, perciò la mia intenzione era quella di affrettarmi per arrivare il più presto possibile. Eppure, a un certo punto, mi sono fermato, e in pochi secondi mi sono accorto che stavo leggendo il mondo in maniera diversa. Mi sembrava di essere al centro di un mosaico, le cui tessere si disponevano con precisione. Poco più avanti passava un treno, orizzontalmente; di fianco a me scorrevano le automobili, verticalmente. Sulla sinistra, dietro la vetrata di una palestra, ragazzi con abiti colorati ripetevano lo stesso gesto; sulla destra, ingrossato dalla pioggia, scendeva un torrente. Ogni tessera aveva un suono o un silenzio: lo sferragliare del treno, il pigolare degli uccelli, il rombo delle automobili, il gorgoglìo del ruscello, le azioni mute dei ginnasti dietro la vetrata.
Prima la realtà sembrava una cosa sola, come se fosse un monolite. Dopo la mia sosta, invece, le singole tessere del mosaico spiccavano nel loro splendore. Ho cercato di riprodurre questa sensazione anche nel mio viaggio ad as-Summan, in Arabia Saudita. È stato più difficile, perché all’inizio percepivo soltanto il vuoto. Poi, passato qualche minuto, il vuoto è diventato qualcosa di ancora più lancinante: un’assenza, una privazione. Stavo camminando sull’altopiano di as-Summan, che si estende per quattrocento chilometri a est di ad-Dahna. Procedendo verso nord, in direzione del Golfo Persico, dopo un centinaio di chilometri avrei incontrato una regione meno improba, intorno all’oasi di al-Aḥsāʾ, la più grande di tutto il paese, abitata fin dalla preistoria. Ma non era mia intenzione percorrere tutti quei chilometri: ero al volante di una vecchia Toyota e avevo bisogno di fare benzina. Il mio piano era quello di procedere fuori strada per circa quattro chilometri; poi avrei trovato una strada che in un’ora mi avrebbe portato fino alla città di Haradh, famosa per le installazioni petrolifere e del gas. Ma non è di tutto ciò che voglio parlare, né dell’atmosfera di Haradh, con le sue case piccole e bianche, raggruppate insieme, e intorno un immenso cantiere, un mostruoso pianeta di tubi, acciaio e cemento. Quello che mi piacerebbe descrivere è proprio quel momento in cui mi sono fermato, ho girato lo sguardo intorno e non ho trovato niente. Nessun appiglio per gli occhi, nessuna tessera del mosaico. Mi è venuto un pensiero bizzarro: questa situazione è tanto diversa da quella che ho trovato lungo la strada che portava a casa mia? Che cosa si nasconde dietro l’asfalto, il ruscello, il vetro, i binari della ferrovia? Il nulla è sempre a un passo da noi. Abbiamo costruito, nei secoli, nei millenni, abbiamo abitato la terra, l’abbiamo trasformata. Abbiamo il desiderio di lasciare un segno, ma fino a quando? Tuttavia, proprio nel profondo del deserto ho sentito che questo desiderio non è vano. Anche se il vento cancellerà ogni cosa, anche se il tempo macinerà le nostre opere, averle compiute non è privo di senso. Il bisogno della bellezza è inestirpabile nell’essere umano, così come la necessità di far fiorire i deserti, che siano geografici o esistenziali. Guardo le carte di novembre. Il Salice è un invito ad accogliere quanto succede, a sapersi piegare, adattare, mentre il Poeta (o L’Uomo della Pioggia) è un invito a insistere, a non demordere nel seguire la propria esigenza espressiva. L’uomo si chiamava Ono no Michikaze (894-966), conosciuto anche con il nome di Ono no Tōfū. Fu lui il primo a dare i tratti distintivi alla calligrafia giapponese, distinguendola da quella cinese. Si racconta che un giorno, deluso e amareggiato per la mancanza di risultati nel suo lavoro, si soffermò a osservare una rana che tentava di saltare sopra il ramo di un salice: dopo sei balzi falliti, la rana riuscì infine nel suo obiettivo; e in quel momento Ono no Tōfū trovò la forza interiore per proseguire nella sua ricerca. Oggi il calligrafo è raffigurato su una carta da gioco, nello stesso mese in cui appare anche il Fulmine: l’imprevisto, l’azzardo, l’ignoto che, mentre porta scompiglio, può condurre verso una rivelazione.
HAIKU
L’eco di un fischio indugia sopra i tetti – L’ultima rondine.
PS: Ho inserito un frammento audio registrato proprio nel momento in cui vedevo comporsi le tessere del mosaico.
#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.
La piazza chiama. Noi rispondiamo.
Che non sia un giorno come gli altri appare subito evidente. Per cominciare, siamo entrambi in anticipo di mezz’ora: alla stazione di Zurigo, senza dire nulla, ci troviamo in quello che è ormai diventato l’unico posto possibile (per incontrarsi). Il cielo, poi, è di un blu troppo intenso per non nascondere qualcosa. Percorriamo rapidamente la distanza che ci separa da Paradeplatz, seguendo la scia di cavi a penzoloni che di notte rendono magica – si dice – la Bahnhofstrasse, illuminando la via con una pioggia di stelle. Di giorno invece le luci spente esaltano l’assenza di colori. Giacche, loden, mantelli oscillano fra il nero e il grigio. Le facce dei passanti appaiono pallide, affaticate, mentre il freddo punge la pelle. I raggi del sole, che pure ci sono, sembrano il ricordo ostentato di un lontano torpore, un po’ come quando davanti a una palazzina si sente dire «qui una volta c’era un prato, c’erano i fiori, ci venivo a giocare». All’inizio, appena giunti a Paradeplatz, non ci accorgiamo di niente. Poi, dopo qualche secondo, ci rendiamo conto di essere circondati. Intorno a noi è schierato un esercito nemico: un corpo di fanteria composto da appuntiti alberi di Natale ci sta prendendo di mira dai tetti dei palazzi, dalle vetrine, dagli angoli delle strade. Cerchiamo rocambolescamente riparo nel Lichthof, il cortile interno dell’edificio che ospita la Crédit Suisse, ma cadiamo in un agguato. Gli alberi, tutti identici nella loro agghiacciante opulenza, sono disposti in una sinistra simmetria tra il colonnato marmoreo e le vetrine delle boutiques. Cresce l’inquietudine. Davanti ai nostri occhi, nel centro del centro di questa sorta di chiostro, la fontana è diventata un altare in attesa del sacrificio e del sangue. Ripariamo all’esterno dove, istintivamente, proviamo a difenderci nell’unico modo che conosciamo: prendiamo i nostri taccuini, afferriamo la penna con le dita rigide e cerchiamo apparizioni. L’attesa dura poco. Tempo di sedersi ed ecco un Uomo Senza Macchia, vestito completamente di bianco. Un imbianchino in pausa pranzo? Un arcangelo che con questo freddo preferisce viaggiare in tram? L’assoluto candore dei suoi abiti è una risposta alla monotonia cromatica, agli sguardi smorzati, all’austera cortesia dei passanti. Poco dopo, nel gelo della piazza, ad attirare la nostra attenzione sono i capelli grigi dolcemente ondulati di un’anziana ed elegante signora, che si avvicina leggiadra alla fontanella. I pochi gesti che seguono sono tra i più antichi nella storia dell’umanità: una donna si avvicina a una fonte, si china, accosta le labbra all’acqua, beve. A confermare questo sussulto di vitalità, da un tram sbarca una scolaresca. Un nugolo di bambini circonda la nostra panchina. Come sempre, sono fra i pochi avventori che sostengono il nostro sguardo senza imbarazzo, osservano i taccuini, si siedono accanto a noi spontaneamente, evitando la più svizzera e improbabile delle domande: isch da no frei, è ancora libero qui? Presto si accendono risate, parole squillanti e ancora, all’improvviso, una canzone.
Forse pungolati dalla maestra, fatto sta che i bambini cantano. Intorno continuano a muoversi le signore impellicciate, gli uomini d’affari, i vecchi dallo sguardo perduto. Qualcuno accenna un mezzo sorriso, la maggior parte lancia un’occhiata rapida e tira diritto, verso il prossimo appuntamento. Dopo tanti mesi, oggi troviamo la parola per definire questo luogo. Non è una parola nuova, l’abbiamo già menzionata più volte nelle nostre conversazioni e diversi suoi sinonimi hanno già trovato spazio nei nostri testi. Eppure solo oggi la sentiamo emergere definitiva: Paradeplatz è e rimane uno svincolo. Un posto da cui si deve transitare per raggiungere una destinazione. Non sarà mai una di quelle piazze dove la gente sosta, perde (cioè guadagna) tempo, avvia conversazioni. Di qui si continua a passare in fretta, con il pensiero rivolto altrove. È proprio questo, paradossalmente, che rende possibile una mescolanza sociale vertiginosa, difficile da ritrovare in altri luoghi di assembramento. Esistono piazze frequentate dai giovani, altre dai pensionati, alcune predilette dai turisti, altre dai lavoratori. Qui invece gli estremi si sfiorano con naturalezza. Da una limousine tirata a lucido scende un individuo sicuro di sé, dallo sguardo sfacciatamente determinato. Mastica una gomma sbattendo la bocca, con un gesto che mette in evidenza i muscoli della mascella. A pochi metri da lui c’è uno sfaccendato con un abito troppo leggero: finisce di fumare, getta il mozzicone per terra e si avvia come uno che non sa dove andare. Nella mano tiene un enorme pacco di patatine chips. Arriva una guida turistica con il suo gruppo di seguaci. Mentre snocciola dettagli sulla piazza, si affretta a precisare: hier ist das Geld, è qui che stanno i soldi. Intanto un mendicante gira intorno alla pensilina, augurando buon Natale e chiedendo spiccioli per un caffè.
Certo, avere attraversato questa piazza lungo il naturale e ciclico incedere delle stagioni ci rende sensibili alle impressioni nostalgiche. Sicuramente anche qui, prima della colata d’asfalto, «una volta c’era un prato». Come non tornare con la memoria ai piccoli segnali di vita vissuta, che abbiamo tentato di raccontare ogni mese per iscritto? I dodici testi riflettono dodici frammenti di tempo strappati alla nostra quotidianità. Abbiamo cancellato appuntamenti e rinviato faccende da sbrigare. Ci siamo fermati. Ci siamo seduti ogni mese per un paio d’ore in mezzo al viavai… Non solo quello dei passanti, ma anche quello dei nostri pensieri, delle preoccupazioni, delle malinconie. Ci sono stati mesi in cui eravamo stanchi morti, altri in cui uno di noi era triste, altri ancora in cui il gesto assurdo di venire a Paradeplatz sembrava dare un senso a tutto il resto. Eravamo qui un giorno umido di gennaio, abbiamo visto i primi cenni della primavera, l’afa dei mesi estivi, abbiamo superato l’autunno per approdare a questo giorno di metà dicembre.
Come non cedere al sentimentalismo? Un modo ci sarebbe: nominare tutte le cose di cui non abbiamo parlato in questi dodici mesi. Per esempio la statua di Alfred Escher, all’uscita della stazione di Zurigo: «seguite il mio sguardo e la troverete, la vostra piazza», ci ha detto la prima volta. Ma ancora la bottega di tabacco sul lato sud di Paradeplatz, l’ufficio dei trasporti pubblici, il negozio della Lindt & Sprüngli (dove stavolta ci siamo bevuti un caffè liscio). E proprio di fronte alle vetrine colme di graziose scatole di cioccolatini (a prezzi meno graziosi), la scultura di Silvio Mattioli che esplode e si sfilaccia a mezz’aria, trattenuta solo da una goccia d’acqua che scende implacabile da una sporgenza, a formare una minuscola pozzanghera.
Poi le telefonate, le frasi colte al volo e smarrite, i personaggi passati in un lampo, i capolinea dei tram che non abbiamo mai raggiunto. Vorremmo pronunciare una parola ufficiale di commiato, compiere un memorabile gesto di addio, ma siamo pervasi da una strana sensazione d’incompiutezza. Allora, come abbiamo fatto mese dopo mese, leggiamo una poesia.
Oh rompere gli indugi
Partire partire
Io non sono fra coloro che restano
La casa il giardino tanto amati
Non sono mai dietro ma davanti
Nella splendida bruma
Sconosciuta
Questi pochi versi di Anne Perrier sono un segnale. Ripensando ai tram che non abbiamo preso e ai luoghi che non abbiamo raggiunto, un toponimo si stacca dagli altri e si accende di luce propria: Frankental. Non è un capolinea come gli altri; è quello che per primo, in gennaio, ci ha suggerito una mai sopita volontà di fuga. L’attrazione dell’ignoto. Frankental è la nostra promessa, il nostro capolinea. Da un anno ci sta chiamando, ed è per lui che ci rimane una sola cosa da fare: andarcene. Perché Paradeplatz è e rimane uno svincolo. Non siamo noi a fare eccezione: ci siamo fermati dodici volte, è vero, ma solo per ripartire. Quando il tram numero 13 si ferma incrociamo gli sguardi, infiliamo i taccuini negli zaini e siamo i primi a salire. Dietro, vicino alla fontanella, la Heilsarmee – Suppe für alle! recita un volantino – si sta preparando per un concertino natalizio, trombe e tromboni escono dalle loro custodie, ma non sentiamo nulla, le porte si stanno chiudendo, ora sono chiuse, il tram si muove, prende velocità… Anche il concertino è da rubricare nelle cose di cui non abbiamo parlato. Chi siamo noi? Due persone che si danno appuntamento ogni mese in una piazza lontano da casa. Ma non abbiamo niente di meglio da fare? A cosa serve correre sui treni per raggiungere un luogo dove poi non facciamo niente? Chi continua a nutrire queste più che pertinenti perplessità, avrà ora nuovi materiali di (psic)analisi: se fino a oggi i nostri incontri sono apparsi assurdi, cosa dire di questo ultimo viaggio? Due persone adulte salgono sul tram numero 13 diretto a Frankental con l’unico scopo di andare a Frankental. Nient’altro che il desiderio di essere lì. Non abbiamo appuntamenti, non abbiamo impegni, non abbiamo motivi validi e spendibili nella vita di tutti i giorni. Vogliamo solo partire, guardare davanti a noi nella splendida bruma /sconosciuta.
Sotto i nostri piedi sentiamo i binari, ogni movimento ha il suo rumore e il suo segreto. Dal finestrino scorgiamo muri con graffiti, cavalcavia, strade vuote e poi sempre più verde: siepi, alberi, pezzi di prato. Attraversiamo quartieri di villette discrete, dove Zurigo si traveste da villaggio. Superiamo supermercati e palazzi. Alla fine, giungiamo a destinazione. Il tram si ferma. Da dietro le porte ancora chiuse scorgiamo una vigna, un fumo che sale in lontananza. La stazione del tram è un edificio rotondo, un disco volante atterrato per sbaglio nel cuore della Svizzera. Siamo arrivati. Siamo qui. Siamo a Frankental.
Eccolo il nostro capolinea. Basta un occhiata e cominciamo a capire. Sorridiamo con una leggerezza diversa, una spontaneità che nel frattempo avevamo dimenticato. Non c’è spazio per i dubbi, questa volta.
Frankental è la fine e l’inizio.
[YB+AF]
PS: La poesia della scrittrice losannese Anne Perrier (1922-2017) è tratta dalla raccolta La voie nomade (1982-86), in La voie nomade et autres poèmes. Œuvres complètes 1952-2007, L’Éscampette Éditions 2008. La traduzione è di Andrea.PPS: Lo spirito natalizio di Paradeplatz ci ha chiesto di trasmettere a tutti i lettori – chi ci ha accompagnato negli ultimi mesi e chi invece ha appena scoperto l’esistenza di questo blog, magari cominciando proprio da questo PS – un augurio di buon Natale. È la prima volta che ci viene chiesto di fare da intermediari, ma come rifiutare?
PPPPS: Per chi volesse aiutare l’immaginazione con i suoni, ecco ciò che si sentiva nei dintorni della guida turistica e dei suoi seguaci.
#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.
A volte gli addii sono più lunghi del viaggio. Prima di partire saluti la persona che ti sta accanto. Le stringi la mano. Dopo qualche secondo entri nell’automobile. Accendi il motore e abbassi il finestrino, per una parola di commiato. Lei resta in piedi e ti fa un cenno. Tu rispondi, mentre con l’altra mano ruoti il volante per uscire dal parcheggio. Lei sta ancora sventolando il braccio destro. Tu alzi brevemente i fari, come un battito di ciglia. Poi t’immetti in una strada che gira intorno al cortile e un’altra volta passi di fianco a lei che, instancabile, muove il braccio avanti e indietro. Allora per forza rallenti, abbassi il finestrino – ciao, gridi sporgendo la mano – acceleri leggermente e un attimo dopo, alzando il capo, la scorgi nello specchietto retrovisore… è ritta in piedi, ancora ti sta guardando; e a te sembra che ogni istante apra un solco nella memoria, nella speranza, come una ferita. Tu pensi alla strada, alla direzione da prendere. Ma vorresti tornare, salutare di nuovo la persona che ami, prolungare il gesto dell’addio, anche se quello stesso gesto ti riempie di dolore. Ecco, per me il mese di novembre funziona più o meno così. Ci sono queste giornate sontuose, con i muretti caldi al sole del mezzogiorno. Ma il blu del cielo è diverso, più circospetto. I pomeriggi mettono in scena una sorta di parodia della lentezza estiva, con la luce che si distende, che incide il profilo delle montagne. Le montagne tuttavia sono brune, il cielo si spegne in pochi minuti, il freddo scende nei polmoni a ogni respiro. Questo incombere del buio ti fa pensare al tempo che si accorcia, alla vita che si consuma. Perché l’addio dev’essere tanto lungo? Perché l’inverno non arriva in un soffio? Ma niente, novembre ci tiene alla sua bellezza. In uno di questi giorni di commiato, Yari e io andiamo a Paradeplatz. Stavolta ci arriviamo in maniera diversa: uno concretamente e l’altro affacciato alla finestra di FaceTime. Accadde già nel mese di maggio: Yari, per ragioni di forza maggiore, dovette visitare Paradeplatz attraverso il mio sguardo. Stavolta sono io che mi affido ai suoi occhi per tentare di capire questo luogo che ancora ci ossessiona con il suo segreto, undici mesi dopo l’inizio delle nostre indagini. Mi trovo in un giardino, a Breganzona, con una spendida vista sul laghetto di Muzzano. Novembre si mette in mostra: lo scintillio del sole sull’acqua, il verde smagliante dei prati, il vento quasi tiepido che pulisce l’aria. Dall’altra parte, è tutto grigio. Nello schermo del telefono vedo Paradeplatz intrisa di pioggia e di malinconia: grigio l’asfalto, grigie le facciate delle banche e dell’hotel, grigio l’albero di Natale, grigie anche le bocce colorate, grigi i tram, grigi i passanti che scantonano sotto l’ombrello, grigia la vetrina di Marsano – ma dove sono andati i fiori? – e grigia la faccia di Yari irrigidita dal freddo. Gli alberi di Natale schierati sopra il tetto dell’UBS sembrano un plotone di esecuzione poco prima dell’alba. Ma non è l’alba. Non è nemmeno mattina, sebbene l’orologio segni le undici. È un mondo senza tempo, dove novembre a lungo scioglie il suo canto d’addio. Yari e io ci scambiamo qualche parola, ma non sappiamo bene che cosa dire: questo incrocio di universi, questo urtarsi di sole e pioggia, di verde e grigio, questo paradosso che filtra nei nostri telefoni parla da sé.
– Ho portato una poesia – borbotta Yari dopo un po’.
– Ah bene – dico io.
– Non è facile da capire, devi leggere attentamente.
Comincio a preoccuparmi.
– Arriva da molto lontano – aggiunge Yari. – Te la invio?
Poco dopo, sullo schermo del mio telefono appare un codice miniato.
[AF]
*
Essere in ritardo quando nessuno ti sta aspettando è un’esperienza decisamente meno adrenalinica rispetto al canonico ritardo, quello che prevede la presenza di almeno un’altra persona o di un quadro istituzionale, professionale, sociale. Così quando il treno che da Berna mi sta portando a Zurigo si ferma improvvisamente a Rothrist, e il vagone è attraversato da un vociare convulso di donne scandalizzate e uomini isterici, io appoggio sul tavolino il libro di Friedrich Glauser e guardo con stanchezza attraverso il finestrino. Alla fine saranno trenta i minuti di ritardo complessivi, che su un viaggio di poco meno di un’ora non sono irrilevanti, come fa notare qualcuno. L’annuncio del capotreno germanofono è epico, soprattutto nel forzato passaggio al francese – «dérangement de véhicules», pronunciato lentamente e con la gravità di chi conosce, di chi sa– e infine a un inglese tanto improbabile da far pensare alla Linea di Cavandoli (forse una citazione voluta). Continuo a guardare dal mio rettangolo trasparente quello che offre il panorama, cioè pioggia. E sullo sfondo il collo chino, dalle movenze preistoriche, di una gru o una scavatrice. Questa volta le ragioni di forza maggiore hanno reso la trasferta di Andrea impossibile. Il signore con i baffi seduto davanti a me – piuttosto anziano, senza nulla d’appariscente – osserva il mio taccuino mentre scrivo: non-ritardo. Non si capisce bene se sia serio o sorrida. A pochi metri, una donna anziana sembra sentirsi poco bene, poi l’emergenza rientra. Giunto a Paradeplatz propongo una videochiamata ad Andrea e cerco di mostrargli tutto quello che novembre ha tolto: i fiori, i colori, la spensieratezza. Complice la pioggia, la gente si stringe sotto la tettoia centrale e sembra poco propensa al sorriso. Tutti consultano orari e tabelloni. Alcune vetrine digitali mostrano il solito Natale standard di candeline, renne, paesaggi innevati, calorose casette, zenzero, marzapane e vogliamoci bene. «Ehi, ma allora siamo vicini. Io sono a Paradeplatz, hai in mente? Sì, le banche. Ti aspetto davanti alla Lindt&Sprüngli»: l’uomo spegne il telefono, esita, ma dopo pochi istanti se ne va di corsa, senza guardarsi intorno. Evito di restare nei paraggi, d’incrociare – chi lo sa – uno sguardo deluso. Si può dire addio anche se non ci si è incontrati? Sarà l’inesorabile bellezza di novembre, ma sono sfiduciato. Eppure, quasi ottocento anni fa, tale Giovanni di Pietro di Bernardone, umbro d’origine, sembrava nutrire una maggiore fiducia in quello che gli stava intorno, tanto da scrivere una delle poesie più memorabili fra le memorabili. Già. Chissà cosa direbbe oggi Francesco d’Assisi della sora nostra matre terra. Siederebbe pure lui al riparo dalla pioggia, nel tripudio d’asfalto, rotaie e addobbi natalizi. Osserverebbe passare i fenicotteri rosa con le zampe a mollo in un blu-piscina pubblicitario, su uno dei tanti tram. Poserebbe lo sguardo sulle due alci dorate all’entrata del fioraio. Loderebbe il suo Signore per Paradeplatz. Poi, con una piccola dose – diciamo una punta – di cinismo, ricorderebbe una volta di più la sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare. Spedisco ad Andrea il Cantico delle creature: magari lui, che è dall’altra parte del mondo, riesce a essere più fiducioso. Intanto un ragazzo mi guarda e solo dopo avere registrato il mio (finto) disinteresse si siede sulla panchina, a pochi centimeri dal mio zaino, e gioca a calcio sul suo cellulare. Se non fosse stato per lui, non avrei notato l’uomo alle nostre spalle, dietro la porta d’entrata dei bagni pubblici. Immobile, vicino al vetro, guarda intorno con pazienza. Mi sembra di riconoscerlo, piuttosto anziano, senza nulla d’appariscente, con quei baffi che non si capisce bene se sia serio o sorrida.
[YB]
*
Era un uomo piuttosto anziano che non aveva nulla d’appariscente: camicia con colletto floscio, abito grigio un po’ sformato perché il corpo che vestiva era grasso. Quell’uomo aveva un volto pallido, magro, i baffi coprivano la bocca, sicché non si capiva bene se sorridesse o fosse serio. Si frugò in tasca, ne cavò un sigaro Brissago e lo infilò tra le labbra. Aveva gli occhi semichiusi, ma non gli sfuggiva niente di quanto accadeva sulla piazza lucida di pioggia. Passanti, ombrelli, tram… tutto appariva come doveva essere. Davvero? Fece un passo avanti, accostando la porta alle sue spalle. Trasse una scatola di fiammiferi e accese il sigaro, mentre la sua attenzione veniva attratta da un dettaglio bizzarro. Un’inceppatura nel sistema? Qualcosa del genere… Un uomo alto, infagottato in un giaccone. Prima aveva parlato a lungo al telefono, poi aveva scattato fotografie agli edifici intorno alla piazza. Ora aveva per le mani un documento dall’aspetto antico, e leggeva mormorando le parole a fior di labbra. Era tutto normale? L’uomo anziano si domandò che cosa avrebbero detto i suoi giovani colleghi. Sicuramente che dava i numeri. Quando i colleghi dicevano che era matto, forse volevano dire che aveva troppa fantasia per un bernese. Ma anche questo non era del tutto vero. Vedeva forse un po’ al di là del suo naso che sporgeva lungo, appuntito e sottile sul volto magro, e non si adattava affatto al suo corpo massiccio. Notò che l’uomo alto stava per salire su un tram, ma aveva lasciato la pergamena, o quello che era, appoggiata sulla panchina. Si avvicinò. Provò a leggere quelle strane lettere che parevano arrivare da un altro mondo.
Altissimu, onnipotente, bon Signore,
tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
Ad te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu omo ène dignu Te mentovare.
Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue Creature,
spetialmente messor lo frate Sole,
lo qual è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora Luna e le Stelle:
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale a le Tue creature dài sustentamento.
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’Acqua,
la quale è multo utile et umile et pretiosa et casta.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate Focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.
Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore
et sostengo infirmitate et tribulatione.
Beati quelli ke ’l sosterranno in pace,
ka da te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare:
guai a·cquelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ’l farrà male.
Laudate et benedicete mi’ Signore et rengratiate
e serviateli cum grande umilitate.
[AF]
*
Non so quanta umilitate ci voglia per accettare un eufemismo come «Personenunfall – Accident de personne», che è quanto si sente ogni tanto sui treni che fanno la spola fra Romandia e Svizzera tedesca, a cui segue un contegno artificioso e, solitamente, il poco dissimulato nervosismo dei pendolari. Nessuno – io incluso – si chiede mai se la persona che giace inerte sui binari se ne sia andata con ancora addosso i suoi peccata mortali, chi fosse, cosa facesse, e naturalmente: perché. «Non c’è tempo», si dirà. «Così va il mondo». Per fortuna c’è ancora chi cava un Brissago dalla tasca.
[YB]
PS: La Linea è il celebre e indimenticabile personaggio animato di Osvaldo Cavandoli (1920-2007), creato alla fine degli anni ’50.
PPS: San Francesco d’Assisi (1181-1226) scrisse le Laudes Creaturarum o Canticum fratris Solis nel 1224. Il Cantico è considerato il primo testo poetico (di cui si conosca l’autore) della letteratura italiana. Per altri dettagli si veda Gianfranco Contini, Letteratura italiana delle origini, Sansoni, 1976.
PPPS: Il testo contiene due citazioni da Friedrich Glauser. La frase in corsivo che comincia con Era un uomo piuttosto anziano è tratta da Il sergente Studer (Sellerio 1986; traduzione di Gabriella De’ Grandi e Valeria Valenza da Wachtmeister Studer, Morgarten, Zürich 1936). La frase in corsivo che appare qualche riga sotto (quella che comincia con Quando i colleghi; ma già l’espressione dava i numeri) è tratta da Il grafico della febbre (Sellerio 1985; traduzione di Gabriella De’ Grandi da Die Fieberkurve, Morgarten, Zürich 1938). Entrambe sono riferite a Jakob Studer, l’investigatore della Polizia cantonale di Berna protagonista di alcuni romanzi e racconti di Friedrich Glauser (1896-1938).
PPPPS: La terza immagine di questo articolo è un dipinto dell’artista tedesco Wolf Panizza (1901-1977). È intitolato Novemberlandschaft, risale al 1935 ed è conservato nella Pinakothek der Moderne di Monaco.
#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.
L’uomo è irrequieto, si guarda intorno, esce di scena sulla Talacker per ricomparire un attimo dopo sulla Bahnhofstrasse. Si ferma nel triangolo di banchina che sorge come un isolotto fra i binari del tram. Avrà già compiuto settant’anni? La sua barba ricorda più quella di Rasputin che non quella di un hipster, e del resto l’abbigliamento non ha nulla di studiato. Semmai porta con sé un’aria trasandata dai colori spenti e polverosi. Incrocio il suo sguardo più volte, ma non se ne accorge. La sua attenzione è rivolta altrove. Si accende una sigaretta e riparte nervoso davanti al chiosco, attraversa la strada, poi si ferma in un punto preciso, scelto con cura, allinea i piedi, si abbassa leggermente, aggiusta pollice e indice della mano destra portandoli alle labbra, e infine lancia. La sigaretta – fumata solo a metà – vola per mezzo metro, prima di atterrare accanto al binario. Deluso, l’uomo riparte. Al decimo mese, Paradeplatz sembra essere diventato un approdo. Un momento diverso dagli altri: ci si lascia il mare mosso alle spalle e ci si ferma per qualche ora, ancora coperti di sale, trotterellando qua e là con passo incerto, assorbiti da una quotidianità altrui di cui ogni tanto s’indovina qualcosa, più spesso non si capisce nulla. È ottobre inoltrato, ma la luce del sole insiste esuberante e l’ombra rimane sotto assedio. Di nuovo l’uomo barbuto. Questa volta arriva dall’angolo fra Tiefenhöfe e Bleicherweg. Il pacchetto che tiene in mano è bianco e rosso. Recita: MAGNUM. Come potrebbe essere altrimenti? Sfila un’altra sigaretta e dopo averla accesa ritorna sulla rampa di lancio. Tre, due, uno. La sigaretta resta miracolosamente in piedi nel binario. L’uomo si ferma per qualche istante, in attesa di un tram che riporti il mozzicone in orizzontale. Ne transitano addirittura due. Dopo il trambusto, la sigaretta è effettivamente affondata all’interno del binario e l’uomo è scomparso. Una figura allegorica, forse. Guardando il tram che sferraglia noto due dettagli. Il primo è una pubblicità: Erotik Adventskalender. Una conquista epocale: dopo il Bambin Gesù e i Santa Claus, la grande protagonista natalizia 2018 sarà Cleopatràs lussuriosa. Il secondo è un capolinea. Frankental. Il solito capolinea. Questa volta però mi ritornano in mente le parole pronunciate da Andrea in gennaio, durante il primo appuntamento zurighese. «La prossima volta dobbiamo andare a Frankental», aveva detto. Penso a tutti i progetti che abbiamo menzionato durante questi mesi: luoghi da vedere, testi da leggere, persone da incontrare. Ci restano solo due mesi a disposizione ed è improvvisamente chiaro chiarissimo che dovremo selezionare e lasciare cadere molte cose. Dicembre incombe come una scure. Ma è giusto così, a poco servirebbe posticipare la scadenza. Questi siamo noi: la curiosità e l’entusiasmo che tende a moltiplicare, gli occhi che saltano a un futuro improbabile, in cui noi tendiamo comunque a credere, fino a essere persino colti alla sprovvista davanti al ridimensionamento (se va bene) o al fallimento (se va male). Forse più s’ignora il presente – che significa così spesso razionalizzare, pianificare, consolidare – e meno si deve pensare alla fine. Che però arriva, brutale. Eccolo ancora, il moderno Rasputin. La sigaretta e il lancio che naturalmente, dopo il precedente exploit, non riesce. Ma fino a quando continuerà? E quando ha iniziato? Devo ricordarmi di andare a vedere quante sigarette stazionano inerti dentro le misteriose cavità del binario. Tre? Cento? Un milione? Sembra la versione 2.0 dell’ultima sigaretta (U.S.) di Zeno. Cerco Andrea, che oggi è particolarmente taciturno. Forse lui saprà dirmi qualcosa di più. Lo guardo e gli chiedo: Che sai tu, che taci?
[YB]
*
Un uomo parla al telefono, in italiano.
«Mi hanno comunicato la notizia ieri alle quattro e la sto ancora digerendo.» Fa una pausa. «È una questione di management, adesso non so che cosa succederà. Ma volevo dirtelo in anteprima… no, non è ancora ufficiale…» L’uomo continua la conversazione mentre sale sul tram numero 13 che, guarda caso, porta a Frankental. Io resto sul marciapiede, consapevole che non saprò mai niente di più su questa notizia confidenziale. Così come non saprò mai quale mistero nasconde l’uomo con i pantaloni rossi e un pupazzo di panda a grandezza naturale sulla spalla. E nemmeno saprò dov’è diretta la bambina che, transitando davanti al chiosco “Frido’s Marroni” canta una versione molto personale di Bella ciao.
Come facciamo a capire questo luogo? Gli unici che sembrano veramente a loro agio qui sono i tram, che passano e ripassano davanti a noi, scampanellano, si lanciano lunghi fischi stridenti, come grandi cetacei che parlino un’abissale lingua segreta. Lentamente mi aggiro intorno alla pensilina, registrando un audio con il telefono. Voglio catturare almeno cinque minuti sonori, per riascoltarli a casa, a occhi chiusi, immaginando di essere ancora a Zurigo. Scopro che il fatto di registrare ha quasi un potere ipnotico, come se piano piano perdessi tutti gli altri sensi e diventassi solo udito… finché la voce di Yari interrompe il sogno a orecchie aperte. Mi indica uno strano personaggio che lancia sigarette nei binari del tram. Poi leggiamo la poesia. Stavolta tocca a Mario Luzi e la lirica, tratta dalla raccolta Per il battesimo dei nostri frammenti (1985) parla proprio di Zurigo. (Ecco qui la versione in pdf con la spaziatura originale).
Sbrìgati,
non ebbe altro da dirmi
lei
dai suoi fradici rossori,
mi spinse nell’autunno dei suoi larici,
mi strappò in fretta la tazza
di nebbia e luce
che erano i suoi laghi, altra volta sue pupille.
M’incalzò quel monito
per tutte le sue valli,
giunse fino alle anatre
divenute molte
e nere tra Limmat e Zurchersee
e più verso la foce.
E tu
che mi guardi verso te
precipitare dirocciando
città rivierasca di che mare,
immagine o miraggio…
Che sai tu, che taci?
Fra la natura autunnale (lei) e la città (tu), il poeta precipita e spera di approdare a un chiarimento, a un mare che sciolga gli enigmi. Ma la città si schermisce, mentre le anatre divengono molte / e nere. Ho l’impressione che tutti noi rivolgiamo alla città la stessa domanda. Yari con il suo desiderio di andare a Frankental, io con i miei cinque minuti di puro ascolto, la bambina che canta, Rasputin che lancia sigarette. In una sorta di muto coro, insistiamo nel chiedere: chesai tu, che taci? Che cosa nasconde il cuore del cuore di Zurigo? Che cosa ancora Paradeplatz non ci ha raccontato, in questi dieci mesi di corteggiamento? A un certo punto, mentre progettiamo il viaggio a Frankental per novembre o dicembre, Yari mi ricorda la leggenda metropolitana secondo cui sotto la Paradeplatz esterna s’intrecciano i cunicoli di una Paradeplatz scavata nella terra. Ci scambiamo un’occhiata. In fondo, che cosa ci costa provare? Apriamo la porta a vetri, ci avviamo lungo le scale. Come per scendere negli inferi bisognava pagare un obolo, per raggiungere il bagno pubblico di Paradeplatz bisogna infilare un franco nell’apposita fessura. Appena entrati cerchiamo una botola, un passaggio segreto. Ma il bagno è lindo, bianco, rispendente di specchi e porcellane. Una porta attira la nostra attenzione, anche solo per il laconico cartello: KEIN EINGANG, non si può entrare. Senza nemmeno consultarci, uno dopo l’altro, proviamo ad abbassare la maniglia. Niente, non si apre. Mentre stiamo per uscire, scorgo un’altra porta chiusa. Questa si apre. Senza pensarci, oltrepasso la soglia e finisco in uno sgabuzzino. Mi accorgo che nei muri ci sono due buchi che sembrano portare nella profondità della terra. Che sia questo l’accesso? Provo a guardare in basso, ma non si vede niente. Vado a cercare Yari, passando per un’altra porta. Ho un attimo di disorientamento: sono tornato nel bagno… ma non è lo stesso bagno! Prima che la fantasia possa dipingere scenari di scambi dimensionali, capisco che sono finito nel bagno delle donne. Torno precipitosamente sui miei passi e riguadagno la superficie. Fuori, tutto è come prima. Yari sta scattando qualche fotografia ed entrambi, senza bisogno di dircelo, ci rendiamo conto che siamo al terzultimo mese. Abbiamo passato ore in questa piazza, ma ci sembra che non sia abbastanza, ci sembra di non riuscire a scriverne come vorremmo. Però, a ben pensarci, questa è anche una fortuna. Quando evochiamo un luogo, una persona, un avvenimento, sempre dietro le nostre parole echeggia quell’interrogativo: che sai tu, che taci? E se non ci fosse questa domanda, forse non avremmo più ragioni per scrivere.
[AF]
*
Ne ho contate sette, di sigarette, sul fondo del binario. Ma Rasputin – mentre contavo – attendeva soltanto che mi allontanassi per riprovarci, con commovente tenacia. Perché? Qualcuno chiede perché? Le ragioni sono quelle taciute. Luminose e taciute. Possiamo ignorarle, ma regolano la nostra vita più di quanto immaginiamo. Ci pensavo salendo a due a due gli scalini dei bagni pubblici, l’anticamera del sottosuolo di Paradeplatz. Oggi ci siamo dovuti fermare sulla soglia. Ma KEIN EINGANG è un invito a continuare, a riprovarci. L’inverno bianco incalza, dice una voce amica. Sbrìgati.
[YB]
*
Accanto all’edicola, c’è una pila di copie del settimanale “Die Zeit”. Il titolo principale dice: Wer versteht noch die Welt? (chi capisce ancora il mondo?). Ma non è detto che il mondo vada capito a ogni costo. Forse il problema non è tanto comprendere, quanto essere nel mondo, con il mondo, parte del mondo. Il senso dell’esistenza si rivela nelle dissertazioni filosofiche o si nasconde invece nel lancio di una sigaretta?
[AF]
PS: L’audio di cinque minuti alla fine dura 6.17. Chi volesse può tenerlo come sottofondo mentre legge questo articolo. Segnaliamo comunque che dal minuto 2.50 si sente la bambina che canta Bella ciao.
PPS: La famosa “ultima sigaretta” (U.S.) è quella di Zeno, nel romanzo di Italo Svevo La coscienza di Zeno (1923). La lirica “Sbrìgati” venne pubblicata per la prima volta in L’Almanacco 1984, cronache di vita ticinese n. 3, Salvioni, Bellinzona 1983. In seguito Luzi la inserì in Per il battesimo dei nostri frammenti (Garzanti 1985), uno dei suoi libri più significativi.