Un selfie banale (e buon Natale!)

Siamo io e lui. Come sempre. Io pedalo controvento, ai margini dei campi, mentre lui scivola al mio fianco, leggero, leggerissimo, come io non sarò mai. Io tendo i muscoli, sudo, respiro l’aria fredda con la bocca. E lui? L’Andrea d’ombra è un pensiero di sfuggita, una rapina. Fugace come il dito di un illusionista.
La terra è chiusa nell’inverno, con il promemoria di qualche ciuffo d’erba color verde sciupato. Ma l’Andrea d’ombra non sente la terra, la sfiora appena.

Vedi, le crepe fra le zolle somigliano alle mie domande. Sciocchezze, bisbiglia l’Andrea d’ombra. Un anno è andato, bene o male. C’è stato il male, sì. La fine di questo e di quello, e le persone in fuga e gli strappi e le ferite della morte, un colpo alla volta. E guerre. E sangue. Non fermarti, mormora l’Andrea d’ombra. Hai avuto anche la felicità, la resistenza. Se lo dici tu. Ma sì, occhi sgranati, castagne d’India in un cortile, pane, alberi, cuscini sprimacciati, l’incanto e le parole…
Ma che stai dicendo?
Non ti fidi.
Come potrei? Sei ombra, senza ferite.
Non è vero: custodisco le tue. E so che tutto quello che ti serve, ora, è questa strada di campagna, con l’asfalto un poco sconnesso, questo indugio del sole nel tardo pomeriggio.

Come ogni vigilia di Natale, io e l’Andrea d’ombra facciamo il punto della situazione. Come sempre mi lamento per i progetti incompiuti, per le pagine scritte che non sono come vorrei. E per fortuna, dice lui. Poi mi chiede: non sei contento di quel libretto? Quale libretto? Ma sì: Manca poco a Natale, appena pubblicato da Gabriele Capelli. Ma quello non è opera mia, rispondo. Come no? Dice: illustrato da Antoine Déprez, scritto da Yari Bernasconi & Andrea Fazioli. Appunto. Yari Bernasconi & Andrea Fazioli sono un’entità indipendente, diversa sia da Yari Bernasconi, sia da Andrea Fazioli, sia dallo Yari d’ombra, sia dall’Andrea d’ombra. E non dimenticare Yari Bernasconi & Andrea Fazioli d’ombra. Sì, hai ragione. Anche la & può essere una & d’ombra.
Insomma, siamo una mezza dozzina.
Solo gli autori. Ma se aggiungi anche i personaggi…
Basta, basta, ho capito. Ogni libro nasconde una folla.
E anche una follia…
Così, mentre la bicicletta sfreccia, io e l’Andrea d’ombra passiamo il tempo fra battibecchi e pessimi giochi di parole. Cose minuscole. In una poesia del libretto ci sono queste parole: «“Anche le cose più comuni / sono straordinarie” diceva mio nonno / con gli occhi, camminando».
Il Natale è anche questo, semplicemente: un gesto d’attenzione. La vastità mutata in piccolezza, l’intuizione che le cose banali covano in sé la meraviglia. Il prodigio è il mondo che ogni mattina si presenta come nuovo, nonostante tutto. «Quello che ci rende possibile continuare a vivere è il costante inizio», scrisse Romano Guardini. Il «nuovo» si presenta ogni giorno «con ogni compito e incontro; con ogni dolore e ogni gioia». Spesso noi «intendiamo per nuovo quanto ci eccita. Solo di rado siamo pronti ad avvertire il nuovo in quel che è piccolo e sommesso».
Anche la letteratura è un fermento di cose banali che diventano necessarie, che rivelano sé stesse (e noi che scriviamo, che leggiamo). In una lirica di Manca poco a Natale appare un personaggio – idealmente un ragazzino – che affida il dopopranzo natalizio all’immaginazione.

E quando inizia a voltare le pagine
oltre il brusio del pranzo
e dei parenti, dal suo angolo discosto,
l’orizzonte perde i contorni.
Come gli gnomi, adesso,
cavalca i cinghiali e soccorre le volpi,
siede guardingo con i gufi sull’orlo
della notte, attendendo l’oscurità
di quelle valli boscose che cercano
un nome.

Il desiderio di un Natale «piccolo e sommesso» ha guidato Yari Bernasconi & Andrea Fazioli nella stesura dei testi lirici che compongono il libretto. E questo è anche l’augurio mio (e di tutta la mezza dozzina di autori) per questo Natale: che sia piccolo e silenzioso, ma promettente. Come una serie di tracce sulla neve che portano a un rifugio, a un calore. Buon Natale!

PS: Il libretto Manca poco a Natale è stato stampato in edizione limitata a 500 esemplari, di cui circa 330 in commercio. Non so se sia ancora disponibile. Per informazioni, potete scrivere a gabrielecapellieditore@gmail.com.

PPS: Le parole di Romano Guardini sono tratte da Nähe des Herrn. Betrachtungen über Advent, Weihnachten, Jahreswende und Epiphanie, TOPOS-Taschenbuch, Matthias Grünewald Verlag, Mainz, 1992, traduzione italiana di Giulio Colombi in Natale e Capodanno, Morcelliana, Brescia 1995.

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Ho perso il mio scudo!

Circa duemilasettecento anni fa un soldato greco si trovò a combattere contro i Sai, un popolo della Tracia. Questo soldato si chiamava Archiloco ed era nato a Paro, nell’arcipelago delle Cicladi, ma poi si era trasferito a nord, nell’isola di Taso. Qualcuno dice che suo padre fosse un nobile e sua madre una schiava. Altri raccontano che in gioventù, mentre viaggiava di notte con una vacca da vendere al mercato, Archiloco si sarebbe imbattuto in un gruppo di fanciulle che tornavano dai campi. Dopo qualche battuta scherzosa le fanciulle si dileguarono, e con loro anche la vacca. Invece del bovino il ragazzo avrebbe trovato uno strumento musicale: una lira deposta sull’erba. Che pensare? Di certo le ragazze erano le Muse e la lira un invito a diventare poeta. Archiloco dunque affinò la pratica delle armi insieme a quella delle parole. Non era incline a descrivere la guerra in maniera epica, ma preferiva mettere l’accento sui dettagli della vita quotidiana: «La lancia mi dà il pane, mi dà il vino la lancia, / questo vino che bevo appoggiato alla lancia».

Un giorno, lottando contro i Sai, Archiloco se la vide brutta. Nel trambusto fu costretto a nascondersi e poi a fuggire. Per non rischiare di venire catturato, abbandonò il suo scudo. Alla fine riuscì a salvarsi e lo scudo, probabilmente, venne rubato da uno dei Sai.
Non era un’azione di cui vantarsi. Allora come oggi, il destino degli eroi era quello di morire di morte eroica. Le donne spartane invitavano i loro figli a tornare o con lo scudo (e quindi vittoriosi) o sopra lo scudo (e quindi morti), ma in nessun caso senza scudo. La parola ῥίψασπις, che significa “persona che getta lo scudo e fugge dalla battaglia” non era certo un complimento. Eppure fu lo stesso Archiloco a raccontare la sua avventura in quattro versi che divennero celebri.

Ἄσπίδι μὲν Σαΐων τις ἀγάλλεται, ἣν παρὰ θάμνῳ,
ἔντος ἀμώμητον, κάλλιπον οὐκ ἐθέλων·
αὐτὸν δ’ ἐξεσάωσα. τί μοι μέλει ἀσπὶς ἐκείνη;
ἐρρέτω· ἐξαῦτις κτήσομαι οὐ κακίω.

Sono due distici elegiaci, formati da un esametro e un pentametro, entrambi dattilici (qui potete ascoltare come suonano). All’inizio del primo distico nomina subito lo scudo (Ἄσπίδι), mentre all’inizio del secondo nomina nomina sé stesso (αὐτὸν). In questo modo mette in evidenza l’antitesi fra lo scudo (perso) e la vita (salvata). Nella traduzione ho cercato di rendere questa opposizione, creando un contrasto fra il primo e il terzo verso. Ho messo inoltre in evidenza l’io poetico che, in spregio alla retorica guerresca, preferisce scampare a una morte gloriosa.

Ho lasciato lo scudo fra i cespugli, a malincuore,
un’arma senza macchia. Se ne vanta un soldato dei Sai, ma io
ho salvato la vita. E che m’importa dello scudo?
Vada in malora! Ne prenderò un altro e non sarà peggiore.

Gli studiosi divergono sul significato di questi versi. In genere si pensa che Archiloco abbia voluto sottolineare l’importanza della salvezza, che vale più del codice d’onore militare. Alcuni tuttavia sottolineano la rabbia per avere perso lo scudo e, nell’ultimo verso, mettono in risalto la volontà di rivalsa. In ogni caso, dopo Archiloco, altri poeti ripresero il tema dello scudo abbandonato (Alceo e Anacreonte fra i greci, Orazio fra i latini).

Oggi è il mio compleanno. Non so bene perché proprio oggi abbia ripensato a questo classico, che dormiva negli archivi polverosi della mia mente. Comunque ho notato due cose. Primo: è vero che abbandonando lo scudo si fugge dal nemico, ma nello stesso tempo si è più esposti. Secondo: imparare a combattere senza scudo può essere il segreto per togliersi d’impiccio.
Mi è capitato di abbandonare numerosi scudi, lo confesso. Ma non ho avuto l’impressione di fuggire: anzi, senza schermi la mia percezione si è affinata. Ho scoperto che l’unico modo per essere davvero nel mondo, per essere qui e ora, è accettare di essere vunerabili.
Non amo voltarmi indietro a guardare i cespugli del passato, ma il giorno del proprio compleanno come si fa a evitarlo? Quante armature complete e corazze di piastra ho tentato d’indossare in tutti questi anni. E quanta fatica per capire come fronteggiare i nemici senza protezione: bisogna allenare l’arte della parata e della schivata, bisogna tenere le orecchie e gli occhi aperti, sopportare le ferite e, quando necessario, fuggire. Ci vuole coraggio. Chi l’ha mai detto che si debba vincere combattendo fra gli eserciti che invadono le pianure? Certe battaglie vanno risolte in montagna, nel silenzio, con l’arma della pazienza. Quando sono lassù mi rendo conto di essere il peggior nemico di me stesso.
Come raggiungere la salvezza? Non certo grazie al mio sforzo, che mi porterebbe ad appesantirmi con gli scudi e le piastre di ferro. È facile accorgermi del male che abita dentro di me. Più difficile è avvistare il bene, che si presenta all’improvviso, in maniera gratuita e sorprendente. Arriva sempre dagli altri, dagli incontri, dagli scambi. Non si può costringere in una definizione. È un momento di grazia.

PS: A proposito di grazia. Di solito il giorno del mio compleanno condivido con i lettori di questo blog un racconto inedito. Quest’anno propongo una breve storia intitolata proprio Grazia e scritta l’anno scorso per Rete 2, il canale culturale della radio svizzera (RSI). Il progetto “I nuovi sillabari”, a cura di Sandra Sain, è un omaggio a Goffredo Parise: 20 autrici e autori svizzeri di lingua italiana hanno immaginato un testo ispirato a una singola parola, come fece Parise nei suoi Sillabari. A me è toccata la parola “grazia”

ASCOLTA IL RACCONTO GRAZIA

PPS: Tradizionalmente, riepilogo anche alcune pubblicazioni uscite nell’ultimo anno. Per prima cosa segnalo Le strade oscure, pubblicato da Guanda. Qui sotto vedete il “booktrailer”. Poi sono uscite alcune traduzioni in tedesco: In Zürich auf dem Mond per Limmatverlag (A Zurigo sulla luna, scritto con Yari Bernasconi e pubblicato da Capelli nel 2021); Tod in den Bergen per Btb Verlag – Randomhouse (Gli Svizzeri muoiono felici, Guanda 2018), Wachtmeister Studers Ferien per Atlantis Verlag (Le vacanze di Studer, scritto con Friedrich Glauser, Casagrande 2020); Damals im Tessin per Atlantis Verlag (L’uomo senza casa, Guanda 2018, già tradotto da Btb con il titolo di Am Grund des Sees nel 2009). Una traduzione in lettone: Kalnu Klusumus per Latvijas Mediji (La sparizione, Guanda 2010). In allegato al “Corriere della Sera” è uscita una riedizione de L’arte del fallimento, nella collana “Noir. Il lato oscuro delle cose”, a cura di Carlo Lucarelli.

Per quanto riguarda i progetti in corso, mi limito a dire che sto lavorando a un saggio-romanzo e a un paio di racconti per delle antologie; inoltre sto riordinando le prose brevi che ho scritto nel corso degli anni. Sto lavorando anche insieme a Yari Bernasconi: abbiamo diversi progetti in cantiere.
Infine, è uscito il film di Fabio Pellegrinelli La tentazione di esistere, prodotto da Rough Cat. Con Marco Pagani e lo stesso Pellegrinelli ho scritto il copione e la sceneggiatura. Qui sotto potete vedere il trailer.

PPPS: Per questo articolo ho tradotto due frammenti di Archiloco rispolverando il mio greco antico (un po’ rugginoso, ormai). Il primo, quello che parla della lancia, è pure un distico elegiaco. Ecco il testo originale: Ἐν δορὶ μέν μοι μᾶζα μεμαγμένη, ἐν δορὶ δ’οἶνος / Ἰσμαρικὸς, πίνω δ’ἐν δορὶ κεκλιμένος.
Su Archiloco ho consultato i seguenti volumi: Archiloco, Frammenti, con un saggio di Bruno Gentili, traduzione e cura di Nicoletta Russello, Rizzoli, Milano 1993; AAVV, Lirici greci dell’età arcaica, a cura di Enzo Mandruzzato, Rizzoli, Milano 1994; Massimiliano Ornaghi, La lira, la vacca e le donne insolenti, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2009; Maria Chiara Martinelli, Gli strumenti del poeta: elementi di metrica greca, Cappelli, Bologna 1997.
È curiosa, fra le varie traduzioni del frammento sullo scudo, quella che fece Giuseppe Fraccaroli all’inizio del XX secolo, cercando di ricreare nei versi italiani gli accenti della metrica latina. Si trova in G. Fraccaroli, I lirici greci: elegia e giambo, vol. 1, Bocca, Torino 1910.

Povero scudo! non so – chi de’ Sai se n’adorni: alla macchia,
splendido arnese, io l’ho – proprio dovuto buttar…
Ci ho guadagnato, però, – la pelle. E che al diavolo vada
quello scudo! N’avrò – presto uno ancora miglior!

PPPPS: La prima fotografia è di dominio pubblico: è il ritratto di un guerriero accovacciato con uno scudo e risale al 560 a. C. (Archiloco visse intorno al 650 a. C, ma non ho trovato scudi di quell’epoca). La seconda ritrae una Genziana primaticcia (Gentiana verna), uno dei primi fiori a sbocciare dopo l’inverno; cresce fino a tremilacinquecento metri di quota e pure oltre. L’ho fotografata sull’altopiano della Greina, in Svizzera, fra il canton Ticino e il canton Grigioni. Credo che anche questa genziana, come il poeta soldato Archiloco, conosca bene l’arte della sopravvivenza.

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Anch’io dagli abissi ti chiamo

LIBRI IMPOSSIBILI (GENNAIO)
#libriimpossibili2021 è un progetto ideato e scritto da Yari Bernasconi e Andrea Fazioli

Naomi E. Taro, Notizie da Kokovoko, a cura di Silvio D’Alessio, Ed. Nuove Poetiche, 2020, 129 pagine

Dal risvolto di copertina
«[…] non poteva che essere una voce poetica femminile quella di una terra che sta scomparendo, Nuatambu, novella “isola che non c’è” di un mondo che cambia troppo in fretta. […]»

Naomi Elisabeth Taro nasce a Nuatambu (Isole Salomone) nel 1972. Durante l’infanzia, si trasferisce con la famiglia negli Stati Uniti, prima in Texas e poi nello Utah. Laureata in letteratura inglese, vive oggi in Canada con il marito, l’artista plastico Nick Glove. Insegna come libera docente all’Università di Toronto. Esordisce giovanissima, nel 1992, con due plaquette autoprodotte, a cui seguono le raccolte poetiche A Wednesday’s Afternoon (1995), Looking for Queequeg (2000), Diagnostics (2007), Two Winter’s Tales (2014) e Reports from Kokovoko (2018), quest’ultima tradotta in italiano da Silvio D’Alessio nel 2020.

Tre domande all’autrice

YB+AF: Diciotto anni dopo Looking for Queequeg, un altro libro che prende esplicitamente spunto da Moby Dick. Perché? Quale è l’attualità dell’opera di Herman Melville?
NT: Non è questione di attualità: Moby Dick attraversa le epoche. E non smetterà di farlo finché ci saranno umani sulla terra. Non è solo un libro, è un universo coeso in cui si può trovare quasi qualunque cosa. Abbiamo tutti un libro feticcio, con cui intratteniamo un rapporto speciale. Per me è Moby Dick. Lo rileggo ogni anno. Che due miei libri siano nati da quelle pagine non ha nulla di programmatico: è semplicemente successo. E non poteva andare diversamente.

YB+AF: Kokovoko è un luogo letterario, un’isola inventata appunto da Melville, che afferma: «Non è segnata in nessuna carta: i posti veri non lo sono mai». Ma nel suo libro si è anche subito trasportati sulla sua isola natale, Nuatambu, che purtroppo sta scomparendo sotto le acque, diventando paradossalmente una sorta di nuova Kokovoko. Quanto incide la geografia delle sue origini nella sua scrittura?
NT: Ho trascorso i miei primi anni di vita a Nuatambu. Sono sempre stata legata alle mie origini e all’inizio degli anni Novanta sono tornata ad abitare lì per qualche anno. Già allora la situazione stava diventando drammatica. Ma quando sono tornata di nuovo, nel 2016, mi sono sentita morire. Oggi la superficie è più che dimezzata. La casa dove sono nata è scomparsa, come quella di molti miei parenti. Gli abitanti vengono trasferiti nelle zone più elevate o in altre isole. Il riscaldamento globale, accentuato da cause antropiche, sta segnando il destino delle Isole Salomone. Nuatambu sparirà dalle carte, ma occorre preservare la sua essenza, il suo spirito. I posti veri non sono segnati sulle carte perché la geografia esterna è solo un riflesso di quella interna. Questa geografia interna è la ferita da cui ha origine la mia scrittura.

YB+AF: In Notizie da Kokovoko il racconto della vicenda di Nuatambu s’intreccia con una riflessione più intima. L’io poetico si presenta come «sommerso», mentre la poesia è «canto residuo di balene ventre buio dell’abbandono / sogno popolato di allarmi».
NT: Ma l’isola è inscindibile dalla mia intimità. È parte del mio io e lo si nota anche dalla citazione a cui fate riferimento, che di fianco a «sommerso» dice: «animato dalle invisibili profondità delle acque». Ci tengo molto, perché non voglio scrivere poesie memoriali. Voglio scrivere poesie della vita. Quella che resta, che si evolve. La poesia è una voce multipla, percorsa da suoni del passato e del presente. Sogni individuali e collettivi. 

(Ringraziamo Silvio D’Alessio per averci messo in contatto con Naomi Taro e per aver tradotto questa breve conversazione).

Due estratti dal libro
(clicca qui per leggerli in pdf, in una veste graficamente più curata)

siamo qui con i volti scuri come bandiere / siamo i morti di Nuatambu che tornano a ispezionare il paese di coralli e le navi bianche / e l’uomo con le pinne (al sole è meraviglioso fare snorkeling) incontra gli occhi aperti degli antenati / anch’io dagli abissi ti chiamo / il professore riunisce gli abitanti mostra il destino in slow motion / anch’io dal profondo imploro una voce una tregua nella fuga – quanti anni, professore? quanto manca?

*

la bambina non piange mai quando scende il buio / la sabbia il cielo e i riflessi già trascorsi nell’orizzonte mobile che si spalanca / quante volte ancora il tuo cielo sarà il mio specchio la mia luce la mia fine se mi senti non cercarmi ma lasciami andare / la plastica delle confezioni del discount vicino alle lattine sembra cuocere al sole

***

NB: Per questioni meramente giuridiche (legate ai diritti editoriali dell’opera), non siamo purtroppo autorizzati a pubblicare in questa sede la copertina del libro. Vi invitiamo a cercare il volume nelle librerie o nelle biblioteche.

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Quella pagina bianca

CARTOLINE (SETTEMBRE)

“Cartoline” (#cartoline2020) è un progetto ideato e scritto da Yari Bernasconi e Andrea Fazioli.

Cartolina numero 33
Da Arth-Goldau, Svizzera

Arth-Goldau non esiste. È un luogo su questa terra, certo, puoi cercarlo sulle mappe. Ma a ben guardare non esiste: puoi solo arrivarci o partire. E nel momento stesso in cui esci dalla stazione dei treni, puff, sei già da qualche altra parte. C’è posto migliore per una delle nostre escursioni? Appena mettiamo i piedi a terra, ci rendiamo conto di (non) essere arrivati nel (non) luogo giusto. Poco lontano tre figure misteriose, dai tratti del viso asiatici, si fanno largo fra le barriere di un cantiere che scopriamo immenso, una voragine diretta al centro della terra. Una donna con un tailleur giallo sembra chiedere un’informazione a un operaio, che le fa segno di seguirlo. Insieme scendono in un buco vicino, oltre le reti di sicurezza. A quel punto cerchiamo anche noi di entrare, attirando l’attenzione di un uomo alto, con i capelli corvini sotto il casco giallo, che ci rimprovera prima in portoghese, poi in buon tedesco. E quando uno di noi insiste per capire che cosa ci sia oltre le transenne, oltre le macchine e i mucchi di terra, lui mostra i denti gialli, scoppia a ridere e girandoci le spalle dice: «Il vostro momento non è ancora arrivato».

CARTOLINA NUMERO 34
Da Bogotà, Colombia

I manuali di storia dicono che El Dorado è un’antica città sognata dai conquistadores spagnoli. I manuali di geografia dicono che è l’aeroporto di Bogotà. Per noi è anche un uomo interamente ricoperto di vernice dorata, che cammina con incedere maestoso fra passanti, turisti, pensionati, studenti e venditori ambulanti. A pochi passi, seduto per terra in plazoleta del Rosario, un ragazzo sta picchiando sui tasti di una macchina per scrivere. Di fianco a lui è posata una valigia aperta, nella quale notiamo alcuni spiccioli. Sopra, un cartello: POEMAS A LA VENTA (poesie in vendita). Ci guardiamo negli occhi: come non acquistarne una? Ci informiamo sui prezzi, ma il ragazzo risponde che «la poesia no tiene precio», quindi possiamo dargli quello che vogliamo. Ci allunga due poesie battute a macchina: Carta a mi mismo e Cómo se concibe un poema. Intanto uno studente ha cominciato a suonare la chitarra e l’immenso El Dorado, anche se forse non si vede più, è sempre qui.

CARTOLINA NUMERO 35
Dal tendone del circo Knie

I nostri pensieri, nell’ombra, somigliano a grigie periferie, a palazzi dismessi e a interminabili pomeriggi domenicali; però al momento giusto entrano in scena i cavalli. Sgraniamo gli occhi. Apriamo la bocca. Ci ascoltiamo esclamare a turno: «Oooh!». Sì, perché proprio i cavalli, con il loro odore di cavalli, la terra, la segatura, ci aiutano a capire che il circo non è altro che il racconto della nostra vita. Tutto è necessario: la fanfara, laleggiadria di un funambolo, il sentore acre delle bestie, il gesto poetico di un clown, il sudore degli acrobati, il trucco pesante, i lustrini, gli abiti pacchiani e meravigliosi, i «ragazzi di pista» che smontano e rimontano, lo zucchero filato, il presentatore che ci ringrazia «sentitamente» e che poi ci saluta con la mano «e… arrivederci al prossimo anno!». Mentre usciamo, nel parcheggio, ci viene in mente una frase del grande clown François Fratellini: «Les acteurs font semblant, nous c’est pour de vrai». Nel circo tutto è fasullo, ma tutto è vero.

CARTOLINA NUMERO 36
Dal ghiacciaio della Plaine Morte, Svizzera

Ogni passo è un pensiero. Ogni respiro l’attesa di un’immagine, di una svolta. Quando arriviamo in cima, sfiorando i 3’000 metri, il lago ghiacciato è uno strappo nella roccia. Dietro, la costruzione militare sembra la versione alpina della Fortezza Bastiani, nel Deserto dei Tartari. Noi però continuiamo a darle le spalle: tutti i nostri muscoli, anche i più piccoli, quelli sconosciuti, sono tesi verso quel drappo innevato con pochi segni. Quella fenditura vertiginosa e soffice. Quella pagina bianca che non vogliamo riempire.

PS: Potete leggere qui le prime quattro cartoline. Le successive: qui dalla 5 alla 8, qui dalla 9 alla 12, qui dalla 13 alla 16, qui dalla 17 alla 20, qui dalla 21 alla 24, qui dalla 25 alla 28, e qui dalla 29 alla 32.

PPS: Da Wikipedia: «La stazione di Arth-Goldau (in tedesco Bahnhof Arth-Goldau) è un nodo ferroviario del Canton Svitto, in Svizzera. La stazione si trova nel centro abitato di Goldau e serve il comprensorio di Arth.»

PPPS: La frase di Albert Fratellini è tratta dal suo libro Nous, les Fratellini, edito per la prima volta nel 1958 e ripubblicato nel 2009 dalle Éditions Cartouches di Parigi.

PPPPS: La Fortezza Bastiani si trova nel romanzo di Dino Buzzati Il deserto dei Tartari, pubblicato la prima volta da Mondadori nel 1940 (e da allora più volte ristampato).


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