Un giorno ideale per i pescitaccuino

#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.

Io li chiamo “momenti acquario”. Accadono quando, per una serie di circostanze, fra me e il mondo si frappone un vetro. Il problema è capire chi sia dentro e chi sia fuori, cioè quale dei due spazi si possa definire “acquario”. Ripenso al mio viaggio a Zurigo e, in particolare, alla cena a casa di Martina e Gregorio. Dalla loro cucina si vede il giardino, con un tavolo di legno appena distinguibile nell’oscurità. Oltre il giardino, un edificio con una parete di vetro. Oltre il vetro, un luminoso corso di ballo. Noi ce ne stiamo nel nostro mondo, con un bicchiere di birra, mentre di là ballano il tango. Senza sentire la musica, i gesti appaiono come frammenti di un discorso arcano, per noi intraducibile. Ma chi siamo noi? Siamo fuori o dentro l’acquario?
La domanda ritorna il giorno dopo. Seduto su una panchina in Paradeplatz, aspetto che arrivi Yari Bernasconi. I tram scorrono davanti a me. Guardo le facce dietro i finestrini, immagino storie che non saprò mai. Mi domando se per i passeggeri la piazza sia un grande acquario e io un piccolo pesce fra i tanti, che si distingue solo perché ha in mano un taccuino.
Presto mi raggiunge Yari, l’altro pescetaccuino. Ci spostiamo sotto la pensilina per ripararci dal vento. Il cielo è bianco, basso, sembra fatto di materia solida (panna? vernice? sabbia?). La poesia che leggiamo insieme s’intitola, inevitabilmente, Acquario. Scritta da Gianluca D’Andrea.

Passano le figure, inseguono gli eventi.
Ombre, i bambini trascorrono
in gesti, in un piede piegato o i passi.
Gli uomini impiegano il tempo
in frazioni strutturate,
il movimento ha passioni e dolori
e quadri che si aprono a brusii,
flussi trapassati, sorprese
negli scorci, membrane che respirano
le azioni compiute;
la giustizia si sposta nello stesso
luogo, si sgrana in tempi impercettibili.

Di certo, poche persone passano di qui senza inseguire eventi: un vecchio si affretta, con in mano una busta bianca, una donna ride al telefono senza fermarsi. Numerosi impiegati escono senza il cappotto – i Senza Giacca, li chiamiamo Yari e io – in transito fra un ufficio e l’altro. In mezzo a brusii, / flussi trapassati, sorprese negli scorci, si moltiplicano gli acquari.
La Galerie Gmurzynska, con gli spazi disegnati da Zaha Hadid, è curva, liscia, piena di luce e di oggetti lisci che ruotano lentamente. La gioielleria Harry Winston, appena aperta, è già chiusa per un “evento privato”. Un “Perfect Diamond” (PD) svela con malcelata fierezza i suoi carati, come una tigre che ringhiando faccia balenare i denti aguzzi. Mi avvicino alla vetrina e l’acquario si capovolge: intorno al PD si riflettono le persone di passaggio, gli uomini che impiegano il tempo / in frazioni strutturate, i bambini che trascorrono / in gesti.
Un Senza Giacca si ferma a guardare il PD. Il suo riflesso si colloca precisamente al centro, tanto che per un attimo – senza saperlo – il Senza Giacca ha l’onore d’indossare l’irraggiungibile PD. Accanto alla gioielleria, un negozio di fiori vende mazzi di mimose a dodici franchi l’uno. Se le mimose vanno a tanto, penso, chissà quanto costano i diamanti.
Torno alla pensilina, meditando sugli acquari. Ancora non ho capito chi sia dentro e chi fuori… ma forse non c’è differenza. Forse ognuno è nello stesso tempo persona-che-guarda e pesce-che-nuota: l’osservatore è osservato, lo spettatore spettacolo, il lettore scrive la poesia. Rileggo la lirica di D’Andrea e provo a cercare la giustizia, che si sgrana in tempi impercettibili. Vorrei parlarne con l’altro pescetaccuino. Ma Yari si alza di colpo, attirato da qualcosa alle sue spalle, e mi lascia solo.
[AF]

*

La telecamera sembra professionale. L’operatore si contorce attorno all’obiettivo in una danza di corteggiamento. No, a ben guardare è concentrato su qualcosa e non stacca gli occhi dall’oggetto del desiderio, manovrando lo strumento come se fosse l’appendice di un suo arto. Mi immagino la star hollywoodiana che compare da dietro una vetrina translucida, la confusione improvvisa, è un attimo, basta premere REC e invece no, un tizio si ferma davanti alla telecamera, copre la visuale, la celebrità internazionale sta per salire nella Bentley parcheggiata a pochi metri, l’autista apre la porta, maledetto passante, farabutto, spostati, non c’è tempo, si registra lo stesso, chissà, la fortuna aiuta gli audaci, ma quel cretino è ancora davanti, si è girato senza capire, resta fisso, apre gli occhi da bovino, slam, la portiera si chiude, i passanti indicano col dito, razza di ebete togliti di mezzo, uno sbuffo di fumo e ciao, è andata, maledizione, maledizione, maledizione.
In verità, l’oggetto del desiderio rimane misterioso. Senza un motivo apparente, l’operatore smette di interessarsi alla prospettiva scelta. Guarda intorno e si sposta con la sua telecamera. Filma la piazza, ora. Si muove, cerca due scorci. Poi mi guarda, o meglio blocca l’obiettivo su di me. E mi accorgo che non sono io: siamo noi, siamo la folla, siamo la piazza. Mi ero arrogato il ruolo di osservatore e mi ritrovo a essere osservato. Si chiama mise en abîme: guardare lo specchio nello specchio e scoprire la vertigine del potenziale infinito (l’abîme, appunto, l’abisso). Sento comunque un poco di paradossale fastidio a stare dietro la lente. Mia nonna paterna, che da ragazza è arrivata a Berna dalla campagna vicentina, alla fine degli anni ’40, ha involontariamente creato un lessico tutto suo, italianizzando parole dal tedesco e dal dialetto veneto; ebbene, ancora oggi, per lei, la “lente” è la lupa. Dal tedesco “Lupe”, lente d’ingrandimento. Ecco: mentre la lente della telecamera mi fissa, vedo i suoi denti, sento il respiro minaccioso, mi sembra di essere Atreiu davanti a Mork, nella Storia infinita. Uno di fronte all’altro, mentre dietro avanza il Nulla.

Raggiungo nuovamente Andrea con la mente che continua a fantasticare: Bastiano, il Drago della Fortuna, il leone Graogramàn, il Vecchio della Montagna Vagante… Lui, per farmi tornare con i piedi per terra nell’irrealtà di tutti i giorni, decide di ribattezzarci: pescitaccuino.
[YB]

*

L’occhio della videocamera punta sui binari del tram, sull’edicola, sulle vetrine e anche su di noi. L’enigma dell’obiettivo ci sta pescando. Pescitaccuino presi nella rete. Immagino che navigheremo dentro un’acquario lontano, schermo di televisore o di computer o di telefono. Nessuno può restare fuori. Nemmeno l’operatore, con i suoi contorsionismi, anche lui catturato da chi ha catturato. Eccolo qui, nei nostri telefoni, nei nostri appunti. È questa forse la giustizia? No, perché guardare e venire guardati significa semplicemente essere nel mondo. Il problema è trovare un senso morale nello sguardo. Come scrisse il poeta irlandese Seamus Heaney: «No such thing / as innocent / bystanding» (“Non esiste / spettatore / innocente”).
Da Paradeplatz passano persone con lo sguardo vuoto, donne curve, uomini impauriti, ragazzi vacillanti. Alzo gli occhi e vedo una pubblicità sulla fiancata di un tram: un piccolo pinguino con la madre e la scritta «Sicherheit» (sicurezza). Ma non esiste sicurezza. Non c’è nulla che possa metterci al riparo dall’ignoto. Anche questa, forse, è una possibile forma di giustizia.
[AF]

*

«Beati i giusti, perché saranno giustiziati»: è una freddura che ripetevo da ragazzino, quasi ignaro del Vangelo secondo Matteo. La ripeto anche oggi, fra me e me, nel treno per Zurigo. Quasi ignaro, sempre, del Vangelo secondo Matteo. Sto scrivendo a computer e ascolto con le cuffie una voce che mi ricorda quanto sia oscillante la vita: «Sometimes I’m cold and sometimes I burn»… Nel volgere di un minuto, un uomo barcollante entra nel vagone, chiede discretamente degli spiccioli di scompartimento in scompartimento. Faccio segno di no con la testa. Quando realizzo, l’uomo è già scomparso. Non faccio però in tempo a dimenticare, perché una donna alza il tono della voce. Viaggia con un coetaneo, entrambi sessantenni direi, la pelle dei volti grigia. Parlano in dialetto zurighese, capisco poco ma colgo termini come “scandalo”, “brutto”, “polizia”. E infatti la donna, cercando il contatto visivo con gli altri passeggeri, estrae teatralmente il cellulare dalla borsa e telefona alla polizia.
Il dialogo è più lineare e malgrado il dialetto capisco meglio: molestati in treno da un accattone, nel 2018 in Svizzera non dovrebbe succedere, siamo sul treno per Zurigo. E a questo punto la donna sciorina indicazioni sorprendenti, numero del treno, orario di partenza e di arrivo, numero del vagone, addirittura l’orario preciso in cui la sua giornata è stata rovinata dall’intruso. Saluta, interrompe il collegamento e dice sollevata (al suo accompagnatore e al vagone tutto): manderanno degli agenti alla stazione di Zurigo. Poi continua il monologo, il suo compagno annuisce, il tono – dopo i crismi dei tutori dell’ordine – si è fatto definitivamente sicuro, incalzante, cerca l’approvazione degli altri viaggiatori. La Svizzera è senz’altro un paese migliore, adesso. Alzo il volume delle cuffie. «I know I’m not supposed to look at you the way I look at you»…

A Paradeplatz, quando ormai stiamo per partire, assisto all’incontro fra due altre figure barcollanti. Non hanno bisogno di aprire la bocca, comunicano con gli occhi.
– Ciao.
– Ciao.
– Come va oggi?
– Come ieri.
– Eh.
– Tu?
– Come ieri.
– Eh.
Aspettano un tram. Scoprirò dopo che è il numero 7. Si muovono lentamente, la curva del corpo innaturale, goffa. Poi si cristallizzano in un’immobilità improvvisa, lo sguardo rivolto a terra mentre il mondo – il resto del mondo – va avanti. La gente scansa le due statue con dispetto. Intralciano il passaggio. Ogni occhiata è una sentenza: la maggioranza sa sempre quello che è giusto. Come il potere, finché resta abbastanza potente. La giustizia si sgrana in tempi impercettibili.
Adesso è veramente ora di alzarci e partire. Guardo l’altro pescetaccuino, Andrea, anche lui a metà strada fra tutto e niente, eternamente in bilico. Sorrido. Poco importa se siamo pescitaccuino o «pesci d’aeroporto», come direbbe Angelika Overath: «I viaggiatori migravano l’uno verso l’altro. C’erano volti che tornavano, scomparivano e ritornavano. Li si riconosceva, senza un saluto, che già si erano persi. Quel rapido rivedersi scivolava nella memoria vuota di un déjà vu. Siamo su uno schermo, pensò, siamo un film. Per quale curioso osservatore?».
[YB]

PS: La poesia Acquario di Gianluca D’Andrea è tratta dal volume Transito all’ombra, Milano, Marcos y Marcos, 2016.

PPS: La storia infinita è naturalmente il romanzo fantastico di Michael Ende, Die unendliche Geschichte, pubblicato la prima volta nel 1979. Famoso anche l’adattamento cinematografico, del 1984, comunque molto distante dal libro.

PPPS: I versi di Seamus Heaney sono tratti da Mycenae Outlook, nella raccolta The Spirit Level (1996). In italiano: La misura dello spirito, a cura di Roberto Mussapi, Milano, Mondadori, 2000.

PPPPS: Per la citazione del Vangelo secondo Matteo, si fa riferimento in particolare a Mt 5, 1-12, dal cosiddetto “discorso della montagna”. Curioso (e forse significativo) che in realtà, nei Vangeli e in tutta la Bibbia, non compare mai l’espressione “Beati i giusti”, che pure sembra di avere nelle orecchie da sempre.

PPPPPS: Il salvifico accompagnamento musicale sul treno per Zurigo è di Sophie Hunger. In particolare, sono citate Supermoon e LikeLikeLike, uscite rispettivamente in Supermoon (2015) e The Danger of Light (2012).

PPPPPPS: Il libro di Angelika Overath si chiama proprio Pesci d’aeroporto, in tedesco Flughafenfische, in italiano tradotto da Laura Bortot per Keller (Rovereto) nel 2013.

PPPPPPPS: Ogni mese torniamo a Zurigo e ci sediamo su una panchina di Paradeplatz. E ogni mese, a proposito di acquari, prima di riprendere i nostri rispettivi treni beviamo un caffè negli spazi sotterranei della stazione principale, dietro le vetrate di un bar con vista sul viavai di viaggiatori e pendolari (cavedani, lucci, trote, alborelle; ma c’è pure chi ha visto tonni e squali). Trovate qui la puntata di gennaio e qui la puntata di febbraio.

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