Non importa dove

CARTOLINE (MARZO)

“Cartoline” (#cartoline2020) è un progetto ideato e scritto da Yari Bernasconi e Andrea Fazioli.

CARTOLINA NUMERO 9
Da Parigi, Francia
Un bar, un palazzo in periferia, un ponte sulla Senna, l’angolo di una piazza, un parco, un take-away… Non importa dove: Parigi offre sempre un punto di fuga, un aldilà. Scendendo da Montmartre ci fermiamo per scriverti questa cartolina, appoggiati a un muretto. All’inizio non ce ne accorgiamo, sentiamo solo un fruscio, un respiro interrotto. Poi voltiamo lo sguardo ed eccolo, sta uscendo da un muro. Noi sobbalziamo. L’uomo sbuca fuori, letteralmente, da un solido muro di pietra. Ben vestito, sulla quarantina. Si rivolge a noi con gentilezza e si presenta come Dutilleul. Gli chiediamo qualche spiegazione, ma lui – come se tutto fosse normale – alza le spalle. Forse ha ragione: a cosa serve un muro, dopotutto, se non a passarci attraverso?

CARTOLINA NUMERO 10
Dal solaio
Nella penombra appaiono bambole, bottiglie, ceste di vimini. In un angolo troviamo una grossa scatola di cartone con la dicitura LIBRI! in rosso. È un’indicazione intrigante, ma la scatola è ben sigillata con un nastro adesivo marrone scuro, del genere più tenace. Esitiamo, poi ci blocchiamo. Una scoperta del genere è un bivio: impossibile sapere se la scatola rappresenti un banale ritardo, una dimenticanza, o al contrario un’attesa, un anticipo. Insomma, il trasloco è alle spalle o all’orizzonte? Nell’attimo stesso in cui lo sguardo incontra il punto esclamativo, non è più chiaro se questa sia la casa in cui stiamo per vivere o quella in cui abbiamo vissuto.

CARTOLINA NUMERO 11
Da Bellinzona, in un giorno di primavera del Neolitico medio
C’è un’armonia naturale nella precarietà delle capanne circolari. La luce del sole si allunga sui prati. Da quassù, la piana alluvionale sembra vicina e al tempo stesso lontana: è come se la vedessimo con anticipo sul tempo che scorre. Fra seimila anni le macchine fotografiche saranno tutte per le rocce delle fortificazioni. Verranno ricordate le prime tracce di edifici romani, risalenti alla fine del I secolo avanti Cristo, e via via le altre tappe che renderanno possibile il celebre insieme di castelli e cinta murarie. Un panorama che indurrà i passanti a fermarsi e a scattare selfie spettacolari. Tutto il contrario di queste capanne leggere, ridicole di fronte ai millenni. Eppure il silenzio ha un odore diverso, qui, sul verde della collinetta che guarda con torpore la pianura da una parte e la montagna dall’altra. La notte, non c’è bisogno della torre più alta per avvicinarsi al cielo.

CARTOLINA NUMERO 12
Dalla cucina di un palazzo nobiliare
La cucina è vasta e polverosa. Ci sono arcate di pietra, un solido tavolo di legno, pentole di rame, lunghi spiedi, forchettoni alle pareti. Di fianco all’immenso camino, una catasta di legna; nel camino stesso, sotto l’ampia cappa, hanno messo due piccole panche su cui sedersi. La ragazza sta lì e fissa il vuoto. Proviamo ad attirare la sua attenzione con un colpo di tosse. Lei si volta e nei suoi occhi leggiamo dolore, rassegnazione, nostalgia per il tempo perduto. Ma è così giovane! «Che succede?», chiediamo. «Sei sola in casa?» La ragazza abbassa lo sguardo sulla cenere. «Sono tutte al ballo». In quel momento percepiamo nell’aria qualcosa di insolito. Tutto è inesorabilmente grigio e triste, ma allo stesso tempo sembra vibrare qualcosa di potente, come un pulviscolo di scintille invisibili, forse magiche. «Come ti chiami?» Lei fa un sorriso mesto. «Che cosa importa? Tutti mi chiamano Cenerentola».

PS: Potete leggere qui le prime quattro cartoline e qui le cartoline dalla quinta all’ottava.

PPS: L’uomo che passa attraverso i muri, l’enigmatico Dutilleul, è il protagonista di un racconto di Marcel Aymé (1902-1967), intitolato Le passe-muraille e contenuto in una raccolta omonima insieme ad altre nove storie (Gallimard, Paris, 1943). In italiano è stato pubblicato con il titolo Garù-Garù Passamuri, tradotto da Fiore Pucci in AAVV, Umoristi del Novecento. Con alcuni singolari precursori del secolo precedente, a cura di Giambattista Vicari, prefazione di Attilio Bertolucci, Garzanti, Milano, 1959. Ecco l’inizio del racconto: «A Montmartre, numero 75 bis della rue d’Orchampt, terzo piano, abitava un brav’uomo, di nome Dutilleul, che aveva il singolare dono di passare attraverso i muri senza alcuna difficoltà».

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Oggetti smarriti

Il ragazzo con i capelli rossi e il viso cosparso di efelidi, seduto nell’atrio della Gare de Lyon, sta scrutando la confezione di un prodotto contro gli acari, la cui efficacia è garantita al cento per cento. Ha alzato gli occhiali sulla fronte e tende il viso aguzzo, strizza gli occhi miopi, corruga la fronte nello sforzo di studiare, di capire come quel portentoso unguento gli consentirà di sconfiggere i nemici che si celano nella polvere. Seduto di fronte a lui, pochi minuti prima di partire da Parigi, mi chiedo se anche i miei ricordi più volatili, quelli che tengo nel solaio dei pensieri, verranno sterminati dalla furia anti-acari del ragazzo lentigginoso. Lo vedo rileggere le istruzioni per l’uso e accennare un sorriso. Allora apro il taccuino e cerco di fissare questi giorni d’agosto.
Fra i molti modi in cui si può pensare a Parigi, mi piace immaginarla come un immenso Ufficio degli Oggetti Smarriti. Ogni volta che ci vado perdo qualcosa, impercettibilmente, in qualche strada mai vista prima, e ogni volta trovo qualcosa che non conoscevo, o che avevo dimenticato di conoscere. Nel maggio 2015, scendendo da Montmartre, vidi per caso una testa di clown dietro la vetrina di una galleria d’arte. Mi fermai, la fotografai in fretta con il telefono. Da allora quel clown, dipinto da Bernard Buffet nel 1955, è rimasto nella mia mente (e nel mio telefono). Mi sembra che dica qualcosa di me, e talvolta permette di verificare la mia esistenza in maniera più efficace che guardandomi allo specchio. Quest’anno ho cercato di nuovo la galleria, per rivedere il mio clown, ma senza successo: oggetto smarrito.
Nel suo libro Impératif catégorique (Seuil 2008), l’autore francese Jacques Roubaud racconta di quando abitava in rue Notre-Dame-de-Lorette e si sedeva spesso al café Joconde, in cui c’era una riproduzione della Gioconda dipinta da un certo Mérou. Ho scritto una poesia in onore della Gioconda di Mérou – racconta Roubaud – e nelle “letture pubbliche” raccomando sempre ai miei uditori di andarla a vedere. Spiego loro che andare a vedere al Louvre quella del suo “plagiario per anticipazione” è difficile, poiché ci sono almeno un milione settecentonovantacinquemilaseicentosei Giapponesi che premono davanti a lei; mentre là, all’angolo della rue de la Rochefoucauld e della rue Notre-Dame-de-Lorette, la folla è meno compatta e si può contemplare a piacere la Gioconda. Il volume di poesie dello stesso Roubaud intitolato La forme d’une ville change plus vite, hélas, que le coeur des humains (Gallimard 1999) può essere usato quasi come una guida di Parigi. C’è anche la lirica dedicata alla Gioconda, che comincia così: I veri intenditori / per veder la Gioconda / non vanno in capo al mondo / e nemmeno al Louvre // Vanno all’angolo della rue / de la Rochefoucauld e della rue / Notre-Dame- / de-Lorette / entrano nel caffè / lei è là // Il dipinto è sul muro / beige e crema / la cornice è beige e crema e un po’ arancione / la tela è firmata / di pugno dall’artista / E. / Mérou. / È la Gioconda / la Gioconda di Mérou. Ma le città cambiano e gli oggetti si perdono. Oggi il café Joconde è diventato il café Matisse. Era chiuso per ferie. Sbirciando dai vetri ho visto molte riproduzioni di Matisse e nessuna Gioconda. Di nuovo: oggetto smarrito. Per fortuna, resta almeno la Joconde di Barbara, che dura un minuto e mezzo e che si trova su internet.

Balzando da un poeta all’altro, si potrebbe dire con Jean Tardieu: J’ai beaucoup voyagé / et n’ai rien retenu / que des objets perdus (“Ho molto viaggiato / e niente trattenuto / se non oggetti perduti”). Ma forse proprio questi lampi di smarrimento, questi chiaroscuri della memoria sono ciò che segnano Parigi d’agosto. Lo stesso Tardieu, in epigrafe a Le fleuve caché (Gallimard 2013), scriveva: Tutta la mia vita è segnata dall’immagine di questi fiumi, nascosti o perduti ai piedi delle montagne. Come loro, l’aspetto delle cose s’immerge e si gioca fra la presenza e l’assenza. Tutto ciò che tocco è per metà di pietra e per metà di schiuma.
Il concetto di presenza/assenza riassume ciò che si prova camminando. La natura della città si mostra nella spaccatura fra l’interno e l’esterno, l’alto e il basso, l’intimo e l’enorme. Nelle profondità della metropolitana, un uomo viaggia accanto a un drone appena acquistato e ne accarezza la scatola, tutto contento; per un istante, la presenza di quel drone sembra sollevarci tutti e portarci fuori, all’aria aperta. Una macchina lunga e nera si ferma davanti a un edificio austero. Un passante chiede: Ma è una limousine o un carro funebre? E la ragazza di fianco a lui: Perché, c’è differenza? Il centro commerciale a Les Halles, all’ora di chiusura: serrande abbassate, griglie di metallo, vetrine oscurate, scale mobili che salgono e un moto di sorpresa nello scoprire che, fuori, c’è ancora la luce dorata sui monumenti. Anche i pazzi che gridano per strada riecheggiano una lacerazione: la donna che ogni sera si aggira per il Quartiere Latino, rimproverando il mondo ad alta voce, o il vecchio barbone americano che esprime i suoi interrogativi su this fucking Paris in pieno boulevard Saint-Michel.
Basta poco per scivolare dalla Parigi esterna e visibile a quella interna e velata. La vertigine multicolore della Sainte Chapelle, dove lo spettacolo delle vetrate si mescola a quello dei turisti con il naso all’insù. Il fervore silenzioso della Chapelle de la Médaille Miraculeuse, in rue du Bac, a pochi passi dalle vetrine sontuose del Bon Marché. La quieta freschezza di un tè alla menta al bar della Grande Moschea. Lo sguardo senza tempo dell’axolotl, al Jardin des Plantes, che ho ritrovato esattamente nella stessa posizione in cui lo avevo lasciato due anni fa. Il retro del palcoscenico del cinema Le Grand Rex, dove si aggirano fantasmi in bianco e nero; l’ombra accogliente dei bistrot; gli eterni anni ’80 del bar “Breakfast in America”; le partite di pétanque e l’assenza/presenza del commissario Maigret in place Dauphine.
Al Museo d’Orsay, non sapendo più davanti a quale classico arenarmi, ho scelto di partecipare al Bal au moulin de la Galette, così come lo vide Renoir nel 1876. Ma non in prima fila: mi sono messo sulla sinistra e ho fissato un punto periferico, dove gli esseri umani appena accennati diventano macchie di colore.
Succede qualche volta, nella vita, di sentirsi figure sullo sfondo di un dipinto: la festa trascina i personaggi visibili in primo piano mentre noi, nel nostro angolo, con la nostra sensibilità, tentiamo di capire le ragioni della nostra presenza/assenza.

Perché qualcosa ci appartenga è necessario fissarla a lungo o ascoltarla senza distrazioni. Bisogna andare, vedere e poi tornare di nuovo. Succede con i quadri, ma anche con le parole smarrite nelle piazze piene di gente. In place de la Contrescarpe, tagliando fuori ogni altro suono, mi sono concentrato sulla frase di contatto dei camerieri, che tornava ad accendersi uguale, sempre con la stessa intonazione: Bonjour! Vous avez choisi? Le parole dentro di me hanno superato il loro significato e sono diventate una frase musicale: sib-sol, fa-fa-fa-fa-sol… qualcosa da cui potrei partire per improvvisare un ricordo di viaggio al sax.

Dalle parti di rue Lepic, mi sono fermato a sfogliare il libro di Roubaud. Scendevo questa via che era diritta, inclinata di sole, tra automobili di una lentezza imprecisa. Scendendo questa strada, avevo la sensazione di un passato, di un lontano passato, di un’altra strada. […] Quella strada là, che non era questa strada qui, come sarebbe tornata presente, come si sarebbe presentata, mentre camminavo, inseguito dal sole, dallo scintillio degli alberi, le pieghe di polvere? La domanda è di quelle urgenti, perché tutte le strade del nostro qui e ora contengono strade inghiottite dall’oblio e promettono strade future. Si può evitare che ciò che vediamo divenga come l’illustrazione di una rivista, sempre più stinta con il passare degli anni? Come combattere il prodotto anti-acari garantito al cento per cento? O in altre parole, dove trovare il bandolo che possa legare le Parigi del passato e le Parigi del futuro, con tutti i loro oggetti smarriti e ritrovati?
Credo che la risposta stia nel paradosso. Fuori dalla Grande Moschea, in una libreria in place du Puits de l’Ermite, ho comprato una versione del Divân, l’opera più celebre del poeta persiano Khāje Shams o-Dīn Moḥammad Ḥāfeẓ-e Shīrāzī, detto Hāfez, vissuto a Shirāz fra il 1315 e il 1390. Sfogliando il volume, ho trovato due versi che racchiudono il paradosso: Ho lo spirito sereno presso l’Essere che dona la pace, / Colui che all’improvviso ha tolto la quiete dal mio cuore. Questa condizione di pace inquieta serve a tenere desta l’attenzione: fungendo da pungolo, permette a ogni viaggio di farsi significativo, nonostante il pericolo della dimenticanza. La mia fatica è di essere presente in ogni momento, pure in quelli vuoti, cercando di trasformare la malinconia in serenità inquieta. Tale operazione non viene compiuta dall’atmosfera né dalla novità del paesaggio, ma richiede la presenza dei compagni di viaggio.
Ci pensavo al museo Pompidou, davanti all’opera Senza titolo realizzata da Robert Ryman nel 1974. Sostanzialmente si tratta di un trittico monocromatico: tre grandi pannelli (182 x 546 cm) laccati di bianco. Quello spazio sterminato, quel campo dove tutto è possibile non si lascia comprimere nei confini di un luogo fisico. L’aspetto più misterioso di ogni viaggio, per quanto attraversi posti esotici e meravigliosi, consisterà sempre nei viaggiatori stessi. Più dei monumenti, più delle opere d’arte, più dei sapori e degli odori.
Davvero c’è la speranza che rimanga qualcosa di una strada percorsa nella fragilità del presente? Se tale speranza esiste, essa non può che nascere nell’intesa, nello scambio, in quella strana alchimia di silenzio e parola che accade quando il viaggio sta già diventando il racconto del viaggio. Gli aperitivi, le cene, i pranzi nei giardini pubblici o in una fritteria, le frasi scambiate al volo, i momenti dove nessuno dice niente. È in questi interstizi che il grande Ufficio degli Oggetti Smarriti può concedere i suoi doni segreti. Insieme all’inevitabile smarrimento, la città è pronta a offrirci qualcosa che – pur essendoci ignoto – riconosciamo come nostro: per esempio l’Arbre Bleu, dipinto nel 2000 da Pierre Alechinsky in rue Descartes. L’opera è affiancata dai versi scritti appositamente da Yves Bonnefoy: […] Car même déchiré, souillé, / l’arbre des rues, / c’est toute la nature, / tout le ciel, / l’oiseau s’y pose, / le vent y bouge, le soleil / y dit le même espoir malgré / la mort […] (“Perché anche lacerato, sporco, / l’albero delle strade / è tutta la natura, / tutto il cielo, / l’uccello si posa / il vento si muove, il sole / dice la stessa speranza nonostante / la morte”). Questo viaggio a Parigi, nel cuore di agosto, è stato per me come un albero blu che resiste alle intemperie. Un albero che invita a fermarsi per bere qualcosa sotto le sue fronde, con animo serenamente inquieto.

PS: Ringrazio i miei compagni di viaggio per la loro presenza e per la loro pazienza. Grazie anche per avermi inviato alcune delle fotografie che appaiono in questo articolo.


PPS: I versi di Tardieu sono tratti dallo stesso volume di cui cito l’epigrafe. Le traduzioni in italiano sono sempre mie, compresa quella di Hāfez (il volume che ho comprato: Hāfez de Chiraz, Le Divân. Œuvre lyrique d’un spirituel en Perse au XIVème siècle, a cura di Charles-Henri de Fouchécour). La canzone di Barbara è tratta dall’album Barbara à l’Écluse (La voix de son maître 1959). La canzone di Giorgio Conte è un piccolo capolavoro umoristico ispirato a una visita al Museo d’Orsay: si trova nell’album Come Quando Fuori Piove (Ala Bianca 2011). Infine, per chi non fosse pago, ecco Charles Aznavour: Chaque rue, chaque pierre / Semblaient n’être qu’à nous / Nous étions seuls sur terre / À Paris au mois d’août… La canzone, che proviene dall’album La Bohème (EMI 1966), è parte della colonna sonora del film Paris au mois d’août, girato da Pierre Granier-Deferre nel 1966 e tratto dal romanzo omonimo pubblicato da René Fallet nel 1964.

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Il gusto della birra

In uno dei suoi madrigali, Michelangelo Buonarroti paragona l’artista alla natura: entrambi giungono alla perfezione dopo un lungo apprendistato. Così come la natura impiega secoli a modellare le sue bellezze (fra cui la donna alla quale Michelangelo dedica la poesia), così l’artista: Negli anni molti e nelle molte pruove / cercando, il saggio al buon concetto arriva / d’un’imagine viva / vicino a morte, in pietra alpestra e dura; / ch’all’alte cose e nuove / tardi si viene, e poco poi si dura. Insomma: ormai vicino a morire, il saggio (l’artista) arriva a realizzare nella pietra alpestre e dura l’idea di un’immagine viva, perché si arriva solo in tarda età alle opere migliori e più originali. Non so se sia vero. In un certo senso è consolante, perché vuol dire che c’è sempre un margine di miglioramento, e che la vecchiaia può conoscere lo slancio della novità.
FullSizeRenderMa anche la natura raggiunge la perfezione prima di morire? Forse… basti pensare alla dolcezza di certi autunni. A differenza degli artisti però, la natura risorge ogni anno ed è originale sempre, nel fulgore della primavera così come nel sonnolento ronzio dell’estate. Basta camminare per le strade, in questi giorni, per accorgersi che non ha perso la mano. Come per caso, oltre un muretto, alzo gli occhi e mi imbatto nel mandorlo di Van Gogh. Quasi centoventi anni dopo le pennellate dell’artista, il ramo fiorito non mostra segni di stanchezza: è sempre lui, vestito a festa, tenacemente fragile sullo sfondo del cielo. Dopo qualche secondo mi rendo conto che il mandorlo non è un mandorlo, è semplicemente il solito vecchio ciliegio del mio giardino. Ma che differenza fa? La primavera è un’artista proprio perché trasforma i mandorli in ciliegi, la realtà in opere d’arte e le opere d’arte in realtà. Senza cedimenti organizza ogni anno una nuova mostra, e ogni anno è un successo. Di critica e di pubblico.
IMG_0012È curioso quando, camminando, capita d’imbattersi in un paesaggio o in una situazione di cui si è giunti a conoscenza tramite un gesto artistico. Ecco uno scorcio inedito, che mai si è presentato proprio con questi colori e che mai tornerà… eppure l’ho già visto in un quadro, l’ho già incontrato in un film. Ecco un odore, una sensazione che sarebbero nuovi se non ne avessi già letto in un romanzo.
Ogni primavera, per esempio, di solito nel mese di aprile o di maggio, mi concedo una birra insieme al commissario Maigret. Bisogna che sia una di quelle giornate che alla primavera riescono solo tre o quattro volte l’anno – quando ci si mette d’impegno –, una di quelle giornate che bisognerebbe gustare senza fare niente, così come si gusta un sorbetto, una vera giornata da ricordo d’infanzia. Allora mi trovo un posto tranquillo dove bermi una birra, mentre guardo la gente che passa. Non trascorre un minuto senza che io avverta una presenza massiccia, alle mie spalle. Non mi volto, per discrezione, ma so che è arrivato. Sento il rumore di una sedia, lo strofinio di un fiammifero. Ed ecco, infine, l’odore inconfondibile del tabacco Caporal gris.
FullSizeRenderTutto era buono, leggero, inebriante, di una qualità rara: il blu del cielo, il fluire morbido di una nuvola, la brezza che all’improvviso vi accarezzava all’angolo di una strada, e che faceva fremere i castagni quel tanto che basta per indurvi ad alzare il capo verso i loro grappoli di fiori zuccherati. Un gatto sul davanzale di una finestra, un cane steso sul marciapiede, un calzolaio con il grembiule di cuoio sulla soglia, un volgare autobus verde e giallo che passava, tutto era prezioso quel giorno, tutto vi metteva allegria nell’anima, ed è per questo senza dubbio che Maigret conservò per tutta la vita un ricordo delizioso del carrefour di boulevard Saint Germain e della rue des Saints-Pères, ed è sempre per questo che, più tardi, gli capitò spesso di fermarsi in un certo caffè per bere, all’ombra, un bicchiere di birra che purtroppo non aveva più lo stesso gusto.
Nessuna birra ha mai lo stesso gusto, che ci volete fare? È lo strazio della nostra umanità, della nostra imperfezione. Però, per fortuna, ci sono sempre nuove birre, nuove primavere, nuovi ciliegi, mandorli, madrigali e commissari tutti da scoprire.

PS: Il madrigale di Michelangelo è stato scritto negli anni ’30 o ’40 del XVI secolo. Trovate qui il testo completo, tratto dal Canzoniere pubblicato da Guanda nel 2015 (a cura di Maria Chiara Tarsi). La prima fotografia di questo articolo è la copertina del libro: Daniele da Volterra, volto di un apostolo con le fattezze di Michelangelo per l’Assunzione Della Rovere, matita nera su traccia a punta di piombo, 1550-52, Haarlem, Teylers Museum.

PPS: La scena con Maigret proviene dal racconto Le client le plus obstiné du monde, scritto il 2 maggio 1946 e pubblicato nel 1947 nella raccolta Maigret et l’inspecteur Malgracieux. L’immagine di Maigret seduto al tavolino è di Jacques de Loustal, che ha pubblicato delle storie illustrate di Simenon per l’editore Carnets Omnibus.

PPPS: Joy Spring, scritta da Clifford Brown, è interpretata nel 1981 da Stan Getz. Quando suona lui, è come se la primavera soffiasse dentro il sax…
(Insieme a Getz, Lou Levy al piano, Monty Ludwig al basso e Victor Lewis alla batteria; il brano proviene dall’album The dolphin).

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“Chi va a Parigi, va a casa”

Faccio fatica a scriverne, ma ci provo.
In questi giorni ho letto molte parole su Parigi, molte grida di dolore, molti ragionamenti. Alcune di queste parole riuscivano a esprimere anche il mio smarrimento, senza bisogno che aggiungessi altro. Passato qualche giorno, sento però il bisogno di scrivere qualcosa non sull’attentato, ma sulla città, sul mio sentimento nei suoi confronti.
Da sempre amo Parigi. Prima di vederla, già la conoscevo attraverso le canzoni, i romanzi, le poesie. Con il commissario Maigret ho scarpinato sui marciapiedi di tutta la città, tanto che quando ci sono stato davvero mi sembrava di tornare a casa. Studiavo letteratura francese, all’università, e da lontano continuavo a esplorare Parigi: bastava un verso, una replica in una pièce teatrale, la rilettura di un classico o la scoperta di un nuovo poeta.
Finanze permettendo, ho sempre cercato di tornare ogni anno a Parigi, anche solo per qualche giorno. Non sto ora a elencarvi i miei luoghi cari, i momenti a Parigi in cui ho capito qualche cosa di me stesso o del mondo. Mi limito a citare un incontro fatto questa primavera, nel mese di maggio.
All’inizio dell’anno mi era capitato di scoprire un breve racconto fantastico di Marcel Aymé. È molto famoso, ma io non l’avevo mai letto. S’intitola “Le passe-muraille” e comincia in maniera affascinante: A Montmartre, numero 75 bis della rue d’Orchampt, terzo piano, abitava un brav’uomo, di nome Dutilleul, che aveva il singolare dono di passare attraverso i muri senza alcuna difficoltà.
La vicenda di questo modesto impiegato e del suo bizzarro talento consente all’autore di tracciare un quadro ironico e affettuoso della Parigi anni ’30-’40. Ora non vi racconto la storia (merita di essere letta). Mi limito a dire che, a un certo punto, il nostro Dutilleul finisce incastrato in un muro… e tanti anni dopo, si trova ancora lì. Immaginate il mio stupore quando per caso, dopo aver svoltato in una via secondaria, mi sono trovato in place Marcel Aymé, dove ho potuto salutare di persona il povero Dutilleul.
IMG_1858Questa è la Parigi che amo: una città dove girovagare, dove perdersi, piena di contraddizioni fra modernità e memoria, fra consumismo e fantasia. Una città sempre sul filo dell’assurdo, come il racconto di Aymé, ma sempre capace di umorismo, di eleganza. Una città che è riuscita a sopravvivere a momenti storici drammatici, che ha rischiato di essere bruciata dai nazisti ed è ancora qui. Una città ferita, certo, ma viva, pronta a resistere e a stupirci di nuovo.
Per concludere, prendo in prestito le parole di un poeta, che in una breve lirica ha espresso ciò che sento in questo momento: il mio cuore batte a Parigi. La poesia è di Giorgio Caproni ed è stata scritta nel 1979.
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PS: Il titolo di questo post è una fulminea poesia dello stesso Caproni, intitolata “Assioma” e tratta da Erba francese, una plaquette pubblicata nel ’79 (da cui ho preso anche “Il cuore”).

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