Un selfie banale (e buon Natale!)

Siamo io e lui. Come sempre. Io pedalo controvento, ai margini dei campi, mentre lui scivola al mio fianco, leggero, leggerissimo, come io non sarò mai. Io tendo i muscoli, sudo, respiro l’aria fredda con la bocca. E lui? L’Andrea d’ombra è un pensiero di sfuggita, una rapina. Fugace come il dito di un illusionista.
La terra è chiusa nell’inverno, con il promemoria di qualche ciuffo d’erba color verde sciupato. Ma l’Andrea d’ombra non sente la terra, la sfiora appena.

Vedi, le crepe fra le zolle somigliano alle mie domande. Sciocchezze, bisbiglia l’Andrea d’ombra. Un anno è andato, bene o male. C’è stato il male, sì. La fine di questo e di quello, e le persone in fuga e gli strappi e le ferite della morte, un colpo alla volta. E guerre. E sangue. Non fermarti, mormora l’Andrea d’ombra. Hai avuto anche la felicità, la resistenza. Se lo dici tu. Ma sì, occhi sgranati, castagne d’India in un cortile, pane, alberi, cuscini sprimacciati, l’incanto e le parole…
Ma che stai dicendo?
Non ti fidi.
Come potrei? Sei ombra, senza ferite.
Non è vero: custodisco le tue. E so che tutto quello che ti serve, ora, è questa strada di campagna, con l’asfalto un poco sconnesso, questo indugio del sole nel tardo pomeriggio.

Come ogni vigilia di Natale, io e l’Andrea d’ombra facciamo il punto della situazione. Come sempre mi lamento per i progetti incompiuti, per le pagine scritte che non sono come vorrei. E per fortuna, dice lui. Poi mi chiede: non sei contento di quel libretto? Quale libretto? Ma sì: Manca poco a Natale, appena pubblicato da Gabriele Capelli. Ma quello non è opera mia, rispondo. Come no? Dice: illustrato da Antoine Déprez, scritto da Yari Bernasconi & Andrea Fazioli. Appunto. Yari Bernasconi & Andrea Fazioli sono un’entità indipendente, diversa sia da Yari Bernasconi, sia da Andrea Fazioli, sia dallo Yari d’ombra, sia dall’Andrea d’ombra. E non dimenticare Yari Bernasconi & Andrea Fazioli d’ombra. Sì, hai ragione. Anche la & può essere una & d’ombra.
Insomma, siamo una mezza dozzina.
Solo gli autori. Ma se aggiungi anche i personaggi…
Basta, basta, ho capito. Ogni libro nasconde una folla.
E anche una follia…
Così, mentre la bicicletta sfreccia, io e l’Andrea d’ombra passiamo il tempo fra battibecchi e pessimi giochi di parole. Cose minuscole. In una poesia del libretto ci sono queste parole: «“Anche le cose più comuni / sono straordinarie” diceva mio nonno / con gli occhi, camminando».
Il Natale è anche questo, semplicemente: un gesto d’attenzione. La vastità mutata in piccolezza, l’intuizione che le cose banali covano in sé la meraviglia. Il prodigio è il mondo che ogni mattina si presenta come nuovo, nonostante tutto. «Quello che ci rende possibile continuare a vivere è il costante inizio», scrisse Romano Guardini. Il «nuovo» si presenta ogni giorno «con ogni compito e incontro; con ogni dolore e ogni gioia». Spesso noi «intendiamo per nuovo quanto ci eccita. Solo di rado siamo pronti ad avvertire il nuovo in quel che è piccolo e sommesso».
Anche la letteratura è un fermento di cose banali che diventano necessarie, che rivelano sé stesse (e noi che scriviamo, che leggiamo). In una lirica di Manca poco a Natale appare un personaggio – idealmente un ragazzino – che affida il dopopranzo natalizio all’immaginazione.

E quando inizia a voltare le pagine
oltre il brusio del pranzo
e dei parenti, dal suo angolo discosto,
l’orizzonte perde i contorni.
Come gli gnomi, adesso,
cavalca i cinghiali e soccorre le volpi,
siede guardingo con i gufi sull’orlo
della notte, attendendo l’oscurità
di quelle valli boscose che cercano
un nome.

Il desiderio di un Natale «piccolo e sommesso» ha guidato Yari Bernasconi & Andrea Fazioli nella stesura dei testi lirici che compongono il libretto. E questo è anche l’augurio mio (e di tutta la mezza dozzina di autori) per questo Natale: che sia piccolo e silenzioso, ma promettente. Come una serie di tracce sulla neve che portano a un rifugio, a un calore. Buon Natale!

PS: Il libretto Manca poco a Natale è stato stampato in edizione limitata a 500 esemplari, di cui circa 330 in commercio. Non so se sia ancora disponibile. Per informazioni, potete scrivere a gabrielecapellieditore@gmail.com.

PPS: Le parole di Romano Guardini sono tratte da Nähe des Herrn. Betrachtungen über Advent, Weihnachten, Jahreswende und Epiphanie, TOPOS-Taschenbuch, Matthias Grünewald Verlag, Mainz, 1992, traduzione italiana di Giulio Colombi in Natale e Capodanno, Morcelliana, Brescia 1995.

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Buon Natale!

Da qualche mese non aggiorno il blog: ogni tanto fa bene una pausa. Per riprendere il filo condivido un discorso che ho pronunciato in occasione dell’accensione dell’albero di Natale a Bellinzona, la città della Svizzera italiana dove sono nato e dove abito tuttora.
Le trascrizioni di un discorso sono sempre pericolose. Le parole dette a voce alta perdono parte della loro efficacia se messe nero su bianco. Spero che il testo possa piacervi lo stesso. (Soprattutto perché parla di una volpe: in tanti anni che faccio questo lavoro ho maturato la convinzione che un testo non è mai del tutto inutile, se dentro c’è una volpe.) Esiste un video con il discorso, ma è stato pubblicato su Facebook e perciò non posso condividerlo qui.

(Naturalmente, questa faccenda del discorso è più che altro una scusa; ciò che mi preme è rivolgere a tutti voi un caro saluto. Sono felice di riavviare questo luogo d’incontro. Buon Natale!)

C’era una volta una piccola volpe che abitava nei boschi intorno a Bellinzona. Era curiosa, come tutte le volpi, e ogni tanto di notte scendeva nelle vie deserte della città, annusava l’aria, spiava i bar chiusi, le vetrine buie… tranne nelle notti di dicembre. Allora la volpe, abbacinata e frastornata, camminava in mezzo a una miriade di luminarie, festoni, ghirlande, renne o babbinatali fosforescenti… Un po’ sgomenta, la volpe si chiedeva: perché? Perché tutto questo?
Il Natale è implacabile. È difficile fare finta di niente, perfino se sei una volpe. Ci siamo dentro tutti. Tutto questo caos, questa ressa di acquisti e aperitivi e beneficenza e calendari dell’avvento… perché?
Chi crede in Gesù, chi non ci crede, chi forse ci crede, chi è solo una piccola volpe che conosce più che altro le galline e i sentieri nell’ombra. Per tutti, dicevo, c’è qualcosa d’inevitabile, ed è l’attesa. Bene o male, fin dall’infanzia dal Natale ci aspettiamo qualcosa. Anche oggi, magari involontariamente, attendiamo un cambiamento, una consolazione, una speranza per l’anno nuovo.

Il Natale ci obbliga infatti a guardare la radice, il punto dove sorgono le cose. È la festa di un bambino che nasce e in fondo ogni volta che nasce un bambino è una festa. Non dobbiamo abituarci a questo miracolo – una nuova vita – non dobbiamo addormentarci proprio adesso. Il Natale è una veglia nelle notti più lunghe dell’anno e dell’animo, una veglia mentre arriva la luce. Anche per noi, nonostante tutto, con le nostre rughe, i nostri guai, il nostro COVID, i nostri debiti e i nostri malanni, anche per noi è possibile che accada qualcosa di nuovo.
La piccola volpe trema di freddo nel cuore dell’inverno, come tanti uomini e donne e bambini che tremano per l’abbandono, per la fame, per la rabbia, per la solitudine. Magari sono vicinissimi a noi, ma sono invisibili, non riusciamo a vederli; così come non vediamo la volpe che passa in silenzio proprio accanto alle nostre case.
Dobbiamo fermarci. È questo il mio augurio. Fermiamoci. Sediamoci in silenzio, nella nostra stanza, facciamo tacere il traffico, gli affanni, i social network. Soprattutto i social network. Sediamoci senza fare niente e prestiamo attenzione alle cose di tutti i giorni. Allora piano piano sentiremo le voci di chi chiede aiuto, allora distingueremo i volti di chi sta soffrendo vicino a noi. E forse percepiremo anche il passo furtivo della piccola volpe. E se provassimo a seguirla? Se ci lasciassimo guidare dal mistero? Non so dove finiremo: forse in una tana nei boschi, forse in una radura incantata, forse in un presepe – noi e la volpe di nascosto insieme ai pastori e alle pecore. Chissà.
Come finisce la storia?
La piccola volpe si fermò davanti a un grande albero illuminato. È bello tutto questo, pensò. Questo Natale. Proviamo a guardarlo più da vicino. Cautamente si arrampicò nell’intrico dei rami, fra le bocce e le luci. Si acquattò e si dispose ad aspettare, con pazienza, sicura che qualcosa sarebbe successo.
E se guardate bene, è ancora lassù…

PS: Grazie a Edy Pedrini, che ha ideato e girato il video del discorso. Grazie anche a Sara Demir e, naturalmente, alla città di Bellinzona che mi ha lasciato mettere una volpe sull’albero di Natale.

PPS: Il video si trova sulla pagina Facebook della città di Bellinzona (@bellinzonacity). Credo che si possa scovarlo anche cercando su Google. Avvistare la volpe, invece, è più difficile: provate nei boschi sopra il quartiere di Ravecchia, nella zona di Prada.

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Panchinario 74-81

Ci sono lettrici e lettori che mi scrivono di panchine. Qualcuno le ama, anzi, qualcuno m’invia le sue preferite. Per contro, c’è chi pensa che scrivere di panchine sia uno spreco, poiché il mondo sta andando a rotoli e abbiamo emergenze più degne dell’attenzione di uno scrittore. A questi ultimi rispondo che la letteratura non è programmatica. Credo che in queste piccole divagazioni del Panchinario appaia qualche frammento di verità, e questo mi basta: se la scrittura s’impegna nel confronto con una verità, allora non mi pare uno spreco. Ma al di là delle spiegazioni, dedicare tempo al territorio, allo spazio, alle cose minute, è un modo di affinare la propria percezione e la propria sensibilità, un modo per amare il mondo; requisito questo necessario se si vuole salvarlo.

Fra le tante panchine che sono arrivate dal mondo, oggi do spazio a quella di Emily, che scrive dalla contea di Marion nell’Oregon (USA). La sua è una panchina particolare, perché è invisibile: Emily ha filmato quanto vedeva da una panchina scavata nella roccia; ma, a causa dello spazio limitato, non è riuscita a fotografare la panchina stessa. Il suo video ritrae la cascata di South Falls, nel Silver Falls State Park (vedi anche la foto a fine articolo). È spettacolare, e per me è pure inquietante. Da bambino infatti ero intimorito dalle cascate. Il fragore, la mole, il balzo improvviso che spezza il fluire del fiume: le cascate mi toglievano il fiato, e per non sentirle mi mettevo le mani sulle orecchie. Oggi, tanti anni dopo, ho imparato ad apprezzare il canto dell’acqua che precipita a valle… ma resta sempre un filo d’inquietudine.


Con la panchina numero 81, che trovate in fondo a questo articolo, porgo a tutte le lettrici e a tutti i lettori il mio augurio di Buon Natale!

74) MASSAGNO, in via Giuseppe Motta
Coordinate: 2’716’566.5; 1’096’790.5
Comodità: 1 stella su 5
Vista: 1 stella su 5
Ideale per… girare un film
INTERNO CASA ANDREA FAZIOLI GIORNO: Andrea cammina annoiato. ANDREA (VOCE OFF): Non so proprio cosa fare oggi. Piove, fa freddo. (Illuminandosi) Ehi, e se andassi al cinema? ESTERNO STRADA GIORNO: È una giornata grigia. Andrea cammina sotto un leggero velo di pioggia. ESTERNO CINEMA GIORNO: Andrea si dirige verso una panchina di cemento, di fronte all’ingresso del Cinema Lux di Massagno. CUT TO: Andrea si siede sulla panchina. Ha smesso di piovere. Andrea fissa l’ingresso del cinema. ANDREA (VOCE OFF): Andare al cinema per guardare il cinema. Qualcuno entra, qualcuno esce. Quelli che escono sono ancora impregnati del film: nelle loro espressioni, nei loro gesti. Io, invece, non so ancora che cosa mi aspetta. Deserti? Metropoli? Sparatorie, forse, o magari un amore disperato… Sono pronto a tutto. CUT TO: Andrea si alza e si avvia verso il cinema. Musica. Scorrono i titoli di coda.
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Colonna sonora (30 secondi):

 

 75) PLOUDALMÉZEAU, in rue du Port
Coordinate: 48°33’26.7″N; 4°42’15.1″W
Comodità: 3 stelle su 5
Vista: 5 stelle su 5
Ideale per… incontrare l’Ankou.
Guardo il flusso di barche e di nuvole, finché a poco a poco scende il buio e sale la marea. All’improvviso sento un cigolio, come se qualcuno spingesse un carretto. «Piou zo azé?»chiedo in bretone. “Chi è là?” Compare un uomo alto, magro, dai capelli bianchi. La faccia è nascosta da un cappello di feltro. «Piou zo azé?», ripeto una seconda e una terza volta. L’uomo con voce cavernosa risponde: «Ma mestr ha mestr an holl, pa teut c’hoant da glewed». “Il mio padrone è il padrone di tutti, visto che desideri saperlo.” Poi mi guarda e vedo le orbite vuote, la mascella penzolante. Lo riconosco: è l’Ankou, l’oberour ar maro, l’operaio della morte. Prima che possa acciuffarmi fuggo dove ci sono luce, calore, esseri umani e sidro di mele.
(L’Ankou proviene da A. Le Braz, La Légende de la Mort chez les Bretons armoricains, 1893; in italiano tradotto nel 2003 da P. Fornasari per Sellerio con il titolo La leggenda della morte).
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76) BELLINZONA, in via Francesco Chiesa
Coordinate: 2’716’566.5; 1’096’790.5
Comodità: 1 stella su 5
Vista: 1 stella su 5
Ideale per… aspettare il circo.
Questa panchina non ha niente di speciale. È poco lontana dal liceo ed è rivolta verso un parcheggio. Se tornaste qui per 362 giorni all’anno vedreste solo studenti, insegnanti, cemento e automobili. Ma se avrete pazienza, un giorno di metà novembre sorgerà in poche ore il tendone del Circo Knie. Da quando studiavo (o fingevo di farlo) proprio in questo liceo, ho l’abitudine nei giorni del circo di aggirarmi intorno al caravanserraglio. Oltre allo spettacolo – non me ne perdo uno – mi affascina il paradosso insito in ogni circo. Da una parte un mondo fatto di scintille, fanfare, dove tutto è straordinario, dalla grazia dei funamboli alla maestà dei cavalli. Dall’altra parte, dietro le quinte, la quotidianità: il clown bianco che mangia un hamburger, un acrobata che fuma una sigaretta accanto alla staccionata, una trapezista che cammina verso il suo carrozzone, lentamente, cercando di scansare le pozzanghere.
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 77) CARONA, all’angolo tra via Principale e via Luigia
Coordinate: 2’716’143.0; 1’090’733.1
Comodità: 3 stelle su 5
Vista: 3 stelle su 5
Ideale per… sconfiggere il drago
È quasi l’imbrunire. Si accende un lampione, dai camini arriva odore di fumo. Sotto di me ci sono gli orti; più in basso Melide, il lago, il ponte-diga intasato dal traffico. Qui tutto è silenzioso, tranne un canto di uccelli e, ogni tanto, il passo di qualcuno che torna a casa dal lavoro. Ripenso all’affresco sulla facciata della chiesa, appena sopra la panchina: san Giorgio, in groppa a un cavallo impennato, scaglia la sua lancia diritta nelle fauci del drago. Mentre scende la sera mi accorgo che lui non è lontano. Nonostante la pace, la prossimità delle case, la bellezza di queste colline. Lui è sempre vicino: il drago che mi tiene sveglio di notte, la malinconia che mi aggredisce a tradimento, lo sconforto, la solitudine che mi stringe alla gola. Comincia a fare freddo. Alzo il bavero della giacca. Spero che lo scudo regga il colpo, e che la forza mi basti ad alzare la lancia.
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Colonna sonora (30 secondi):


78) NESSUN LUOGO, da nessuna parte
Coordinate:?°?’?”N; ?°?’?”E; ?°?’?”S; ?°?’?”W
Comodità:5 stelle su 5
Vista: 5 stelle su 5
Ideale per… viaggiare.
Non so come sia finito qui. Nella nebbia intravedo la forma di una panchina. Mi siedo. Sento un rumore di ferraglia, un passo pesante. Dal nulla sorge un uomo in armatura e si mette di fianco a me. «Chi sei?», gli chiedo. Lui mi guarda. «Non mi riconosci? Sono l’Eroe… il Buono, quello che parte, lotta, supera la prova». Gli domando se sappia dove ci troviamo. «Siamo all’inizio – mi risponde – sulla Panchina Dove Nascono Le Storie». Poi dice che s’è fatto tardi e si allontana borbottando qualcosa su un maledetto ostacolo da superare. In quel momento dalla nebbia sbuca un orco bitorzoluto, dall’alito fetido. «Buongiorno – lo saluto. – Scommetto che tu sei l’Antagonista.» L’orco si siede, emette un grugnito. «Qualcosa in contrario?» «Io? No, figurati.» L’orco sembra stanco. Mi spiega che ha avuto una giornataccia. «Certa gente pensa che sia facile essere il cattivo… fatelo voi, dico io, fatelo voi, per quella miseria che ci pagano!»
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79) LUGANO, in via Foce
Coordinate: 2’717’975.5; 1’095’805.0
Comodità: 3 stelle su 5
Vista: 2 stelle su 5
Ideale per… meditare sulla solitudine.
A pochi passi brillano le luci di un ristorante, ma sembrano lontane migliaia di chilometri. Dietro c’è un parcheggio, mentre intorno le strade sono deserte, sferzate da un acquazzone. Questa panchina non mi offre nemmeno la possibilità di sperare che per caso qualcuno passi di qui e, perché no, si sieda accanto a me. È di forma classica, verniciata con un bel rosso-panchina… ma è una monopanca, praticamente una seggiola fissata sull’asfalto. C’è posto solo per me. A proposito, perché mi sono fermato? Perché rimango seduto sotto i rami di un salice, a scrutare nel buio? Piove. È sabato sera. Penso che fra qualche minuto mi alzerò, camminerò, andrò a cercare un luogo caldo e illuminato. Ogni viso umano, ogni parola splenderà come se fosse nuova, come se fossi scampato a un naufragio. Forse le monopanche, come le isole deserte, servono proprio a questo: a ritrovare il gusto di stare in compagnia in un piovoso sabato sera d’inverno.
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80) TORINO, nel giardino Lamarmora in via Stampatori
Coordinate: 45°04’15.5″N; 7°40’36.9″E
Comodità: 3 stelle su 5
Vista: 1 stella su 5
Ideale per… un picnic fra innamorati.
Magari, quando sentite la parola “picnic”, pensate a una radura fiorita, all’erba tenera, alla frescura degli alberi, a un ruscello gorgogliante… insomma, a quello che gli antichi chiamavano locus amœnus, un luogo d’incanto. Ma se vi capita di essere a Torino, fra lunghi viali, automobili, palazzi austeri? Non perdetevi d’animo, nessuno ha mai detto che le metropoli non possano essere romantiche. Questa panchina, per esempio, vi fornisce tutto ciò di cui avete bisogno: un paio di cuori intrecciati per l’atmosfera; un cesto della spazzatura per gettare eventuali resti di cibo; una superficie su cui scrivere i vostri nomi accompagnati da un roboante PER SEMPRE. Davanti avete una strada, alle spalle un piccolo parco. Basta poco perché Torino divenga «città della fantasticheria» e «città della passione, per la sua benevola propizietà agli ozi» (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 17 novembre 1935).
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Colonna sonora (30 secondi):


81) GIUBIASCO, in Piazza Grande
Coordinate: 2’721’446.7; 1’114’658.2
Comodità: 1 stella su 5
Vista: 3 stelle su 5
Ideale per… stare a testa in giù.
È l’una del pomeriggio e a Giubiasco tutto scorre. Passano le automobili in via Bellinzona, veleggiano banchi di nuvole nel cielo, fuggono i giorni dell’avvento che portano in fretta, sempre troppo in fretta, a un altro Natale. Io, invece, sto fermo. Così come le sculture disseminate sul prato. Vicino a me c’è una famiglia di pietra: due genitori e un bambino, tutti con lo sguardo rivolto all’albero di Natale. Davanti all’albero c’è un’altra piccola statua, un uomo che sta in equilibrio sulle mani. Di colpo, mi pare che tutto ruoti intorno a quell’ometto capovolto: la piazza, il traffico, le stagioni dell’anno. Forse questi giorni stanchi di fine dicembre possono diventare un punto di svolta. Al di là delle luminarie e dei panettoni, la festa può essere un’occasione per cambiare prospettiva, per guardare le cose vecchie in maniera nuova. Ho deciso: quest’anno a Natale proverò a mettermi a testa in giù, così, per vedere l’effetto che fa.
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Colonna sonora (30 secondi):

 

PS: Potete leggere qui le prime quattro panchine, qui le panchine da 5 a 10, qui da 11 a 17 e qui da 18 a 23, qui da 24 a 30, qui da 31 a 37, qui da 38 a 45, qui da 46 a 55, qui da 56 a 64 e qui da 65 a 73. In generale, nella categoria Panchinario (in alto a destra), si trovano tutte le panchine.

PPS: Il video della cascata è stato girato da Emily, la fotografia è presa da internet. Esprimo la mia gratitudine a chi mi aiuta, mi accompagna e mi fa scoprire nuove panchine. In particolare, grazie mille a Barbara (Ploudalmézeau) e a Giacomo (Lugano).


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Capolinea Frankental

#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.

La piazza chiama. Noi rispondiamo.
Che non sia un giorno come gli altri appare subito evidente.
Per cominciare, siamo entrambi in anticipo di mezz’ora: alla stazione di Zurigo, senza dire nulla, ci troviamo in quello che è ormai diventato l’unico posto possibile (per incontrarsi). Il cielo, poi, è di un blu troppo intenso per non nascondere qualcosa. Percorriamo rapidamente la distanza che ci separa da Paradeplatz, seguendo la scia di cavi a penzoloni che di notte rendono magica – si dice – la Bahnhofstrasse, illuminando la via con una pioggia di stelle. Di giorno invece le luci spente esaltano l’assenza di colori. Giacche, loden, mantelli oscillano fra il nero e il grigio. Le facce dei passanti appaiono pallide, affaticate, mentre il freddo punge la pelle. I raggi del sole, che pure ci sono, sembrano il ricordo ostentato di un lontano torpore, un po’ come quando davanti a una palazzina si sente dire «qui una volta c’era un prato, c’erano i fiori, ci venivo a giocare».
All’inizio, appena giunti a Paradeplatz, non ci accorgiamo di niente. Poi, dopo qualche secondo, ci rendiamo conto di essere circondati. Intorno a noi è schierato un esercito nemico: un corpo di fanteria composto da appuntiti alberi di Natale ci sta prendendo di mira dai tetti dei palazzi, dalle vetrine, dagli angoli delle strade. Cerchiamo rocambolescamente riparo nel Lichthof, il cortile interno dell’edificio che ospita la Crédit Suisse, ma cadiamo in un agguato.
Gli alberi, tutti identici nella loro agghiacciante opulenza, sono disposti in una sinistra simmetria tra il colonnato marmoreo e le vetrine delle boutiques. Cresce l’inquietudine. Davanti ai nostri occhi, nel centro del centro di questa sorta di chiostro, la fontana è diventata un altare in attesa del sacrificio e del sangue. Ripariamo all’esterno dove, istintivamente, proviamo a difenderci nell’unico modo che conosciamo: prendiamo i nostri taccuini, afferriamo la penna con le dita rigide e cerchiamo apparizioni.
L’attesa dura poco. Tempo di sedersi ed ecco un Uomo Senza Macchia, vestito completamente di bianco. Un imbianchino in pausa pranzo? Un arcangelo che con questo freddo preferisce viaggiare in tram? L’assoluto candore dei suoi abiti è una risposta alla monotonia cromatica, agli sguardi smorzati, all’austera cortesia dei passanti. Poco dopo, nel gelo della piazza, ad attirare la nostra attenzione sono i capelli grigi dolcemente ondulati di un’anziana ed elegante signora, che si avvicina leggiadra alla fontanella. I pochi gesti che seguono sono tra i più antichi nella storia dell’umanità: una donna si avvicina a una fonte, si china, accosta le labbra all’acqua, beve. A confermare questo sussulto di vitalità, da un tram sbarca una scolaresca. Un nugolo di bambini circonda la nostra panchina. Come sempre, sono fra i pochi avventori che sostengono il nostro sguardo senza imbarazzo, osservano i taccuini, si siedono accanto a noi spontaneamente, evitando la più svizzera e improbabile delle domande: isch da no frei, è ancora libero qui? Presto si accendono risate, parole squillanti e ancora, all’improvviso, una canzone.

Forse pungolati dalla maestra, fatto sta che i bambini cantano. Intorno continuano a muoversi le signore impellicciate, gli uomini d’affari, i vecchi dallo sguardo perduto. Qualcuno accenna un mezzo sorriso, la maggior parte lancia un’occhiata rapida e tira diritto, verso il prossimo appuntamento.
Dopo tanti mesi, oggi troviamo la parola per definire questo luogo. Non è una parola nuova, l’abbiamo già menzionata più volte nelle nostre conversazioni e diversi suoi sinonimi hanno già trovato spazio nei nostri testi. Eppure solo oggi la sentiamo emergere definitiva: Paradeplatz è e rimane uno svincolo. Un posto da cui si deve transitare per raggiungere una destinazione. Non sarà mai una di quelle piazze dove la gente sosta, perde (cioè guadagna) tempo, avvia conversazioni. Di qui si continua a passare in fretta, con il pensiero rivolto altrove. È proprio questo, paradossalmente, che rende possibile una mescolanza sociale vertiginosa, difficile da ritrovare in altri luoghi di assembramento. Esistono piazze frequentate dai giovani, altre dai pensionati, alcune predilette dai turisti, altre dai lavoratori. Qui invece gli estremi si sfiorano con naturalezza. Da una limousine tirata a lucido scende un individuo sicuro di sé, dallo sguardo sfacciatamente determinato. Mastica una gomma sbattendo la bocca, con un gesto che mette in evidenza i muscoli della mascella. A pochi metri da lui c’è uno sfaccendato con un abito troppo leggero: finisce di fumare, getta il mozzicone per terra e si avvia come uno che non sa dove andare. Nella mano tiene un enorme pacco di patatine chips. Arriva una guida turistica con il suo gruppo di seguaci. Mentre snocciola dettagli sulla piazza, si affretta a precisare: hier ist das Geld, è qui che stanno i soldi. Intanto un mendicante gira intorno alla pensilina, augurando buon Natale e chiedendo spiccioli per un caffè.

Certo, avere attraversato questa piazza lungo il naturale e ciclico incedere delle stagioni ci rende sensibili alle impressioni nostalgiche. Sicuramente anche qui, prima della colata d’asfalto, «una volta c’era un prato». Come non tornare con la memoria ai piccoli segnali di vita vissuta, che abbiamo tentato di raccontare ogni mese per iscritto?
I dodici testi riflettono dodici frammenti di tempo strappati alla nostra quotidianità. Abbiamo cancellato appuntamenti e rinviato faccende da sbrigare. Ci siamo fermati. Ci siamo seduti ogni mese per un paio d’ore in mezzo al viavai… Non solo quello dei passanti, ma anche quello dei nostri pensieri, delle preoccupazioni, delle malinconie. Ci sono stati mesi in cui eravamo stanchi morti, altri in cui uno di noi era triste, altri ancora in cui il gesto assurdo di venire a Paradeplatz sembrava dare un senso a tutto il resto. Eravamo qui un giorno umido di gennaio, abbiamo visto i primi cenni della primavera, l’afa dei mesi estivi, abbiamo superato l’autunno per approdare a questo giorno di metà dicembre.
Come non cedere al sentimentalismo? Un modo ci sarebbe: nominare tutte le cose di cui non abbiamo parlato in questi dodici mesi. Per esempio la statua di Alfred Escher, all’uscita della stazione di Zurigo: «seguite il mio sguardo e la troverete, la vostra piazza», ci ha detto la prima volta. Ma ancora la bottega di tabacco sul lato sud di Paradeplatz, l’ufficio dei trasporti pubblici, il negozio della Lindt & Sprüngli (dove stavolta ci siamo bevuti un caffè liscio). E proprio di fronte alle vetrine colme di graziose scatole di cioccolatini (a prezzi meno graziosi), la scultura di Silvio Mattioli che esplode e si sfilaccia a mezz’aria, trattenuta solo da una goccia d’acqua che scende implacabile da una sporgenza, a formare una minuscola pozzanghera.

Poi le telefonate, le frasi colte al volo e smarrite, i personaggi passati in un lampo, i capolinea dei tram che non abbiamo mai raggiunto. Vorremmo pronunciare una parola ufficiale di commiato, compiere un memorabile gesto di addio, ma siamo pervasi da una strana sensazione d’incompiutezza. Allora, come abbiamo fatto mese dopo mese, leggiamo una poesia.

Oh rompere gli indugi
Partire partire
Io non sono fra coloro che restano
La casa il giardino tanto amati
Non sono mai dietro ma davanti
Nella splendida bruma
Sconosciuta

Questi pochi versi di Anne Perrier sono un segnale. Ripensando ai tram che non abbiamo preso e ai luoghi che non abbiamo raggiunto, un toponimo si stacca dagli altri e si accende di luce propria: Frankental. Non è un capolinea come gli altri; è quello che per primo, in gennaio, ci ha suggerito una mai sopita volontà di fuga. L’attrazione dell’ignoto. Frankental è la nostra promessa, il nostro capolinea. Da un anno ci sta chiamando, ed è per lui che ci rimane una sola cosa da fare: andarcene. Perché Paradeplatz è e rimane uno svincolo. Non siamo noi a fare eccezione: ci siamo fermati dodici volte, è vero, ma solo per ripartire. Quando il tram numero 13 si ferma incrociamo gli sguardi, infiliamo i taccuini negli zaini e siamo i primi a salire. Dietro, vicino alla fontanella, la Heilsarmee – Suppe für alle! recita un volantino – si sta preparando per un concertino natalizio, trombe e tromboni escono dalle loro custodie, ma non sentiamo nulla, le porte si stanno chiudendo, ora sono chiuse, il tram si muove, prende velocità… Anche il concertino è da rubricare nelle cose di cui non abbiamo parlato.
Chi siamo noi? Due persone che si danno appuntamento ogni mese in una piazza lontano da casa. Ma non abbiamo niente di meglio da fare? A cosa serve correre sui treni per raggiungere un luogo dove poi non facciamo niente? Chi continua a nutrire queste più che pertinenti perplessità, avrà ora nuovi materiali di (psic)analisi: se fino a oggi i nostri incontri sono apparsi assurdi, cosa dire di questo ultimo viaggio? Due persone adulte salgono sul tram numero 13 diretto a Frankental con l’unico scopo di andare a Frankental. Nient’altro che il desiderio di essere lì. Non abbiamo appuntamenti, non abbiamo impegni, non abbiamo motivi validi e spendibili nella vita di tutti i giorni. Vogliamo solo partire, guardare davanti a noi nella splendida bruma /sconosciuta.
Sotto i nostri piedi sentiamo i binari, ogni movimento ha il suo rumore e il suo segreto. Dal finestrino scorgiamo muri con graffiti, cavalcavia, strade vuote e poi sempre più verde: siepi, alberi, pezzi di prato. Attraversiamo quartieri di villette discrete, dove Zurigo si traveste da villaggio. Superiamo supermercati e palazzi. Alla fine, giungiamo a destinazione. Il tram si ferma. Da dietro le porte ancora chiuse scorgiamo una vigna, un fumo che sale in lontananza. La stazione del tram è un edificio rotondo, un disco volante atterrato per sbaglio nel cuore della Svizzera. Siamo arrivati. Siamo qui. Siamo a Frankental.

Eccolo il nostro capolinea. Basta un occhiata e cominciamo a capire. Sorridiamo con una leggerezza diversa, una spontaneità che nel frattempo avevamo dimenticato. Non c’è spazio per i dubbi, questa volta.
Frankental è la fine e l’inizio.

[YB+AF]

PS: La poesia della scrittrice losannese Anne Perrier (1922-2017) è tratta dalla raccolta La voie nomade (1982-86), in La voie nomade et autres poèmes. Œuvres complètes 1952-2007, L’Éscampette Éditions 2008. La traduzione è di Andrea.PPS: Lo spirito natalizio di Paradeplatz ci ha chiesto di trasmettere a tutti i lettori – chi ci ha accompagnato negli ultimi mesi e chi invece ha appena scoperto l’esistenza di questo blog, magari cominciando proprio da questo PS – un augurio di buon Natale. È la prima volta che ci viene chiesto di fare da intermediari, ma come rifiutare?

PPPPS: Per chi volesse aiutare l’immaginazione con i suoni, ecco ciò che si sentiva nei dintorni della guida turistica e dei suoi seguaci.

 

PPPPS: Questa è l’ultima puntata della serie. Se cercate le altre, eccole qui. Siamo stati a Paradeplatz in gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugnoluglioagostosettembreottobre e novembre.

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La Mano Rossa

A Natale ho ricevuto un piccolo rastrello di colore rosso. O forse arancione. In realtà, più che un rastrello, si tratta di un sarchio o di una zappetta. Ma il modo giusto per descriverlo è riconoscere, dietro le dita di ferro, il modello originario della mano umana. Insieme al dono c’era un biglietto con la foto di alcuni profughi: una madre, due bambini, un uomo con la barba. In alto, la parola Betlemme scritta in arabo e in ebraico. Sotto, in grassetto: Still crossing. Più in basso: Everything will be ok, Andrà tutto bene, Tout ira bien, Todo irá bien. Il biglietto non aiuta a capire il rastrello, se non forse come un invito a dissodare la terra, affinché possa attecchire la pace.
Per me la Mano Rossa è simbolo di avventura: ricordo una banda di spietati assassini, nei fumetti di Tex Willer. È anche uno scettro, un bastone magico, un’antenna che capta emozioni. Soprattutto è uno mezzo per favorire la scrittura, sarchiando la terra allo scopo di consentire la circolazione dell’aria e della luce.
Ho tenuto la mano rossa sulla scrivania e, giorno dopo giorno, ho scritto un piccolo diario. Lo potete leggere qui: Diario della Mano Rossa (sono poche pagine). Il mio augurio è che ognuno di noi sappia compiere il gesto primordiale di spezzare la crosta del terreno. Bisogna smuovere le zolle e rompere la durezza dei pregiudizi, delle identità acquisite, perché germoglino incontri, novità, storie inaspettate.
In questo senso, vorrei proporvi di ascoltare Fleurette africaine, un brano inciso il 17 settembre 1962 da Duke Ellington (piano), Charles Mingus (contrabbasso) e Max Roach (batteria). È un incontro inedito (e unico) fra musicisti di generazioni diverse: il grande classico Ellington, nato nel 1899, indiscusso maestro dello swing, l’irregolare Mingus, nato nel 1922 (e già cacciato nel ’53 dall’orchestra di Ellington per avere inseguito il trombonista Juan Tizol con un coltello sul palcoscenico), insieme all’ombroso Max Roach, nato nel 1944 (e passato anche lui dall’orchestra di Ellington nel ’41 per una sostituzione). A quell’epoca Mingus stava lavorando ai suoi più grandi album (Oh Yeah nel ’61, The Black Saint and the Inner Lady nel ’63), mentre Roach aveva pubblicato nel ’60 We Insist! – Freedom Now Suite, una pietra miliare nella protesta contro la segregazione razziale. Tre musicisti, tre percorsi, tre linguaggi… e un brano memorabile.

Fra i musicisti c’è ascolto, c’è grande rispetto, c’è la voglia di mettersi al servizio della musica, ignorando le etichette. Mingus gioca sul vibrato, mentre Roach batte solo sui tom, contribuendo a creare un’atmosfera ipnotica. Al piano Ellington disegna il ritratto di un piccolo fiore che spunta nel folto della giungla, lontano dagli sguardi. La melodia delicata, gli accordi talvolta dissonanti, le contromelodie di Mingus, tutto contribuisce a dispiegare una grazia minuta, apparentemente fragile, ma inestirpabile nella sua gratuità. Anche se non lo vede nessuno, anche se a molti può sembrare inutile, il piccolo fiore – come disse Duke Ellington – cresce ogni giorno più bello.

PS: Il brano
Fleurette africaine, composto dallo stesso Ellington, si trova dall’album Money Jungle (Blue Note 1962). La frase di Ellington proviene dalla sua autobiografia Music is my mistress (1973, tradotta in italiano da Franco Fayenz e Francesco Pacifico nel 2007 per Minimum Fax con il titolo La musica è la mia signora).

PPS: Grazie a Caterina per l’escardilho e per il biglietto.

PPPS: Buon 2018!

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