Quando ero analfabeta

Guardate questo video: contiene sguardi precisi e sognanti, un bosco fitto di pensieri misteriosi, un uomo che fotografa una volpe, un lago, una bambina, una donna, un’ombra e alcuni animali immaginari.

Si chiamano “booktrailer”: sono dei video di un minuto o giù di lì che presentano l’atmosfera di un libro. Quello che avete appena visto è stato realizzato e sonorizzato da Alessandro Tomarchio e pubblicato sul canale della rivista “Il Libraio”.
L’ho guardato con meraviglia, perché questo video compie una piccola divagazione meditativa sul mio romanzo Le strade oscure (Guanda). Questo mi ha portato a riflettere sulla genesi del romanzo e, in generale, sulla mia scrittura. Sono temi che affronto anche durante le varie presentazioni del romanzo. (Qui trovate una lista più o meno aggiornata: Presentazioni Oscure.)

Quando cominciai a scrivere ero ancora analfabeta.
A quei tempi la scrittura era ascolto, era il gesto di custodire le parole: mi nutrivo delle fiabe e delle storie che mi raccontavano i miei genitori, cominciavo a immaginare cose che non esistevano e che tuttavia, paradosso dei paradossi, esistevano meglio di tante altre che potevo toccare con mano. Un po’ più tardi iniziai a evocare mondi fittizi attraverso la narrazione a voce alta. Ancora non sapevo scrivere, perciò il rapporto fra la parola, la memoria e la voce era misterioso, forse simile a quello che si ritrova nelle culture che hanno una letteratura trasmessa oralmente.
Per farla breve, in seguito cominciai a scrivere a mano, poi m’impadronii di una vecchia macchina da scrivere che girava per casa, poi arrivarono i primi computer – ma non abbandonai la scrittura a mano, che per me è indispensabile ancora oggi, così come la lettura a voce alta. E scrissi racconti e poesie e in seguito romanzi e altre tipologie di testi. Nel 2020 sentivo il bisogno di un cambiamento: avviai dunque un progetto lungo, che implicava molto studio da parte mia, un’opera sospesa fra narrativa, saggistica, traduzione… ma non ne voglio parlare: ci sto ancora lavorando. Nello stesso tempo affrontai ancora una volta il personaggio di Elia Contini, che avevo inventato nel 2002 e che nel 2005 era divenuto il protagonista del mio primo romanzo, al quale ne seguirono altri sgranati lungo gli anni.
Ero un po’ esitante. Come lettore non sempre amo la serialità. Ci sono saghe alle quali mi sono appassionato, fin da bambino, ma di recente apprezzo anche i personaggi che vivono in un solo romanzo. In ogni caso decisi di scrivere qualcosa di nuovo. Prima di tutto, tentai un approccio diverso a Contini, in maniera che risultasse più vero grazie a una maggiore introspezione, a una discesa nell’anima di quest’uomo che è investigatore per caso e quasi controvoglia. Inoltre, come faccio sempre, affiancai a Contini un altro personaggio forte, in maniera che diventasse il vero protagonista. In terzo luogo, decisi di sperimentare un’unione fra due generi letterari che conosco bene, sia come lettore, sia come scrittore: il romanzo noir e la prosa breve (o prosa d’arte).
Così è nato Le strade oscure. La vicenda di Ernesto Magni e di sua figlia Vera accompagna la trama poliziesca, mentre la presenza di un bestiario di animali immaginari interseca la narrazione. Le prose brevi hanno un significato autonomo, non hanno bisogno del romanzo; del resto, alcune le avevo scritte anni prima. Esse tuttavia, nel contesto di una narrazione più ampia, finiscono per dire qualcosa d’inaspettato (almeno per me) sui personaggi e sui loro stati d’animo.

Come tutti i romanzi noir, Le strade oscure è provvisto di una trama con momenti di sospensione narrativa e colpi di scena. Nello stesso tempo c’è una riflessione sociale sulla Svizzera italiana e le sue contraddizioni, sulla malavita, sui lavoratori frontalieri e sul loro modo di vivere il passaggio della frontiera. Su questo fondale si sviluppano le vicende umane di Ernesto Magni, di sua figlia, di Elia Contini e di Francesca Besson. In generale, il tema di fondo che m’interrogava durante la scrittura – e che m’interroga da sempre – è il confine fra il male e la grazia. Da una parte c’è il male inevitabile, che abbiamo tutti dentro di noi, il male gratuito. Dall’altra la “grazia”, cioè il mirabile equilibrio inaspettato, la comparsa del bene altrettanto gratuito, spesso nelle situazioni che sembrano senza speranza. Credo che tutti noi abbiamo sperimentato questa alternanza.

Contini stappò una birra e la bevve in piedi, appoggiato alla balaustra del portico. Il profilo degli alberi si distingueva ancora, ma i colori erano già svaniti. Con le sue abitudini, con i suoi piccoli riti Contini aveva sempre cercato un modo per non farsi soffocare dalla quotidianità. Vivere il tempo in piccoli frammenti faceva sì che ogni tanto arrivasse un’ora propizia, un’armonia fra i pensieri, le cose, le azioni. Ora la quotidianità si era schiantata: ogni gesto richiedeva uno sforzo.

La quotidianità è sempre un rischio. E la calma è sempre apparente. Questa tensione è per me una sfida continua: anche la scrittura è un modo per vedere più chiaro, senz’altro una via per avvicinarmi alla verità. Uno dei maggiori pericoli per me è la solitudine: può essere benefica (come quella del vecchio Giona, l’eremita che abita nei boschi sopra Corvesco, nel nord del Canton Ticino), ma puo essere anche dolorosa.

Essere soli nel ventunesimo secolo forse è ancora più difficile che in passato. Da ogni parte si è assediati dal mondo, da gente che vuole dire la sua, lamentarsi di questo o di quello. Ma tu sei isolata, murata fra le chiacchiere e le fotografie. Quanta fatica costa essere davvero pronta: bisogna creare un silenzio che permetta di percepire le parole autentiche e poi abbassare la guardia, diventare accogliente. Fidarsi delle cose buone nel momento in cui succedono.

Non si cancella la solitudine. Si può sostituirla con il caos, con il frastuono, ma non è una soluzione. Forse l’unico modo per medicare la solitudine è quello di renderla ospitale. In questo senso la scrittura è un atto di condivisione, poiché traccia dei legami fra chi scrive e gli altri. La ricerca della verità non è pomposa o retorica, ma è un lavoro di approfondimento del mistero: di ciò che scrivo, normalmente, mi restano domande. Insieme alla speranza che, trovando il passo giusto, possa finalmente riuscire a esprimermi meglio, con maggior precisione, arrivando a rivestire di parole ciò che ancora mi sfugge.

Un passo alla volta, un passo alla volta. All’inizio sembra un ritmo troppo blando, ma a un certo punto solo la fedeltà a quella pazienza ti permette di andare avanti.

PS: Le citazioni in grassetto provengono da Le strade oscure.

PS: La rivista “Il Libraio”, oltre al video sul romanzo, ha pubblicato anche un mio breve pezzo in cui passo in rassegna una trentina di animali immaginari. Lo trovate qui.

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Il mistero della casa

LIBRI IMPOSSIBILI (FEBBRAIO)
#libriimpossibili2021 è un progetto ideato e scritto da Yari Bernasconi e Andrea Fazioli

Lucio Costa, Casa mia, Ed. Spirito Giallo, 2020, 182 pagine

Quarta di copertina
«Un terribile omicidio viene commesso in una villa immersa nella campagna piemontese. La polizia è alle prese con un torbido intrigo di famiglia. Sembrano le premesse per una classica vicenda poliziesca, ma questa volta a raccontare la storia è un personaggio fuori dall’ordinario: la casa in cui è avvenuto il delitto. L’insolito punto di vista consente all’autore di sviluppare una trama ricca di colpi di scena e nello stesso tempo di scavare nella psicologia dei personaggi. Un lavoro di assoluta originalità nel panorama del nuovo giallo italiano e non solo».

Lucio Costa è nato a Sorengo nel 1994 ed è cresciuto a Lugano. Dopo il liceo, si è trasferito in Piemonte per gli studi in letteratura comparata e comunicazione. Attualmente vive a Torino, dove lavora come copywrighter. Casa mia, il suo esordio narrativo uscito nel 2020 per Spirito Giallo, è stato presentato da Luca Crovi nel quadro del Cureggio Noir Festival. Ne hanno parlato Nanni Canconi sul quotidiano “La Stampa” e Gianni Biondillo sul blog “Nazione Indiana”. Il romanzo sarà pubblicato in Francia dalla prestigiosa casa editrice Flammarion.

Tre domande all’autore

YB+AF: Lucio Costa, il primo aspetto che colpisce del suo romanzo è naturalmente la prospettiva narrativa, affidata dall’inizio alla fine agli “occhi” della casa in cui avviene l’omicidio dell’avvocato Pirello. Un approccio originale che crea anche una particolare suspense: alcuni avvenimenti restano sconosciuti al lettore per il semplice fatto che avvengono fuori casa, mentre altri dettagli minimi e quotidiani (e forse secondari ai fini della trama) vengono raccontati con grande dovizia. Come è giunto a questa scelta o “soluzione” narrativa?
LC: Stavo lavorando al romanzo con un punto di vista più tradizionale, ma avevo l’impressione di scrivere l’ennesimo giallo con il solito poliziotto, la scientifica e via discorrendo. In quel periodo stavo leggendo Here, una graphic novel di Richard McGuire in cui l’autore compie un esperimento narratologico dove una sola stanza di una casa viene mostrata in diverse epoche temporali, delineando una storia che procede dalla preistoria(prima che la casa venisse costruita, ma lo “spazio” già c’era) fino al 2111. Mi sono detto: è come se fosse la stanza a raccontare la storia! Allora ho impostato il romanzo diversamente, seguendo il flusso di una voce che è nello stesso tempo tutti i personaggi e nessuno di loro. La casa è il destino: il luogo della disperazione ma anche la tensione verso un ritorno, verso la pace. Scrivendo avevo in mente pure il capolavoro di Perec, La Vie, mode d’emploi, in cui vene rivelata per segmenti la vita di tutti gli abitanti di un palazzo. Nel mio romanzo la casa è la narratrice e, in un certo senso, anche la “persona” che compie l’indagine. In questo modo, seguendo l’ispirazione di Perec, ho cercato di raccontare non solo i fatti brutali del poliziesco, ma anche il flusso della quotidianità, quella che Perec chiamerebbe l’infra-ordinaire.
YB+AF: Nel romanzo ci sono effettivamente diversi riferimenti alla letteratura francese. La proprietaria della villa, per esempio, è una seguace della patafisica, la scienza dell’immaginario inventata da Alfred Jarry; le sentenze dell’anziana signora, sempre sul filo dell’assurdo, fanno da controcanto cinico alla narrazione, con molta ironia. Poi c’è Marcel Proust, con l’epigrafe tratta proprio dalla Ricerca del tempo perduto: «L’essere che sarò dopo la morte non ha maggior ragione di ricordarsi dell’uomo che io sono dalla mia nascita in poi di quanta ne abbia quest’ultimo di ricordarsi di ciò che sono stato prima di nascere» (dalla trad. di Maria Teresa Nessi Somaini)…
LC: La cultura francese ha cominciato ad affascinarmi all’università. Ho scoperto autrici e autori con cui ancora oggi trascorro molto del mio tempo. Della citazione in esergo non posso dire molto, visto che gioca un ruolo chiave nell’intera vicenda. Ma posso dire che a lungo ho riflettuto se aggiungere una seconda citazione di Perec, una frase che avevo stampato e tenuto accanto al computer durante i mesi di stesura del romanzo: «Vivere è passare da uno spazio all’altro, cercando il più possibile di non farsi troppo male». Anche in questo caso, chi leggerà il libro capirà. Quanto alla patafisica, be’, è una delle cose più spassose che io conosca: non poteva mancare nel mio primo libro. È anche un modo per fare un passo indietro, non dimenticare che basta poco per prendersi troppo sul serio e credere di avere la verità in tasca. Errore imperdonabile, credo, per chi scrive.
YB+AF: Lei è nato e cresciuto nel Canton Ticino. Che rapporto sente di avere, oggi, con la Svizzera italiana? Cosa rappresenta questo territorio, per lei?
LC: Mia madre è svizzera (di Lucerna) e Lugano è la città in cui ho scoperto il mondo. Dopo il liceo mi sono trasferito a Torino. Da qualche anno anche i miei genitori abitano in Piemonte, ma i miei legami con la Svizzera italiana sono rimasti forti. In Ticino ho molti amici e infatti mi capita di tornare spesso. Inoltre il mio “imprinting” è segnato anche dagli scrittori ticinesi e dagli eventi culturali locali. Ricordo per esempio che in prima o seconda liceo, al festival “Tutti i colori del giallo”, conobbi le autrici Margherita Oggero, che è di Torino, ed Elisabetta Bucciarelli, che ho poi rivisto spesso in varie rassegne. Forse proprio in quell’occasione decisi che prima o poi avrei provato anch’io a scrivere un romanzo poliziesco.

Un estratto dal libro
(clicca qui per leggerlo in pdf)

[…]
– Non credo che sia in ufficio.
– Ma allora dov’è?
– Non lo so.
– Andiamo a vedere.
Il commissario Bardi e il suo subalterno uscirono dalla porta sul retro e ripresero a parlare, gesticolando, troppo lontani perché potessi sentirli o vederli.
E Anita? Rientrai dentro me stessa: la donna sedeva sulla poltrona del salotto, gli occhi cerchiati di stanchezza. Nella sua grigia disperazione insisteva a mostrarsi determinata, quasi gelida. “Sei lontana”, le aveva detto Marco prima di andare dal notaio. Si erano abbracciati senza enfasi. Io mi ero concentrata, avevo chiuso mentalmente tutte le finestre. Pensavo di cogliere almeno un segnale, un filo di complicità. Nulla: sembravano a un punto di non ritorno.
Ora Anita aveva rilassato le spalle e curvato leggermente la schiena. Lo sguardo però sempre immobile e teso. La polvere girava nel vuoto e pensai che per gli umani la morte arriva di colpo, come un pensiero involontario. Le maschere vengono a cadere. Le convenzioni e i sorrisi di facciata, così come le relazioni superflue, si accartocciano e prendono fuoco. Gli umani cambiano, muoiono, nascono, fanno tutto così in fretta. Non stanno mai fermi.
Anita si alzò. Sentii la carezza della luce obliqua che illuminava gran parte del salotto. Cominciava a essere tardi. La donna spostò i bicchieri e la brocca sul vassoio e portò tutto in cucina. Percepii il peso del suo passo, rigido come quello di un automa. Continuava a esibire indifferenza, anche ora che si muoveva sola nelle stanze silenziose. Passò due volte vicino allo stipite dove nemmeno tre giorni prima aveva trovato il cadavere dell’avvocato Pirello. Il “suo” avvocato, diceva Marco quando parlavano di lui.
Io mi rilassai. Feci un giro rapido dei locali, lasciandomi cullare dall’ultimo sole. Sentivo il calore sulle finestre e sulle tegole del tetto. Presto sarebbe tornata la gatta.
Poi suonarono alla porta.

[Dal capitolo III, pp. 56-57]

***

NB: Per questioni meramente giuridiche (legate ai diritti editoriali dell’opera), non siamo purtroppo autorizzati a pubblicare in questa sede la copertina del libro. Vi invitiamo a cercare il volume nelle librerie o nelle biblioteche.

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Panchinario 74-81

Ci sono lettrici e lettori che mi scrivono di panchine. Qualcuno le ama, anzi, qualcuno m’invia le sue preferite. Per contro, c’è chi pensa che scrivere di panchine sia uno spreco, poiché il mondo sta andando a rotoli e abbiamo emergenze più degne dell’attenzione di uno scrittore. A questi ultimi rispondo che la letteratura non è programmatica. Credo che in queste piccole divagazioni del Panchinario appaia qualche frammento di verità, e questo mi basta: se la scrittura s’impegna nel confronto con una verità, allora non mi pare uno spreco. Ma al di là delle spiegazioni, dedicare tempo al territorio, allo spazio, alle cose minute, è un modo di affinare la propria percezione e la propria sensibilità, un modo per amare il mondo; requisito questo necessario se si vuole salvarlo.

Fra le tante panchine che sono arrivate dal mondo, oggi do spazio a quella di Emily, che scrive dalla contea di Marion nell’Oregon (USA). La sua è una panchina particolare, perché è invisibile: Emily ha filmato quanto vedeva da una panchina scavata nella roccia; ma, a causa dello spazio limitato, non è riuscita a fotografare la panchina stessa. Il suo video ritrae la cascata di South Falls, nel Silver Falls State Park (vedi anche la foto a fine articolo). È spettacolare, e per me è pure inquietante. Da bambino infatti ero intimorito dalle cascate. Il fragore, la mole, il balzo improvviso che spezza il fluire del fiume: le cascate mi toglievano il fiato, e per non sentirle mi mettevo le mani sulle orecchie. Oggi, tanti anni dopo, ho imparato ad apprezzare il canto dell’acqua che precipita a valle… ma resta sempre un filo d’inquietudine.


Con la panchina numero 81, che trovate in fondo a questo articolo, porgo a tutte le lettrici e a tutti i lettori il mio augurio di Buon Natale!

74) MASSAGNO, in via Giuseppe Motta
Coordinate: 2’716’566.5; 1’096’790.5
Comodità: 1 stella su 5
Vista: 1 stella su 5
Ideale per… girare un film
INTERNO CASA ANDREA FAZIOLI GIORNO: Andrea cammina annoiato. ANDREA (VOCE OFF): Non so proprio cosa fare oggi. Piove, fa freddo. (Illuminandosi) Ehi, e se andassi al cinema? ESTERNO STRADA GIORNO: È una giornata grigia. Andrea cammina sotto un leggero velo di pioggia. ESTERNO CINEMA GIORNO: Andrea si dirige verso una panchina di cemento, di fronte all’ingresso del Cinema Lux di Massagno. CUT TO: Andrea si siede sulla panchina. Ha smesso di piovere. Andrea fissa l’ingresso del cinema. ANDREA (VOCE OFF): Andare al cinema per guardare il cinema. Qualcuno entra, qualcuno esce. Quelli che escono sono ancora impregnati del film: nelle loro espressioni, nei loro gesti. Io, invece, non so ancora che cosa mi aspetta. Deserti? Metropoli? Sparatorie, forse, o magari un amore disperato… Sono pronto a tutto. CUT TO: Andrea si alza e si avvia verso il cinema. Musica. Scorrono i titoli di coda.
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Colonna sonora (30 secondi):

 

 75) PLOUDALMÉZEAU, in rue du Port
Coordinate: 48°33’26.7″N; 4°42’15.1″W
Comodità: 3 stelle su 5
Vista: 5 stelle su 5
Ideale per… incontrare l’Ankou.
Guardo il flusso di barche e di nuvole, finché a poco a poco scende il buio e sale la marea. All’improvviso sento un cigolio, come se qualcuno spingesse un carretto. «Piou zo azé?»chiedo in bretone. “Chi è là?” Compare un uomo alto, magro, dai capelli bianchi. La faccia è nascosta da un cappello di feltro. «Piou zo azé?», ripeto una seconda e una terza volta. L’uomo con voce cavernosa risponde: «Ma mestr ha mestr an holl, pa teut c’hoant da glewed». “Il mio padrone è il padrone di tutti, visto che desideri saperlo.” Poi mi guarda e vedo le orbite vuote, la mascella penzolante. Lo riconosco: è l’Ankou, l’oberour ar maro, l’operaio della morte. Prima che possa acciuffarmi fuggo dove ci sono luce, calore, esseri umani e sidro di mele.
(L’Ankou proviene da A. Le Braz, La Légende de la Mort chez les Bretons armoricains, 1893; in italiano tradotto nel 2003 da P. Fornasari per Sellerio con il titolo La leggenda della morte).
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Colonna sonora (30 secondi):


76) BELLINZONA, in via Francesco Chiesa
Coordinate: 2’716’566.5; 1’096’790.5
Comodità: 1 stella su 5
Vista: 1 stella su 5
Ideale per… aspettare il circo.
Questa panchina non ha niente di speciale. È poco lontana dal liceo ed è rivolta verso un parcheggio. Se tornaste qui per 362 giorni all’anno vedreste solo studenti, insegnanti, cemento e automobili. Ma se avrete pazienza, un giorno di metà novembre sorgerà in poche ore il tendone del Circo Knie. Da quando studiavo (o fingevo di farlo) proprio in questo liceo, ho l’abitudine nei giorni del circo di aggirarmi intorno al caravanserraglio. Oltre allo spettacolo – non me ne perdo uno – mi affascina il paradosso insito in ogni circo. Da una parte un mondo fatto di scintille, fanfare, dove tutto è straordinario, dalla grazia dei funamboli alla maestà dei cavalli. Dall’altra parte, dietro le quinte, la quotidianità: il clown bianco che mangia un hamburger, un acrobata che fuma una sigaretta accanto alla staccionata, una trapezista che cammina verso il suo carrozzone, lentamente, cercando di scansare le pozzanghere.
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Colonna sonora (30 secondi):


 77) CARONA, all’angolo tra via Principale e via Luigia
Coordinate: 2’716’143.0; 1’090’733.1
Comodità: 3 stelle su 5
Vista: 3 stelle su 5
Ideale per… sconfiggere il drago
È quasi l’imbrunire. Si accende un lampione, dai camini arriva odore di fumo. Sotto di me ci sono gli orti; più in basso Melide, il lago, il ponte-diga intasato dal traffico. Qui tutto è silenzioso, tranne un canto di uccelli e, ogni tanto, il passo di qualcuno che torna a casa dal lavoro. Ripenso all’affresco sulla facciata della chiesa, appena sopra la panchina: san Giorgio, in groppa a un cavallo impennato, scaglia la sua lancia diritta nelle fauci del drago. Mentre scende la sera mi accorgo che lui non è lontano. Nonostante la pace, la prossimità delle case, la bellezza di queste colline. Lui è sempre vicino: il drago che mi tiene sveglio di notte, la malinconia che mi aggredisce a tradimento, lo sconforto, la solitudine che mi stringe alla gola. Comincia a fare freddo. Alzo il bavero della giacca. Spero che lo scudo regga il colpo, e che la forza mi basti ad alzare la lancia.
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Colonna sonora (30 secondi):


78) NESSUN LUOGO, da nessuna parte
Coordinate:?°?’?”N; ?°?’?”E; ?°?’?”S; ?°?’?”W
Comodità:5 stelle su 5
Vista: 5 stelle su 5
Ideale per… viaggiare.
Non so come sia finito qui. Nella nebbia intravedo la forma di una panchina. Mi siedo. Sento un rumore di ferraglia, un passo pesante. Dal nulla sorge un uomo in armatura e si mette di fianco a me. «Chi sei?», gli chiedo. Lui mi guarda. «Non mi riconosci? Sono l’Eroe… il Buono, quello che parte, lotta, supera la prova». Gli domando se sappia dove ci troviamo. «Siamo all’inizio – mi risponde – sulla Panchina Dove Nascono Le Storie». Poi dice che s’è fatto tardi e si allontana borbottando qualcosa su un maledetto ostacolo da superare. In quel momento dalla nebbia sbuca un orco bitorzoluto, dall’alito fetido. «Buongiorno – lo saluto. – Scommetto che tu sei l’Antagonista.» L’orco si siede, emette un grugnito. «Qualcosa in contrario?» «Io? No, figurati.» L’orco sembra stanco. Mi spiega che ha avuto una giornataccia. «Certa gente pensa che sia facile essere il cattivo… fatelo voi, dico io, fatelo voi, per quella miseria che ci pagano!»
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Colonna sonora (30 secondi):


79) LUGANO, in via Foce
Coordinate: 2’717’975.5; 1’095’805.0
Comodità: 3 stelle su 5
Vista: 2 stelle su 5
Ideale per… meditare sulla solitudine.
A pochi passi brillano le luci di un ristorante, ma sembrano lontane migliaia di chilometri. Dietro c’è un parcheggio, mentre intorno le strade sono deserte, sferzate da un acquazzone. Questa panchina non mi offre nemmeno la possibilità di sperare che per caso qualcuno passi di qui e, perché no, si sieda accanto a me. È di forma classica, verniciata con un bel rosso-panchina… ma è una monopanca, praticamente una seggiola fissata sull’asfalto. C’è posto solo per me. A proposito, perché mi sono fermato? Perché rimango seduto sotto i rami di un salice, a scrutare nel buio? Piove. È sabato sera. Penso che fra qualche minuto mi alzerò, camminerò, andrò a cercare un luogo caldo e illuminato. Ogni viso umano, ogni parola splenderà come se fosse nuova, come se fossi scampato a un naufragio. Forse le monopanche, come le isole deserte, servono proprio a questo: a ritrovare il gusto di stare in compagnia in un piovoso sabato sera d’inverno.
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Colonna sonora (30 secondi):


80) TORINO, nel giardino Lamarmora in via Stampatori
Coordinate: 45°04’15.5″N; 7°40’36.9″E
Comodità: 3 stelle su 5
Vista: 1 stella su 5
Ideale per… un picnic fra innamorati.
Magari, quando sentite la parola “picnic”, pensate a una radura fiorita, all’erba tenera, alla frescura degli alberi, a un ruscello gorgogliante… insomma, a quello che gli antichi chiamavano locus amœnus, un luogo d’incanto. Ma se vi capita di essere a Torino, fra lunghi viali, automobili, palazzi austeri? Non perdetevi d’animo, nessuno ha mai detto che le metropoli non possano essere romantiche. Questa panchina, per esempio, vi fornisce tutto ciò di cui avete bisogno: un paio di cuori intrecciati per l’atmosfera; un cesto della spazzatura per gettare eventuali resti di cibo; una superficie su cui scrivere i vostri nomi accompagnati da un roboante PER SEMPRE. Davanti avete una strada, alle spalle un piccolo parco. Basta poco perché Torino divenga «città della fantasticheria» e «città della passione, per la sua benevola propizietà agli ozi» (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 17 novembre 1935).
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Colonna sonora (30 secondi):


81) GIUBIASCO, in Piazza Grande
Coordinate: 2’721’446.7; 1’114’658.2
Comodità: 1 stella su 5
Vista: 3 stelle su 5
Ideale per… stare a testa in giù.
È l’una del pomeriggio e a Giubiasco tutto scorre. Passano le automobili in via Bellinzona, veleggiano banchi di nuvole nel cielo, fuggono i giorni dell’avvento che portano in fretta, sempre troppo in fretta, a un altro Natale. Io, invece, sto fermo. Così come le sculture disseminate sul prato. Vicino a me c’è una famiglia di pietra: due genitori e un bambino, tutti con lo sguardo rivolto all’albero di Natale. Davanti all’albero c’è un’altra piccola statua, un uomo che sta in equilibrio sulle mani. Di colpo, mi pare che tutto ruoti intorno a quell’ometto capovolto: la piazza, il traffico, le stagioni dell’anno. Forse questi giorni stanchi di fine dicembre possono diventare un punto di svolta. Al di là delle luminarie e dei panettoni, la festa può essere un’occasione per cambiare prospettiva, per guardare le cose vecchie in maniera nuova. Ho deciso: quest’anno a Natale proverò a mettermi a testa in giù, così, per vedere l’effetto che fa.
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Colonna sonora (30 secondi):

 

PS: Potete leggere qui le prime quattro panchine, qui le panchine da 5 a 10, qui da 11 a 17 e qui da 18 a 23, qui da 24 a 30, qui da 31 a 37, qui da 38 a 45, qui da 46 a 55, qui da 56 a 64 e qui da 65 a 73. In generale, nella categoria Panchinario (in alto a destra), si trovano tutte le panchine.

PPS: Il video della cascata è stato girato da Emily, la fotografia è presa da internet. Esprimo la mia gratitudine a chi mi aiuta, mi accompagna e mi fa scoprire nuove panchine. In particolare, grazie mille a Barbara (Ploudalmézeau) e a Giacomo (Lugano).


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L’epopea del pidocchio

Un piccolo pidocchio gridò a sua moglie dalla finestra: «Dammi i guanti e l’ascia, vado sulla montagna della nuca!». Ma la moglie rispose: «È meglio se rimani a casa, gli uomini ti mangeranno». «Se mi mangeranno uscirò dal sedere. Solo se mi schiacciano con una frana non mi vedrai più». Il piccolo pidocchio chiamava monti le unghie degli uomini, e quando veniva schiacciato fra le unghie era una frana ad ammazzarlo. Il piccolo pidocchio non tornò più a casa da sua moglie.
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Questo racconto fu narrato da un giovane eschimese di nome Netsit all’esploratore Knud Rasmussen, che tra il 1921 e il 1924 compì una lunga spedizione in slitta attraverso i ghiacci dell’Artico: 18mila chilometri dalla Groenlandia fino all’Alaska e poi fino alla Siberia. L’incontro con Netsit avvenne in Alaska e l’aspetto bizzarro della vicenda è che Rasmussen si ricordò di aver sentito raccontare la stessa storia in Groenlandia, in un luogo distante centinaia di miglia. Com’è possibile che due tribù diverse narrassero lo stesso mito? In realtà c’era stato qualche contatto fra le due popolazioni, ma erano passati quasi mille anni: pensate alla forza di resistenza di quel piccolo pidocchio, trasmesso di generazione in generazione…
IMG_2590Sono da un paio di giorni a San Bernardino, nelle montagne svizzere. L’idea era quella di approfittare del sole per passeggiare e per sciare. Invece il paese è stato invaso da una cappa di umidità: ogni cosa è sprofondata in una dimensione remota, non si capisce bene se spaziale o temporale. Le strade vuote, il fruscio sommesso del fiume, i boschi divenuti di colpo inquietanti, popolati come in una fiaba da presenze prodigiose fra gli sbuffi di nebbia. Basta addentrarsi fra gli alberi per qualche metro e subito il mondo scompare. In mezzo al silenzio, mi viene da chiedermi: sono nel 2016 o nel 1816? Oppure sono tornato ancora più indietro, quando di qui passavano gli antichi romani? E dove mi trovo, di preciso? La natura tutto sommato domestica di San Bernardino si trasforma, per gioco, in una wilderness simile a quella del Grande Nord. Sono proprio i territori visitati da Rasmussen.
FullSizeRender copia 4Nel suo Il grande viaggio in slitta (edizioni Quodlibet), l’esploratore si sofferma su parecchi dettagli interessanti: dalle canzoni che accompagnavano le feste notturne alla tecnica per costruire un igloo. La sua fortuna fu quella di poter conoscere il popolo inuit quando le vecchie tradizioni erano ancora vive. La sua abilità fu quella di saper parlare con le persone, come nel caso di Netsit. Il ragazzo era un cacciatore di appena vent’anni ma sapeva molte storie, perché era stato il figlio adottivo di un famoso sciamano.
L’epopea del pidocchio mi ha fatto riflettere su quanto le storie siano potenti, anche quelle che sembrano più banali. Le narrazioni sono capaci di resistere, di superare gli ostacoli del tempo e della distanza. Infatti il pidocchio inuit ora lo trovate anche qui, dall’altra parte del mondo, appostato dentro un blog nei territori sconfinati di internet… Se siamo esseri umani, diversi da ogni altro animale, è proprio per la nostra capacità di spiegare il mondo (e noi stessi) in forma narrativa. Il mito del pidocchio sembra privo di senso? Netsit rispose così a Rasmussen, che gli aveva mosso proprio questa obiezione: Noi non siamo come gli uomini bianchi, che esigono sempre una spiegazione. Non pretendiamo sempre che ci sia una morale nelle nostre storie, purché siano belle e divertenti. In realtà, il significato di una storia consiste nella storia stessa, che ha valore come esperienza. La narrazione è un’arte concreta, che evoca persone inesistenti parlandone come se fossero vere; e così facendo, in qualche modo, le rende misteriosamente vere.
FullSizeRender copia 2Rasmussen ha notato quanto le storie, per quel popolo che sopravvviveva in condizioni talvolta disumane, fossero preziose, indispensabili. Ma lo stesso vale per noi. Anche un’esperienza minuta, nel momento in cui diventa racconto, ci unisce agli altri esseri umani. Faccio un esempio. Rasmussen parla del fischio che fanno le slitte sulla neve, come una melodia nel deserto bianco. E proprio a San Bernardino una delle mie figlie, mentre la spingevo sulla slitta, mi ha detto: lo sai che questa slitta sta cantando una canzone? Ah, faccio io. Quale canzone? Non lo so, risponde lei, devo ancora ascoltarla bene. Ma penso che sia quella che cantiamo all’asilo, quella che parla di un albero che sta da solo in mezzo al prato.
Ci vuole poco perché il mondo si animi di presenze: alberi solitari, slitte che cantano, pidocchi che partono all’avventura. Ed è sbagliato ridere di queste cose. Uno sciamano, quando Rasmussen gli chiese la ragione di tutti i complicati tabù che regolavano la vita degli inuit, gli rispose che non c’erano spiegazioni. Ma lui, l’esploratore, sapeva forse la ragione del mondo? Perché gli uomini nascono, perché sorgono le bufere di neve? Rasmussen lo ascoltava stupito. E lo sciamano, impietoso: perché le persone devono essere malate e soffrire? Gli inuit erano un popolo primitivo, ma la loro paura non era stolta: anche noi viviamo tra fenomeni che non comprendiamo. Per fortuna, insieme ai fenomeni negativi, ci sono anche quelli che ci fanno venire voglia di vivere e di sorridere. Come la primavera dopo un lungo inverno, accolta da Rasmussen con sollievo e felicità.
FullSizeRenderLa giornata è meravigliosa. Nell’aria, con tutti i suoi brutali cambiamenti fra neve, tempesta e pioggia, oggi si respira solo la pace. Il lago si è sciolto nei pressi della foce del fiume, e fra le spesse lastre di ghiaccio invernale accavallate c’è ora un buco lucido coperto da un vapore velato. Sciami di uccelli acquatici hanno trovato qui il loro campo da gioco e schiamazzano e strepitano quando nuovi stormi si mescolano a loro. Nella regione intorno a noi sentiamo il canto della neve che si scioglie. La primavera conquista i territori desertici e presto la terra e i fiori spunteranno dalla neve.

PS: Alcuni passaggi di questo articolo, elaborati in maniera differente, si trovano anche sul mensile “Illustrazione ticinese”, nel numero di aprile.

 

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