Smile

Qualche giorno fa ho visto lo spettacolo del circo nazionale svizzero Knie. Fra i vari artisti, spiccava la presenza del clown italiano David Larible. È uno dei pagliacci più famosi e più bravi al mondo (avevo già avuto l’occasione di ammirarlo in passato); nella tournée con il Knie, oltre a riproporre un paio di numeri classici, ha voluto citare il suo stesso spettacolo teatrale. Larible infatti è uno dei pochi clown che, come Dimitri e come Grock, abbiano saputo portare anche a teatro la propria sapienza comica.
img_7981Nello spettacolo Il clown dei clown, che conta centinaia di repliche in tutto il mondo, Larible gioca con l’idea della trasformazione: all’inizio è un semplice inserviente, poi si trucca e si traveste direttamente sul palcoscenico finché, come per miracolo ma davanti agli occhi di tutti, appare il clown. Anche nell’arena di segatura, davanti al suo tavolino, Larible si è messo il fondotinta, si è munito di naso rosso e ha dato avvio all’incantesimo del circo.
img_7966La città era deserta, in una fredda sera di novembre. Si sentiva l’umidità nell’aria e una grande luna, che pareva di cartapesta, se ne stava appostata sopra le luci rosse e gialle del tendone. C’è sempre un po’ di tristezza, in quella musica di fanfara, in quelle facce dipinte, c’è un velo di malinconia nella grande fiera che si accampa sulla terra brulla, fra un palazzotto di cemento e un cantiere. Ricordo che da ragazzo andavo a spiare la costruzione – incredibilmente veloce ed efficiente – di quel mondo sfavillante, ordinato, perfetto nella sua armonia interna. È un mondo provvisorio, però, perché dopo un paio di giorni tutto scompare, e la città continua serena ad attraversare i giorni grigi di novembre, come se nulla fosse accaduto.
img_7975Non è accaduto nulla? I ricordi dello spettacolo sfumano, si alzano i baveri dei cappotti e l’eco delle risate viene coperta dai motori che si riavviano: ognuno ha fretta di tornare a casa. Ma il circo è qualcosa, è un fatto concreto che ha preso vita nel tempo. Non è la registrazione di uno spettacolo, non è l’interpretazione di un testo scritto o di uno spartito musicale; è un atto creativo che, in primo luogo, si può definire come un passaggio di stati d’animo. Così dice lo stesso Larible: Il clown è per me un giocoliere di emozioni che deve essere in grado di smuovere i sentimenti e di tirare fuori le pulsioni che tutti possediamo. Spesso mi chiedono quale messaggio io intenda mandare con le mie gag. La mia risposta a questa domanda è che io non intendo mandare messaggi (per quello esistono gli sms): ciò che faccio è entrare in pista e svuotarmi le tasche di quello che ho, sia essa tristezza, gioia, forza, malinconia. Il pubblico poi può servirsi liberamente e prendere ciò di cui ha più bisogno in quell’occasione. Può ridere, sorridere, commuoversi o cullarsi nella malinconia. Questo è l’unico modo con cui io riesco a concepire, e quindi a definire, il clown.
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Questa trasmissione avviene in tutte le arti. Quando scrivo, cerco di indagare la sostanza delle mie emozioni, dei miei stati d’animo. Se vado a fondo di ciò che sono, riesco a comprendere meglio me stesso e anche l’oggetto di cui sto scrivendo. La scrittura, quindi, è una forma di conoscenza del mondo, perché ci pone in relazione con ciò che è fuori da noi stessi. Anche l’arte creativa del clown, nella sua antica semplicità, tocca le corde primordiali dei sentimenti: il riso, la sorpresa, la malinconia. David Larible ha riproposto al circo Knie alcune variazioni di entrée storiche, come quella dei piatti che si rompono o quella in cui gioca con una chiazza di luce sull’arena (con un richiamo a Pierre Étaix e a Dimitri, due grandi clown da poco scomparsi, e prima di loro a Oleg Popov). In generale, ha mostrato la sua grande abilità nell’intuire e nel leggere le reazioni del pubblico, fino a tirare fuori il clown che dorme dentro ogni spettatore.
modern-times-1Lo spettacolo del circo Knie si chiama Smile, come la famosa canzone composta da Charlie Chaplin (uno dei maestri di ogni clown, e il modello di riferimento per eccellenza dello stesso Larible). Chaplin scrisse questa melodia per il film Modern times del 1936, in un’epoca in cui era ancora indeciso fra il cinema muto e quello sonoro. Le parole, che invitano a sorridere nonostante le avversità, vennero aggiunte più tardi da John Turner e Geoffrey Parsons. Ma prima di farvi ascoltare Smile (ne trovate mille versioni su internet), voglio condividere con voi una canzone che per me ha una funzione simile: When you’re smiling, con la voce di Billie Holiday. È un brano che, in qualche modo, riecheggia l’invito di tutti i clown del mondo: si può sorridere nonostante. Nonostante le difficoltà, nonostante il tempo che ci corrode, nonostante la morte. Ci vuole coraggio. Ma ci si può provare.
Billie Holiday conosceva il dolore e la disperazione; eppure in ogni sua nota sapeva agguantare l’equilibrio e l’eleganza dello swing, insieme alla profondità del blues (sebbene abbia inciso pochi veri e propri blues, si può dire che la sua voce sia intrisa di quel sentimento).
Quando ascolto le canzoni di Billie Holiday degli anni Cinquanta – scrive Murakami Haruki – sento che lei prende su di sé in blocco tutti gli sbagli che ho commesso fino ad oggi, tutte le ferite che ho inferto finora a tante persone. Non si tratta di una cura, precisa l’autore giapponese, perché non è qualcosa che possa essere curato. Perdonato però sì, semplicemente perdonato.

When you’re smiling non risale agli anni Cinquanta, ma è del 1938: Billie Holiday non è ancora troppo incrinata dalle droghe e dalla malattia. Però si ha davvero l’impressione che la sua voce accolga la sofferenza, che in qualche modo sopporti il male e che cerchi di orientarlo verso un possibile perdono. A 2.04, è magistrale e carico di consapevolezza anche l’assolo al sax tenore di Lester Young, amico fraterno di Billie Holiday. «When you are smiling, the whole world smiles with you», canta Billie. E il mondo davvero sorride. Non so se lo vediate o meno, ma fa veramente un gran sorriso.

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PS: Le parole di David Larible provengono dal volume Consigli a un giovane clown, scritto con Massimo Locuratolo e Alessandro Serena e pubblicato da Mimesis nel 2015. Dallo stesso volume proviene il ritratto di Gianluigi Di Napoli, che raffigura Larible al Ringling Bros. and Barnum and Bailey Circus, il maggior circo degli Stati Uniti. Le parole di Murakami (autore anche dell’ultima frase dell’articolo) sono tratte da Ritratti in jazz, scritto nel 1997 e pubblicato in italiano da Einaudi nel 2013. L’immagine con Charlie Chaplin è un fotogramma del film Modern times. L’uomo sorridente (vedi sopra) è un’opera della fotografa tedesca Aenne Biermann (1898-1933), composta prima del 1930 e intitolata Lächelnder Mann (“Uomo che ride”); si trova nella Pinakothek der Moderne di Monaco, in Baviera.

PPS: When you’re smiling è una canzone scritta da Larry Shay, Mark Fisher e Joe Goodwin. La versione di Billie Holiday, con Lester Young al sax, è stata registrata il 6 gennaio 1938 a New York. Potete trovarla nella raccolta Billie Holiday + Lester Young: a musical romance (Columbia 2002). Gli altri musicisti: Teddy Wilson (piano), Buck Clayton (tromba), Benny Morton (trombone), Freddy Green (chitarra), Walter Page (contrabbasso), Jo Jones (batteria).

PPPS: Avevo già accennato qui a David Larible; qui, invece, parlo del rapporto che lega Billie Holiday e Lester Young.

PPPPS: Ecco infine anche Smile, in una versione incisa da Nat King Cole a Hollywood il 27 luglio del 1954.

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“Every style is the result of a handicap”

C’è chi me lo chiede, ogni tanto. Perché uno come te, senza talento musicale, si è messo in mente di suonare il sax? Io rispondo che si tratta di un esperimento: uso me stesso come cavia per dimostrare che la musica è qualcosa che tutti abbiamo dentro e che, presto o tardi, troverà una via d’uscita.
image1Da qualche anno prendo lezioni di sax. E sto imparando. Non sarò mai un virtuoso, ma forse un ascoltatore più attento. Inoltre, il fatto di suonare apre nella mia vita spazi di gratuità: un’attività che faccio per il gusto di farla, da solo, per il piacere di sviluppare un suono personale. Senza dover dimostrare niente a nessuno. Be’, naturalmente ho un maestro paziente, che ogni tanto viene a rincorrermi nelle giungle di accordi strani in cui mi smarrisco.
La musica mi aiuta fra l’altro a comporre i dissidi e ad apprezzare la semplicità. Questi per me sono due grandi insegnamenti.
FullSizeRenderQuando suoni con qualcuno devi ascoltarlo, non si scappa. Non puoi essere concentrato sempre e solo sulla tua voce, ma devi prestare attenzione, reagire agli stimoli. Ogni tanto ti succede di sbagliare, capita anche ai più bravi, e devi proseguire lo stesso. Come diceva il pianista Thelonius Monk, bisogna fare gli errori giusti.
Con il tempo e il lavoro, ti accorgi poi che non si tratta di aggiungere, ma di togliere, di rendere più essenziale la propria voce: è la difficile arte della facilità. Per averne un’idea si può guardare un video del dicembre 1957, in cui un gruppo di musicisti accompagna Billie Holiday. Dopo trenta secondi, Billie comincia a cantare “Fine and Mellow”. Poi si alza Ben Webster, per il suo assolo. Subito dopo, intorno al secondo minuto, ecco apparire Lester Young, un po’ all’improvviso, come se il suo intervento non fosse previsto. Fra Lester e Billie c’è un rapporto di amicizia profondo, sebbene negli ultimi anni si siano visti poco; entrambi del resto sono affaticati da alcol, droga, malattie. Moriranno due anni dopo, nel 1959, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altra, dopo un declino rovinoso. Ma nei momenti catturati dalla cinepresa, Lester Young riesce a compiere un piccolo miracolo: soffia nel sax e fa un assolo semplicissimo (a partire dal minuto 1.23). Poche note indietro sul tempo, una linea musicale scarna, commovente, che risponde al sentimento di Billie ed esprime tenerezza, malinconia, partecipazione. Infatti lei alza gli occhi, lo guarda e senza parlare dice tutto: è così, annuisce, è proprio così.

È una scintilla che dura pochi secondi, poi riprende la canzone. Ma in quegli istanti si capisce come la musica possa placare una ferita – specialmente il blues – come uno sguardo possa dire più di lunghi discorsi, più di mille telefonate, lettere, messaggi. IMG_0600Basta una serie di note, limpide come gocce d’acqua, basta un sorriso.
Quanti musicisti hanno imparato ad accettare le loro imperfezioni, anzi, a usarle per essere più autentici, più compiuti. Non parlo soltanto degli schiavi che inventarono il blues o dei jazzisti degli anni Cinquanta minati dalle dipendenze. Penso anche a un virtuoso come Keith Jarrett, che nel 1996 fu travolto da una sindrome da affaticamento cronico. Nel 1999, durante la convalescenza, incise da solo il disco The melody at night with you: niente di straordinario, poche canzoni d’amore suonate in maniera sommessa. Ma proprio per questo, forse, è uno dei dischi di Jarrett che più mi hanno colpito al primo ascolto.

Il mio mestiere non è suonare, ma scrivere.
La musica è un’attività meno intensa, meno sofferta, però a volte mi porta in territori che non avrei mai pensato di attraversare. E allora sbaglio il ritmo, non sento gli accordi, perdo il treno. Poco male. Basta avere pazienza, perché prima o poi le cose si sbloccano. Anche per chi, come me, parte con un forte handicap. Ma diceva proprio Lester Young: Every style is the result of a handicap. Ogni stile è il risultato di una mancanza.

PS: L’incisione di I love you Porgy risale a un concerto del 1986 (quella del disco The melody at night with you non è disponibile su internet).

 

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