A a B b C c

CARTOLINE (NOVEMBRE)

“Cartoline” (#cartoline2020) è un progetto ideato e scritto da Yari Bernasconi e Andrea Fazioli.

CARTOLINA NUMERO 41
Dalla foresta



Né giovani né vecchi, ci siamo ritrovati dentro una buia foresta. Era un bosco boscoso, fitto, intricato. All’inizio non c’era nient’altro che rami contorti, cespugli, rocce, burroni. Mentre meditavamo su dove fosse il nord, abbiamo incontrato un cavaliere che avanzava a piedi. Ricoperto dall’armatura, con un pesante spadone, correva trafelato. Non si è fermato nemmeno per salutare, così non abbiamo capito se inseguisse un’elusiva fanciulla o il suo cavallo (forse entrambi). Era proprio una gran selva, dove si può solo fallire la propria via: chi su, chi giù, chi qua, chi là, tutti si perdono. A un tratto abbiamo udito un urlo formidabile, mentre una figura indistinta passava fra i rami più alti. Allora ci è tornato in mente l’inizio di questa storia: siamo entrati nella selva tanto tempo fa, quando eravamo bambini. Ci eravamo inoltrati in una radura armati di arco e frecce, vestiti di verde. Il sole disegnava arabeschi sull’erba, mentre noi procedevamo con cautela, attenti a ogni dettaglio. Come vedi, siamo ancora qui.

CARTOLINA NUMERO 42
Da Ginevra, Svizzera


È la città degli incontri: dalla Ginevra internazionale, con gli stuoli di diplomatici, gli avvocati, i congressi delle multinazionali e gli alberghi chic, alla Ginevra umanitaria e attivista, con gli istituti, le associazioni, la Croce Rossa. Per non parlare della Ginevra finanziaria, con i business lunch e le Bentley, e quella storico-culturale, con i musei, le statue, le manifestazioni… S’incontrano tutti, a Ginevra. Tutti, tranne noi due. Le premesse erano ottime: Salone del libro. Come sbagliarsi? Uscire dalla stazione Genève-Aéroport, camminare per cinque minuti in direzione del Palexpo, entrare nella fiera. Fine. Così abbiamo allineato gli orologi e ci siamo dati appuntamento proprio all’entrata alle 14:30. Peccato non aver pensato a controllare il giorno. Confusi dal fatto che alcuni venerdì soleggiati somigliano terribilmente ai sabati, e che ogni tanto i sabati – da sempre un po’ libertari – s’incaponiscono per allontanarsi dalle domeniche, eccoci qui: uno con la penna in mano, l’altro al telefono. Uno a casa, l’altro a Ginevra. Non stupirti se le firme ti sembreranno simili: siamo in due, ma la mano è una. 

CARTOLINA NUMERO 43
Dall’Altaripa Resort***, Europa Sud, Marte


È stato un viaggio lungo e complicato, inutile nasconderlo. Tanto più che avevamo un solo traduttore automatico in due (l’altro l’abbiamo dimenticato nella stazione di transito dello Spazioporto di Gravellona Toce). Dopo l’ammartaggio, però, siamo arrivati comodamente in albergo con i treni digitali e ci siamo potuti riposare. Domani dovremmo visitare Nova Firenze. Le prime impressioni di Europa Sud sono abbastanza buone, anche se la sensazione di déjà vu ci accompagna a ogni passeggiata. Non a caso lo slogan pubblicitario che campeggia all’entrata del nostro albergo recita HOME SWEET HOME. Ovviamente queste imitazioni hanno i loro vantaggi: nessun pericolo di smarrirsi, niente di davvero nuovo e interlocutorio, nessuna preoccupazione. Eppure ieri, quando siamo andati sul confine, di fronte al deserto che separa Europa Sud da Europa Nord, davanti alla ruggine misteriosa del territorio, ci è sembrato che qualcosa si muovesse dentro di noi. Un battito accelerato, un accenno di stupore. È stato un momento fulmineo, ma c’è stato. 

CARTOLINA NUMERO 44
Da un’aula scolastica vuota


Se possiamo inviarti una cartolina, è perché anni fa qualcuno ha scritto per noi alla lavagna: A a B b C c D d E e F f G g e così via. Sempre qui abbiamo scoperto che, in un triangolo rettangolo, il quadrato dell’ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati sugli altri due lati. E sai una cosa? Sarà sempre uguale. Passano i regni, derivano i continenti, crollano le montagne, ma il quadrato dell’ipotenusa resta una certezza. L’aula è vuota il mattino, prima che tutto cominci, ma per vederla così bisogna arrivare in anticipo (non esageriamo!). Oppure la sera, quando ci attardiamo a finire un compito mentre gli altri escono di corsa, e intanto il sole scompare, il bidello avanza lungo il corridoio, il campanello suona per la seconda volta. Non c’è più tempo. Andiamo. Tanto abbiamo già imparato l’essenziale: A a B b C c fino a Z z, le sappiamo tutte, anche se qualche volta ci dimentichiamo la K k o la W w. Quando usciamo anche noi, nell’aula buia resta solo, in perenne attesa, il quadrato dell’ipotenusa.

PS: Potete leggere qui le prime quattro cartoline. Le successive: qui dalla 5 alla 8, qui dalla 9 alla 12, qui dalla 13 alla 16, qui dalla 17 alla 20, qui dalla 21 alla 24, qui dalla 25 alla 28, qui dalla 29 alla 32qui dalla 33 alla 36 e qui dalla 37 alla 40. Oppure, nelle “categorie”, trovate la sezione “Cartoline2020“.

Condividi il post

Terrain vague

Ogni tanto qualcuno mi chiede: ma che cosa significa “scrittura creativa”? E tutti questi corsi, queste scuole, a che cosa servono? Spesso la domanda mi coglie impreparato e finisco per dare una risposta più teorica di quanto vorrei. Certo, ogni forma di scrittura in fondo è “creativa”, perciò il termine può sembrare quasi assurdo. Per giunta la pretesa d’insegnare un’attività artistica ha dei limiti evidenti: la tecnica può spingersi fino a un certo punto, ma poi la scrittura – come la musica, la pittura, il cinema – richiede un cammino di ricerca personale, allo scopo di favorire la maturazione negli anni di una propria voce, di un proprio stile.
In realtà non si tratta per me di un problema teorico, ma di un mestiere concreto. Da anni tengo laboratori nei licei o in altri contesti didattici, fra cui la Scuola Flannery O’Connor di Milano e la Scuola Yanez, che opera fra Italia e Svizzera. Con quale spirito, dunque, affronto il lavoro sui testi? Ci pensavo oggi mentre, fermo al semaforo, lasciavo che lo sguardo si perdesse in un terrain vague di fianco alla strada. È una fetta di prato incolto, con qualche vecchio albero da frutto e il ricordo di un sentiero nell’erba alta. Mi sono accorto di due cose. Primo, lasciare che gli occhi divaghino in quello spazio è per me un’abitudine, anche se finora l’avevo sempre fatto senza consapevolezza. Secondo, ho notato che il prato sta per andarsene. Sul terreno infatti sono comparse quelle che in Svizzera si chiamano modine: sono pali di legno o di metallo che, prima dell’avvio di un cantiere, disegnano nell’aria la forma che occuperà il futuro edificio.
Il terreno dunque è ancora incolto, ma ci vuole poco a immaginare il grande caseggiato che lo sostituirà. Comprendo che ciò significherà appartamenti, negozi, opportunità economiche. Ma è più forte di me: amo i terrains vagues e mi rattristo ogni volta che ne scompare uno. In italiano si chiamano spazi residuali, in inglese vacant land. Sono definiti dall’assenza, dalla mancanza di una funzione utile. Un terrain vague è un vuoto, un pezzo di natura dimenticato dentro la città, una svista geografica. La particolarità di questi frammenti è quella di avere un loro tempo, un loro ritmo segreto che non sempre si accorda a quello del contorno urbano. Ecco perché i terrains vagues mi fanno pensare alla “scrittura creativa”. Per me un laboratorio non ha solo lo scopo di aiutare uno scrittore a trovare la sua voce, né quello di fornire mezzi tecnici a chi voglia affinare gli strumenti del mestiere. I laboratori servono anche a controbilanciare un aspetto fondamentale della scrittura: la solitudine. È giusto che un autore conosca la solitudine, ma senza esagerare (altrimenti si rischia l’isolamento). È giusto che chi lavora con le parole approfondisca il valore del silenzio, ma sempre senza esagerare (altrimenti si rischia l’aridità). Nel laboratorio si approfondisce l’amore per la letteratura, come lettori prima che come autori. Il fatto di condividere un’esperienza non rende meno acuminato e solitario il lavoro di chi scrive, ma permette d’interrogarsi e di cogliere altri punti di vista.
La scrittura è come un terrain vague nel tessuto della quotidianità, uno spazio imprevisto, non riducibile a uno scopo immediato. Quando tengo un laboratorio, mi capita di avere intorno persone dai quindici agli ottant’anni (e anche oltre…), che fanno i mestieri più disparati e che vogliono scrivere per i motivi più differenti. Qualcuno vuole costruire racconti o romanzi, qualcun altro vuole raccontare di sé o tenere traccia dei suoi viaggi, altri ancora vogliono diventare lettori più attenti provando il gesto della scrittura. È come dedicarsi a uno strumento musicale: non tutti imparano a suonare il pianoforte per poi incidere un disco; spesso c’è soprattutto il desiderio di conoscere un nuovo tipo di linguaggio. Alla fine l’avvocato o il meccanico che frequenta un laboratorio non diventerà magari uno scrittore, ma è possibile (e auspicabile) che la passione per la letteratura lo aiuti a diventare un avvocato o un meccanico migliore.
Del resto anch’io prendo una lezione di saxofono una volta alla settimana, ma non ho certo intenzione di suonare in pubblico. Semplicemente, a volte uno sente l’esigenza di trovare un terrain vague. Allora occorre parcheggiare la macchina, allontanarsi dal traffico e oltrepassare il cancello chiuso.
Così ho fatto oggi. Ho scavalcato il recinto, ho superato una macchia di bambù e mi sono inoltrato nel vuoto. Le modine, da vicino, parevano dei totem. In mezzo al prato – benché si sentissero ancora le automobili – il vento e il fischio di un uccello mi hanno procurato una sensazione di silenzio, di lontananza dal mondo. È proprio a questo altrove, ho pensato, che approda chi si cimenta nella scrittura.


Ho raggiunto un albero da frutto, mi sono arrampicato sui rami più bassi e da lì ho contemplato il terrain vague. Mi sentivo come se guardassi verso il passato. Fra poco non ci saranno più né gli alberi né il vuoto; già ora, in mezzo ai rami, s’infila come un monito l’asta di metallo, a delimitare l’angolo di un muro o il vano di un garage. Passeranno gli anni e forse, in fila al semaforo, arriverò perfino a scordarmi che al posto del caseggiato c’era uno spazio incolto.
Ci sono tuttavia dei terrains vagues che, nella loro provvisorietà, hanno la capacità di restare. La lettura e la scrittura a ben vedere non servono a niente. La vita sembra fatta di cose ben più necessarie e giustificabili: cibo, contratti, amori, palestre, case, affari, figli, aperitivi, amicizie, vacanze… Insomma, perché scavalcare il cancello? Perché camminare nella terra di nessuno? La risposta non può essere teorica. Bisogna proprio andarci e sentire, sotto i nostri passi, il frusciare di quell’erbaccia inutile e preziosa.


PS: Qualche informazione per chi fosse interessato. Le lezioni della Scuola Flannery a Milano sono già in corso; ci si potrà iscrivere nuovamente all’inizio del 2018. La Scuola Yanez invece apre nuovi laboratori per l’autunno-inverno (trovate qui tutti i dettagli).

PPS: Ne approfitto per ringraziare le scuole e le associazioni che negli anni mi hanno chiamato per tenere lezioni o laboratori. Oltre a quelle che ho già menzionato, voglio citare anche Lalineascritta (Napoli). Il laboratorio fondato da Antonella Cilento festeggia i venticinque anni di attività: un traguardo importante e un segno di speranza per chi crede nella letteratura.

Condividi il post

Kids are pretty people

Oggi nella Svizzera italiana è il primo giorno di scuola. Come sempre, quando sento le parole “primo giorno”, ho la tentazione di voltarmi verso il passato: sarà perché tutti gli inizi poggiano su fondamenta più o meno visibili, sarà perché la fine dell’estate accende malinconie. Ho accompagnato mia figlia al primo giorno della seconda elementare, domani accompagnerò sua sorella al primo giorno di asilo. Vedete? Tutti questi “primi giorni” mettono addosso una certa inquietudine. L’unica è tuffarsi nei classici… Si computes annos, exigum tempus: si vices rerum, aevum putes (“Se tu conti gli anni, il tempo ti parrà breve: se rifletti sopra gli avvenimenti, crederai esser corso un secolo”). Ma quelle di Plinio sono sempre parole, sia pure in latino, mentre mi pare di essere di fronte a qualcosa che, per non essere banalizzato, richieda due operazioni: tacere e camminare.
IMG_6630Taccio e cammino, allora, resistendo alla tentazione di parlare del tempo che passa a chi mi sta accanto. Esco dalla scuola… il cortile è sempre quello, con il medesimo grande albero sulle cui radici mi arrampicavo, da bambino, immaginando un mare in tempesta al posto del terreno. Mi allontano da solo lungo via Franscini, e lo sfasamento temporale mi colpisce quando meno me lo aspetto.
L’edificio dove ho trascorso due anni come allievo di scuola media ora è sede del Tribunale penale federale. Mi domando se, nei corridoi austeri, sia rimasto qualche ricordo di schiamazzi, di verbi irregolari, di turbamenti ormonali e di compiti copiati in fretta durante la ricreazione. Mi avvicino al portone… ma esito a entrare. E se davvero negli interstizi del tribunale fosse rimasto qualcosa… o qualcuno? Se un giovane Andrea fantasma, con il suo zaino Invicta e la sua timidezza, fosse ancora là dentro, sospeso fra un tema d’italiano e un’equazione a due incognite? Che cosa potrei mai dirgli? E lui, che cosa direbbe di me? Mi sembra che apparteniamo a epoche diverse, nonostante siamo separati da poco più di vent’anni (cantava De Gregori: vent’anni sembran pochi, ma se ti volti a guardarli non li vedi più…). Decido di rimandare la visita: la caccia al tempo perduto richiede un ritmo lento, e per oggi ho fatto abbastanza. A casa ho ancora la bicicletta che parcheggiavo di fianco all’edificio, e la chiudo ancora con lo stesso lucchetto di allora. Ma il parcheggio è sparito, insieme alle tettoie, agli studenti, ai docenti con la cartella di pelle. È proprio vero che le città cambiano più in fretta del cuore di un uomo.
IMG_6629Leggo su internet che la Corte penale del Tribunale penale federale di Bellinzona statuisce in prima istanza sui reati che entrano nella competenza della giurisdizione federale (p. es. terrorismo, servizi di spionaggio, riciclaggio di denaro, criminalità organizzata). Be’, qualche piccola operazione di spionaggio, durante le verifiche di matematica, l’avevamo messa in piedi anche noi… chissà se l’eco di quelle losche macchinazioni aleggia ancora in questi spazi chiari. È curioso: come scuola, l’edificio aveva corridoi oscuri e un colore grigiastro; ora, come tribunale, si presenta candido e immacolato. Vorrà dire qualcosa? Probabilmente no.
IMG_6612Continuo a camminare. La città ha ancora una luce estiva, ma c’è un segno che invece mi proietta verso l’autunno: mancano i ragazzi, i bambini. A quest’ora le lezioni sono già cominciate, e gli allievi sono tutti dentro un’aula. Mi domando che cosa voglia dire, per loro, stare ancorati a un tavolo mentre fuori splende il sole. A prevalere sarà il rammarico per una bella giornata persa? Ma la scuola, in fin dei conti, dovrebbe aiutare a godere con maggiore pienezza anche delle belle giornate. Oppure è ingenuo pensare che il sistema scolastico debba rispondere pure a queste esigenze? Forse è più prudente limitarsi a trasmettere nozioni che aiutino a “imparare un mestiere”, “farsi una cultura”, “affrontare la complessità del mondo contemporaneo”. Ma personalmente, quando mi trovo di fronte a un gruppo di ragazzi per un laboratorio di scrittura, ciò che più mi emoziona non è tanto la possibilità di trasmettere loro qualcosa, e nemmeno il fatto che loro possano trasmetterlo a me. A stupirmi è la presenza: siamo qui, riuniti nella stessa aula, pronti a condividere qualcosa che possiamo chiamare “letteratura”, nonostante le mille differenze fra di noi (di età, origine, esperienza, carattere…).
La scuola è prima di tutto esserci. È un gesto: uscire di casa, entrare in un edificio, sedersi insieme in una stanza. E in quella stanza siamo presenti con tutti noi stessi, carichi di tutte le nostre domande. Andare a scuola implica il pensiero del futuro, il desiderio di costruire qualcosa. Se un insegnante riuscisse anche solo in questo – tenere desti i desideri – avrebbe già ottenuto un successo.
Non mi dilungo con le riflessioni: torno a camminare e vi lascio con la musica. Kids are pretty people è un brano composto da Thad Jones nel 1968. Gli amanti del jazz sanno che la famiglia Jones non manca di grandi talenti: oltre a Thad (1939-85), il batterista Elvin (1927-2004) e il pianista Hank (1918-2010). A Hank è capitato spesso di riproporre il brano di suo fratello. Questa è una versione con il sassofonista Joe Lovano, insieme a George Mraz (basso) e a Lewis Nash (batteria).

A essere pretty people non sono solo i bambini, ma soprattutto chi sa mantenere, insieme alla pacatezza della vecchiaia, l’apertura e lo slancio di un ragazzino. Direi che Hank Jones è un magnifico esempio: pensate che all’epoca di questa incisione aveva 87 anni. Mi rendo conto che il brano è lungo (e non a tutti piace questo tipo di musica). Ma ascoltate almeno, nei primi minuti e alla fine, la perfetta discrezione del pianoforte, l’intesa con il sax. Bello anche l’assolo di Jones, a 5.08. In particolare, sentite la forza della sua vitalità fra il settimo e l’ottavo minuto, osservate la sua espressione elegantemente radiosa.
Hank Jones è stato un grande maestro. L’augurio che faccio a tutti gli insegnanti, per questo nuovo anno, è di avere la sua stessa grazia, la sua ironia, la sua misura, insieme a quel briciolo di fanciullezza che – nonostante gli anni – continua a vivere e a diventare musica…

image1-2

 

PS: Quando mi deciderò a entrarci, nel Tribunale, vi farò sapere se davvero troverò qualche fantasma. Magari ci proverò il prossimo primo giorno di scuola…

PPS: La citazione di Plinio Il Giovane proviene dal quarto libro delle Lettere (XXIV, 6); quella di Francesco De Gregori, dalla canzone Bufalo Bill, contenuta nell’album omonimo uscito nel 1976. La frase sul Tribunale è tratta dal sito www.bger.ch. Una bella versione di Kids are pretty people, registrata nello stesso tour da cui è tratto il video, si trova nell’album Classic!, pubblicato poche settimane fa da Joe Lovano per la Blue Note e dedicato proprio alla memoria di Thad Jones (che ha continuato a suonare con Lovano fino a poco prima della sua morte, all’età di novantun anni). L’osservazione sulle città che cambiano più in fretta del cuore di un uomo è di Charles Baudelaire: Le vieux Paris n’est plus (la forme d’une ville / Change plus vite, hélas! que le coeur d’un mortel). I versi sono tratti dalla lirica Le Cygne, nella sezione “Tableaux parisiens” di Les Fleurs du Mal (1857).

PPPS: Alcuni spunti per questo articolo mi sono venuti in seguito a un proficuo scambio d’idee avvenuto su “Cose di scuola”, il blog di Adolfo Tomasini. Di ricerca del tempo perduto, sempre a Bellinzona, avevo già parlato qui.

 

Condividi il post