Ci siamo persi

CARTOLINE (AGOSTO)

“Cartoline” (#cartoline2020) è un progetto ideato e scritto da Yari Bernasconi e Andrea Fazioli.

CARTOLINA NUMERO 29
Da New Delhi, India
Ci siamo persi. Anche perché qui è impossibile trovarsi. Il taxi che dall’aeroporto ci ha portati nel centro della città sembrava una navicella spaziale. Non abbiamo riconosciuto niente, nessun punto di riferimento, nessuna sensazione di déjà vu. Scendiamo dall’auto. Alziamo lo sguardo verso l’orizzonte, fitto e pesante di cose, tanto pieno da risultare vuoto. Per un attimo dubitiamo di avere i piedi sullo sterrato. Eppure siamo qui. Queste persone parlano con noi. Questa polvere ci sta entrando nei sandali. Non ha più alcuna importanza ciò che siamo stati e ciò che avremmo voluto essere: ora c’è solo il presente impenetrabile. Così saliamo sul primo tuk-tuk con la più adulta delle paure e la più infantile delle curiosità.

CARTOLINA NUMERO 30
Dallo zoo di Zurigo, SvizzeraCiao! I nostri papà sono rimasti dentro ancora un po’. Dicono che devono rivedere i cammelli. Sarà la quarta volta! Noi siamo già usciti e facciamo merenda e ti scriviamo. Sai, lo zoo è bello perché gli animali sono anche molto strani. E certi sono bruttissimi!! No, è uno scherzo, poverini. Comunque hanno le loro abitudini. Forse è vero che possono insegnarci delle cose se li osserviamo bene, ma i nostri papà di sicuro esagerano. Li abbiamo già chiamati due volte col telefono e non rispondono. Siamo alle solite.

CARTOLINA NUMERO 31
Dal buio
È buio, di colpo. Anche quando si prepara lentamente, il buio scende all’improvviso. La vita di prima diventa macerie, ricordi sbagliati, eco di parole smarrite. Non c’è strada, né desiderio di andare, perché l’oscurità si scava una tana dentro di noi, corrode i pensieri. Siamo fatti ombra, lontani dal mondo. Stiamo per nascere o siamo già morti? Nel ventre di una  madre, o dentro un pescecane, non risuona la solita domanda: «Chi siamo?». Ma senza piangere, senza gridare, resta sempre un filo di voce per chiedere: «Dove sei?»

CARTOLINA NUMERO 32
Dai bordi di una piscina di plastica
Il sole brucia sopra di noi, dietro, davanti, si riflette sulle auto parcheggiate, ci aggredisce dai vetri delle finestre. Camminiamo per le strade di un quartiere periferico e a ogni passo le suole s’incollano all’asfalto. Mentre l’afa ci consuma, ci pare di udire onde, spruzzi, risate. La voce cristallina di una sirena. Vorremmo resistere, restare fedeli alla nostra umanità canicolare. Gettando l’occhio dietro siepi e recinti, però, scintillano gommosi lampi azzurri, uno dopo l’altro, a ripetizione. È l’esercito delle piscine da giardino. Finiamo insomma per entrare dove siamo invitati. «Ci mettiamo di fuori? I bambini giocano in piscina…» Ma certo. Ci sediamo accanto al paradiso fosforescente, sorridiamo, beviamo bevande colorate col ghiaccio e discutiamo cercando di capire se l’immenso animale di plastica gonfiabile sia uno squalo, un’orca o un balenottero. Finché un buco non lo sgonfia per sempre.

PS: Potete leggere qui le prime quattro cartoline. Le successive: qui dalla 5 alla 8, qui dalla 9 alla 12, qui dalla 13 alla 16, qui dalla 17 alla 20, qui dalla 21 alla 24 e qui dalla 25 alla 28.

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Dighori

“Viaggi immaginari” è una serie di reportage da luoghi che non ho mai visto, scelti a caso sulla mappa del mondo. A farmi da guida l’antico gioco Hanafuda, che scandisce le stagioni dell’anno. Ogni mese le carte mi accompagnano nella scrittura di un racconto di viaggio e di un haiku.

Ottobre
Hanafuda: Acero / Cerbiatto
Luogo: Dighori (दिघोरी), Maharashtra 441203, India
Coordinate: 20°47’01.9″N; 79°13’11.7″E
(Latitudine 20.78386; longitudine 79.21991)
Andando in un sentiero di montagna m’imbatto in una coppia sui trent’anni. Stanno discutendo. Lei dice: «Qualcuno te lo deve insegnare, a essere forte, non puoi arrivarci da solo.» Lui tace. Lei aggiunge: «Come fai, se nessuno te lo insegna?» Il sentiero è pianeggiante, in mezzo a un bosco di latifoglie in cui spiccano l’arancione dei ciliegi e il rosso vivace degli aceri montani, luminosi come segnali d’allarme. Li saluto, loro proseguono. Alle mie spalle la voce di lei diventa più acuta. Mi accorgo che sta piangendo.
Che cosa posso fare? Non sono affari miei. Mi viene il pensiero di voltarmi, di chiedere se vada tutto bene. Di certo la prenderebbero come un’offesa. Esito, rallento. Mi fermo. Forse invece una parola detta da uno sconosciuto potrebbe aiutarli. Ma il mondo non funziona così. Il mondo può essere (o dirsi) moderno, aperto, sensibile alle differenze. Tuttavia gli steccati restano invalicabili: chi soffre deve soffrire da solo. Il dolore deve restare chiuso nella coppia, nella famiglia, nella cerchia più ristretta. O al massimo può essere buttato fuori nei social network, come un urlo scomposto. È doveroso, è necessario rispettare lo spazio privato degli altri. Bisogna salutare, cortesemente – e poi tirare diritto.
Dopo qualche secondo mi volto, quasi di nascosto. La coppia è scomparsa. C’è solo il sentiero, con gli alberi spogli, il fruscio del vento. Di colpo avverto il peso della mia solitudine. Sarà irragionevole, forse stupido. Di sicuro inutile. Ma sento un nodo di lacrime che mi stringe alla gola, come un morso, come l’agguato di una belva.
Sto pensando alla mia fragilità. Quante volte la vita ci sorprende inermi? Da bambini e da vecchi succede forse più spesso, ma anche nel pieno dei tempi, quando abbiamo costruito una fortezza – o almeno una baracca per ripararci dalle intemperie – anche allora capita che ci sentiamo perduti. Siamo come una preda. Un cerbiatto che si è attardato a bere, al fiume, e che si accorge di essere lontano, diviso da ogni gruppo, famiglia, compagnia. In quel momento, anche se non la vediamo, sappiamo che la belva si aggira nei dintorni. Il leopardo, con la sua capacità di piombarci addosso all’improvviso. La tigre, con la sua divisa mimetica, con la sua eleganza crudele. La tigre di cui non ti accorgi finché ormai è troppo tardi.
Ho provato questa sensazione nel mio viaggio in India. Avanzavo in un terreno brullo: polvere marrone, macchie di alberi, tratti di boscaglia più fitta. Non ero proprio fuori dal mondo: a un paio chilometri a sud-est c’era il villaggio di Dighori, che conta poco meno di cinquanta abitanti. Nella direzione opposta, camminando per tre chilometri circa, sarei giunto a Dongargaon, popolato da un centinaio di persone.
Questi paesi fanno pensare a una zona remota, in mezzo alla natura. Ed è così, in un certo senso. Ma se avessi raggiunto Dighori, e se avessi trovato un’automobile, in poco più di un’ora e mezzo, magari due contando gli imprevisti, sarei giunto alla città di Nagpur, la capitale d’inverno dello stato del Maharashtra (quella estiva è Mumbai).
Nagpur, con i suoi due milioni e mezzo di abitanti, è la tredicesima città più popolosa dell’India. Gli Inglesi la designarono come punto centrale del loro Impero delle Indie; e in effetti è proprio il centro geografico della penisola indiana, sebbene sia un po’ fuori dalle rotte turistiche. Secondo uno studio di Oxford nel periodo fra il 2019 e il 2035 Nagpur sarà la quinta città con la crescita più rapida al mondo, con un tasso di crescita media dell’8,41%. (Ai primi venti posti della classifica ci sono diciassette città indiane.) È un luogo vivo, pieno di movimento. Proprio in ottobre, ogni anno diventa una meta di pellegrinaggio per i buddisti, che in India sono una religione minoritaria. Nagpur è soprannominata anche il Cuore dell’India, la Capitale delle Arance (ne produce di rinomate) o la Capitale delle Tigri, per la grande quantità di questi animali presenti nelle riserve intorno alla città.
Mentre vagavo tra Dighori e Dongargaon, espressioni come “tasso di crescita” mi sembravano prive di consistenza. Anche “milioni di abitanti” era un concetto sfumato, astratto. Intorno a me non c’era nessuno. La parola “tigre”, invece, appariva nella mia mente come una cosa concreta. Era il tardo pomeriggio, la temperatura era calda, umida. Cercavo di camminare all’ombra degli alberi, per quanto possibile. Dal bosco venivano fruscii, schiocchi di rami. Che ne sarà di me, ho pensato. E adesso che sono tornato a casa, che sono lontano dalle tigri in carne e ossa, il pensiero non mi abbandona. Anche mentre scrivo, al sicuro nel mio studio, la domanda mi ferisce. Che ne sarà di me… che ne sarà di tutti noi?

HAIKU

Sale la nebbia.
Scricchiolano sul viale
passi di corsa.

 

PS: Questo è il decimo  “viaggio immaginario”. Ecco le puntate di gennaiofebbraiomarzo, aprilemaggiogiugnoluglioagosto e settembre.

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