Questo sono io

Se avete qualche minuto di tempo, mi piacerebbe che andassimo insieme nella steppa asiatica, vicino all’avamposto occupato da un distaccamento dell’armata mongola. È il IV secolo avanti Cristo ed è un giorno come tutti gli altri. Raffiche di vento, odore di cuoio, di cavalli. Gli ordini secchi dei comandanti, i colpi di un martello. Un gruppo di soldati sta giocando a dadi, ai margini dell’accampamento, mentre due cani si azzuffano poco più in là. Lentamente il sole si arrampica nel cielo finché, all’inizio del pomeriggio, si staglia all’orizzonte un gruppo di uomini a cavallo.
Un fermento corre nella truppa… oggi non è più un giorno come tutti gli altri. Da mesi i soldati non vengono pagati, ma finalmente sono arrivati i soldi. Gli uomini si mettono in fila e il tesoriere, con fare solenne, consegna a ognuno di loro una moneta d’argento. Tutti ridono, si danno pacche sulle spalle. 
Un soldato basso, di corporatura robusta, si allontana senza dire niente. Dimostra quarant’anni e il volto, segnato dalla fatica, ha dei tratti occidentali. I suoi compagni, pur rispettandolo, ne hanno un certo timore, forse perché è mancino o perché ha gli occhi di due colori diversi: uno azzurro e l’altro nero. Fissando il soldo d’argento, il soldato prende a borbottare fra sé. Avviciniamoci, senza far rumore, e tendiamo l’orecchio. «Sono io – mormora con voce rotta. – Questo sono io.» Si rigira la moneta fra le mani. «Io ho fatto coniare questa moneta per celebrare una vittoria su Dario, quand’ero Alessandro di Macedonia.»

Questa piccola gita asiatica è ispirata a The Clipped Stater, una poesia di Robert Graves. Il poeta britannico immagina che Alessandro Magno non sia morto a Babilonia nel giugno del 323 avanti Cristo. Dopo una battaglia il condottiero era rimasto separato dall’esercito. Confuso, smarrito, a lungo vagò per una foresta e in seguito attraversò fiumi e montagne. Jorge Luis Borges, che amava questa leggenda, racconta che un giorno Alessandro «scorge i fuochi di un accampamento. Uomini dagli occhi obliqui e di carnagione gialla lo accolgono, lo salvano e infine lo arruolano nel loro esercito. Fedele al suo destino di soldato, partecipa a lunghe campagne nei deserti di una geografia che ignora.» Solo il giorno della paga Alessandro ritrova la sua identità. O meglio, riconosce una vicinanza fra l’uomo della moneta e l’uomo arruolato nell’esercito mongolo. È realmente la stessa persona?

La vita è un lungo moltiplicarsi. Se mi volgo indietro, se immagino il futuro, scorgo una quantità di Andrea diversi. Alcuni mi osservano con stupore infantile, altri sono disillusi, addolorati, malinconici, altri ancora mi offrono saggezza e perfino lampi di felicità. Ogni volta, con diffidenza prima e poi con meraviglia, mi convinco che siamo la stessa persona: quel che avevo di buono nell’infanzia non è perduto, anche se talvolta si nasconde ai miei occhi offuscati.
Anche scrivendo, e qui la faccenda si complica, m’interrogo sull’identità dei miei personaggi. È appena uscito per l’editore Casagrande il romanzo Le vacanze di Studer, che ho scritto a quattro mani con l’autore svizzero Fredrich Glauser. A quattro mani per modo di dire, visto che Glauser visse tra il 1896 e il 1938… In realtà l’editore ha fatto tradurre alcuni frammenti di un romanzo inedito, ambientato nel Canton Ticino, a cui Glauser stava lavorando prima di morire.

Glauser aveva abbozzato una trama: nel 1921 il sergente Studer, della Polizia cantonale bernese, sta trascorrendo una vacanza ad Ascona quando s’imbatte in un misterioso omicidio avvenuto nei ditorni del Monte Verità. La storia si muove tra ambienti sociali diversi: i commercianti e i pescatori di Ascona, gli artisti del Monte Verità, i primi turisti attirati dal Lago Maggiore. 
All’inizio ho faticato a trovare il passo, forse per soggezione. Leggo Glauser da quando sono ragazzo e lo ammiro per lo stile, per la capacità di evocare un’atmosfera, per la maestria con cui usa il genere poliziesco. Il suo obiettivo non era costruire un indovinello intorno a un cadavere e nemmeno titillare i lettori con scene morbose; al contrario, Glauser desiderava portare i lettori «in piccole stanze che non hanno mai visto», mettendo in scena personaggi memorabili. Il sergente Studer, creato negli anni Trenta, è protagonista di parecchi racconti e romanzi. Il suo metodo è molto simile a quello del commissario Maigret di Simenon, e consiste proprio nel non avere un metodo. Studer si muove con passo lento, parla con le persone, s’impregna degli odori, dei sapori, dei pensieri altrui.
Per superare le mie difficoltà, ho deciso di condividerle. Insieme alla storia, nella quale metto in scena Studer, ho narrato anche il modo in cui ho affrontato questa sfida. Mi ha aiutato il fatto che lo stesso Studer si trova in difficoltà, perché deve muoversi in un ambiente che non è il suo. Il Ticino è assai diverso da Berna e il poliziotto, con il suo dialetto svizzero tedesco, si sente impacciato, lontano dalla realtà. Questa condizione lo conduce a interrogarsi sul suo ruolo d’investigatore, ma non solo. A un certo punto, di fronte a una bambina appena nata, Studer vive un momento di vertigine.

«Studer sbirciò la bambina. I suoi occhi azzurri, sgranati, parevano intenti a osservare un mondo invisibile a tutti [gli adulti presenti]. Ad un tratto Studer ebbe nostalgia di quella vastità, di quella meraviglia. Un giorno anche lui aveva conosciuto la tenerezza e l’abbandono di chi si aspetta qualcosa dalla vita; di certo anche il piccolo Köbu, fra le rassicuranti strade di Berna, aveva fissato una fontana, un geranio, una carrozza, un ciuffo d’erba o un ciottolo, e forse li aveva visti per ciò che sono realmente. Chi ne sapeva di più? Il piccolo Köbu o lo smaliziato sergente Jakob Studer, della Polizia cantonale di Berna?»

È la stessa domanda: quella di Alessandro il Grande, quella di Studer, quella di tutti noi. Questi interrogativi giungono spesso nei momenti difficili, quando ci sembra di essere lontani dalla realtà, così come accade a Studer. Il mio augurio per Natale è che, anche in tempi segnati dalla crisi (sanitaria, economica, esistenziale…), sappiamo ritrovare il senso del passato e la speranza nel futuro, con la coscienza che entrambi non esistono se non ancorati nel presente, con tutte le sue ombre. Sembra contorto, «eppure – come scrive Glauser – la faccenda è naturale se non addirittura misteriosa, proprio come il fatto che un melo che si credeva seccato incominci d’un tratto a fiorire.»

PS: Buon Natale alle lettrici e ai lettori di questo blog!

PPS: Il romanzo Le vacanze di Studer. Un poliziesco rirovato (Casagrande 2020) è uscito in anteprima nella Svizzera italiana. A partire da gennaio sarà disponibile in tutte le librerie.

PPPS: La poesia The Clipped Stater di Robert Graves (1895-1985) venne pubblicata per la prima volta nel volume Welchman’s Hose, The Fleuron Press, London 1925. Si trova in numerose antologie e anche in The complete poems, Penguin Modern Classics, London 2003. Jorge Luis Borges (1899-1996) ne parlò in due racconti brevi. Il primo, Un mito de Alejandro, si trova nella raccolta Cuentos breves y extraordinarios (1955), scritta con Adolfo Bioy Casares e tradotta da T. Scarano con il titolo Racconti brevi e straordinari, Adelphi, Milano 2020; il secondo, Graves a Deyá, si trova nella raccolta Atlas(1984), tradotta da D. Porzio e H. Lyria con il titolo di Atlante in Tutte le opere, Mondadori, Milano 1985. Nell’articolo ho citato frasi da entrambe le versioni. Inoltre, Borges raccontò questa «favola tanto bella che meriterebbe di essere antica»in alcune conferenze e dialoghi (si veda per esempio l’intervista del 9 dicembre 1985 con Armando Verdiglione, pubblicata in Una vita di poesia, Spirali, Milano 1986).

PPPPS: La fotografia della moneta d’argento e quella che ritrae Glauser sono prese da internet. Purtroppo le dimensioni delle fotografie potrebbero risultare troppo grandi o troppo piccole, a seconda del supporto su cui leggete l’articolo. O magari invece saranno perfette. Sto riscontrando qualche problema tecnico che spero di risolvere al più presto.

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Merlità

C’è una poesia di Toti Scialoja che dice: L’uccello nero / salta leggero, / si chiama merlo / senza saperlo. L’altro giorno, tanto per fare conversazione, l’ho recitata a una bambina, suscitando grandi risate. Le ho chiesto per quale motivo ridesse e lei mi ha spiegato che il merlo era buffo, perché non sapeva nemmeno chi era. Allora mi sono informato: E tu lo sai chi sei? La bambina mi ha rivelato il suo nome, poi mi ha detto: Anche tu sai chi sei, no? Certo, le ho risposto, io sono il merlo.
fullsizerenderCi sono giornate così, da merlo. Saltelliamo leggeri (o più spesso arranchiamo pesanti) senza sapere bene chi siamo veramente. A volte, risalire a sé stessi è un’impresa. Nella maggior parte dei casi, cerco di avvicinarmi alla mia identità per mezzo del lavoro, ma talvolta è il lavoro stesso a privarmi di consistenza. Per farla breve, il mio mestiere è scegliere parole da presentare a chi vuole ascoltarmi. È chiaro allora che si crea un divario fra le mie parole e il mio “io”. Che le mie storie siano i miei saltelli? Che siano proprio loro a nascondermi il mio essere merlo?
copia-di-fullsizerenderBene, mi rendo conto che questi ragionamenti possano sembrare sintomo incipiente di schizofrenia. Provo a spiegarmi con un esempio. Il critico musicale Alain Gerber, nel suo Balades en jazz (Gallimard 2007), racconta di un incontro con il grande sassofonista Stan Getz (1927-1991). Siamo nel famoso locale “Chat qui pêche” di Parigi, un sabato pomeriggio. È un’ora senza incanto: nel seminterrato il giorno arriva come un filo di luce grigiastra, e fra le pareti ristagna ancora il fumo della notte precedente. Il sax di Stan Getz pende inerte dal suo braccio, mentre lui è assente, quasi stordito. Gerber è imbarazzato: poco prima ha visto Getz comportarsi in modo ridicolo, protestando per delle sciocchezze, scoppiando a piangere come un bambino. Aveva gridato, era diventato tutto rosso. Gerber riflette con amarezza: Quando l’avevo incontrato nei dischi in cui era di poco più vecchio di me, una dozzina di anni prima, l’avevo preso per un re di questo mondo. Confondiamo sempre i musicisti con ciò che non sono: in particolare, li confondiamo facilmente con la loro musica. Davanti ai miei occhi, il gigante si era trasformato in un bambino viziato. Odioso, irascibile e precario. Gerber non vuole rinunciare alle illusioni di gioventù, alla semenza ancora verde di un amore puro. Con uno slancio disperato, si mette allora a canticchiare Hershey bar, una di quelle melodie che avevano incoronato Stan Getz nei miei sogni, in passato. Il musicista si gira, lo guarda, fa un sorriso un po’ di gomma e si porta il sax alle labbra.

Quando suona, accade una sorta di prodigio, come se Stan Getz conoscesse da sempre Alain Gerber: le sue frasi leggevano in me come in un libro aperto. Il critico riflette: mai un concerto fu tanto privato come quello. Nello stesso tempo si rende conto di essere davanti a un enigma: qualcosa che possiedo senza comprenderlo. Ha l’impressione di aver colto un riflesso di paradiso: comme un reflet d’un paradis où l’on ne saurait pas son nom. Il paradiso allora significa scordarsi il proprio nome? In questo caso il merlo di Scialoja sarebbe sulla via giusta… ma non ne sono convinto. Getz era un uomo pieno di limiti, infantile, schiavo della droga; tuttavia, mediante il suo strumento, aveva il dono di creare una bellezza straordinaria. Qual è il vero Stan Getz, fra i due che si sono manifestati quel sabato pomeriggio in un seminterrato parigino? Non riesco a rispondere: per me lo sono entrambi. Forse non sono necessari i limiti, perché sorga la bellezza; ma di fatto mi pare che nel nostro mondo accada sempre così: la voce più pura nasce dall’imperfezione, e non c’è melodia sublime che non celi nel profondo una ferita.
Perciò, nel mio piccolo, cerco di stare lontano dalla pericolosa suddivisione fra le mie parole e il mio cosiddetto “io autentico”. So che anche quando invento storie dissemino qualcosa di me; e quando parlo delle mie faccende qui sul blog, non sempre riesco a trasmettere l’essenza del mio pensiero. Anzi, ogni tanto parto per dire una cosa e alla fine mi accorgo di averne detta un’altra. Chissà, magari capiterà anche stavolta…
image1Un tempo, nella scrittura, ero un perfezionista: come se tutto dipendesse dal mio scegliere le parole giuste. In parte lo sono ancora. Ma cerco di imparare ad accogliere gli imprevisti; e forse è anche per questa ragione che ho deciso di suonare il sax (ne ho parlato qui). Non ho nemmeno un centesimo della grazia di Stan Getz, naturalmente. Quando suono non mi trovo sul mio terreno – come accade invece quando uso le parole – e di continuo devo fare i conti con la differenza fra ciò che vorrei e ciò che sono. Ma non è così anche quando scrivo, in un certo senso? Per quanto possa pianificare e costruire, c’è un nucleo segreto al quale non accederò mai. In altre parole, anche quando il merlo scopre di essere merlo, non saprà mai fino in fondo in che cosa consiste la sua “merlità”. È una sofferenza? Direi di sì, è una continua incertezza; ma sapere tutto, forse, sarebbe ancora peggio. Ogni gesto creativo, ogni atto di comunicazione è in gran parte misterioso. Come cantava Gianmaria Testa: …e non sapremo mai / da che segrete stanze / scaturisca il canto / e da quali lontananze, paure, rabbia / tenerezza / o rimpianto / e da quale nostalgia / prenda voce e parta / questa lunga scia / che ancora adesso / e imprevedibilmente / ci porta via.

PS: La poesia di Scialoja viene da Amato topino caro (Bompiani 1971); si trova pure nella raccolta Versi del senso perso (Einaudi 2007). La canzone di Testa è presa dall’album Extra-muros, pubblicato nel 1996 (Tôt ou tard) e poi ancora nel 2005 (Harmonia mundi). L’incisione di Hershey bar è avvenuta a New York il 17 maggio 1950; insieme a Getz ci sono Al Haig al pianoforte, Tommy Potter al basso e Roy Haynes alla batteria; il brano si trova in The complete Roost sessions (Definitive Classics 2008). Non so a quale epoca risalga l’aneddoto di Gerber (nel libro non lo specifica), ma credo che sia negli anni Sessanta. I merli sono quelli del gioco Il mio primo frutteto (Erster Obstgarten, Haba 2009). La fotografia di Stan Getz è di Giuseppe Pino, tratta dal volume Sax! (Earbooks 2005).

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