Hi there!

#Rubruk2022 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli

Guglielmo di Rubruk partì nel 1253 per una lunga spedizione in Asia. Il suo Itinerarium, redatto in latino, è fra i più bei resoconti di viaggio che siano mai stati scritti. Basta leggerne poche frasi per trovarsi nel cuore dell’ignoto, oggi come ieri, desiderosi di conoscere ciò che è diverso da noi.

Rubruk
Divagazioni intorno ai viaggi di Guglielmo di Rubruk

Terzo episodio.

7) «Quella sera l’uomo che ci faceva da guida ci diede da bere del comos; al primo sorso mi misi tutto a sudare per il disgusto e la sorpresa, perché non ne avevo mai bevuto. Tuttavia mi sembrò che avesse un buon sapore, ed effettivamente ce l’ha».

Guglielmo beve, ed è come se bevesse l’universo. Nella sua espressione c’è tutto quello che si può cercare: le tenebre dell’ignoto, lo scontro, la luce della scoperta. Come quando fra le montagne, in mezzo a creste e pendii, si giunge a un pianalto inatteso. Guglielmo, con la fronte perlata di sudore, sorride alla guida. Poi si gira verso di noi e scuote la testa, desolato, scoprendoci in bilico sul bicchiere, titubanti e anzi angosciati. Forse più sudati di lui. Abbozza una smorfia ironica: sa bene che non siamo all’altezza, nulla di nuovo, ma bere da un bicchiere, accidenti!
Stretti fra l’imbarazzo e il desiderio di essere altrove, ci torna in mente il ricordo di un altro mondo. Siamo sempre noi due, a Zurigo, e stiamo entrando in un caffè che si vuole internazionale e sfoggia un marchio riconoscibile (l’abbiamo già visto mille volte). Ci avviciniamo al banco luminoso e il commesso ci dice: «Hi there!». Manco a farlo di proposito restiamo interdetti fra l’inglese ostentato del ragazzo con grembiule e la lista infinita di bevande. Volevamo prenderci due ristretti, ma ci troviamo a scegliere fra Vanilla or Caramel Macchiato, Flat White, Chai Tea Latte, Oat Cappuccino (Vegan), Matcha Tea Latte, Espresso 1x 2x 3x, White or Black Macchiato, Cold Brew, Premium Hazelnut Chocolate, Filterkaffee, Café Latte, White Chocolate Mocha, Iced Americano, Java Chip e altre cose che non abbiamo più tempo di leggere, perché dietro sbuffano e il ragazzo ci dice ancora qualcosa in inglese.
Allora uno di noi, di colpo sicuro, dice: «Two Comos, thank you».
E l’altro aggiunge: «Large, please».
Il comos, o kumis, è una bevanda ottenuta a partire dal latte di giumenta. Di certo il frate di origini fiamminghe avrebbe preferito della birra… ma non importa. La memoria evade dal passato. Nell’eterno presente del viaggio, Guglielmo si specchia nelle parole dei tartari, nei loro occhi sottili, nei gusti, negli odori. È fatto così. Non si limita a bere il comos per necessità: finisce per trovarlo buono.
«Okay!» risponde il commesso.
Si volta, traffica fra le bevande, ci porge due bicchieri di carta. Noi ci guardiamo. Non abbiamo nessuna idea di che cosa ci abbia servito. Ma Guglielmo ancora ci osserva – fra le luci del bar moderno, con il suo corpaccio robusto, il saio stazzonato – e quindi, dopo avere elemosinato una cannuccia, non possiamo fare altro che bere il mistero fino all’ultimo sorso.

8) «Camminammo per tre giorni senza incontrare nessuno. Eravamo sfiniti, e così pure i nostri buoi, e non sapevamo in che direzione avremmo potuto trovare dei Tartari; quando improvvisamente ci vennero incontro due cavalli, che accogliemmo con grande gioia. La guida e l’interprete montarono in sella e andarono in esplorazione, per vedere da che parte trovare qualcuno. Quando, il quarto giorno, incontrammo finalmente degli uomini, la nostra felicità fu come quella di naufraghi che arrivano in porto. Lì prendemmo cavalli e buoi, e procedemmo di bivacco in bivacco finché non giungemmo, il 31 luglio, all’accampamento di Sartach».

Alla periferia di noi stessi. Come può il mondo esistere? Il semaforo è giallo, lampeggia, nelle case le tende non si scostano, si appannano gli occhiali. Poi due cavalli ci chiamano per nome.

9) «Muovemmo dunque diritto verso oriente in direzione di Baatu. Il terzo giorno giungemmo all’Etilia; quando vidi il fiume mi chiesi stupito da dove arrivasse tutta quell’acqua che scendeva da nord».

Camminiamo sotto la pioggia, in silenzio. Indossiamo degli stivali di gomma scura e siamo infagottati dentro giacche dai colori squillanti. Uno di noi, sulla testa, porta una specie di cappello da cowboy; l’altro un affare curioso, che potrebbe essere a tutti gli effetti un paralume. La strada sale. Non c’è nessuno. Chi uscirebbe del resto in un giorno come questo? L’acqua scroscia nelle grondaie, gocciola dagli alberi, s’attorciglia sui tetti. E come se niente fosse succede qualcosa. Solo che quando ce ne accorgiamo non c’è già più. Certo non un fatto storico, ma nemmeno un dettaglio particolarmente importante per la nostra vita. Eppure accade. In quell’istante, senza bisogno di parlarci, siamo entrambi invasi dalla meraviglia. Una cosa quasi sciocca: siamo stupiti da come scende la pioggia e da come scricchiolano gli stivali. Dalle sfumature di verde nei prati. Dal profilo incerto delle montagne, poco più in là del nostro naso bagnato.
«Se volete mangiare con noi, vi conviene rientrare e asciugarvi», ci chiamano da una finestra.
Siamo abituati a leggere tante cose, a fissare degli schermi più o meno luminosi dove continuano a muoversi immagini che pretendono di essere nuove e originali. Sappiamo bene quanto sia importante leggere con cura e spegnere gli schermi appena possibile. Ma è la nostra vita. Qualche volta ci addentriamo perfino in quelle prigioni senza sbarre che sono i social network, dove si grida il bisogno di conforto e di ascolto, in mezzo al flusso d’insulti, vanterie, moralismo. È la nostra vita.
La dimenticanza è sempre in agguato. Il rischio di sprofondare nella noia, nell’ansia, nella disperazione. Dopotutto, forse, quell’istante di stupore non era così banale. La salvezza viene anche dal camminare dentro una pozzanghera (tanto abbiamo gli stivali) e da quella nitida, fugace sensazione: i prati sono prati, le case sono case, la strada sale poi scende e resta una strada. E l’acqua è l’acqua.
«Ah, e salendo, controllate che il passeggino sotto la tettoia non si sia bagnato!».

PS: Potete leggere qui il primo episodio e qui il secondo.

PPS: Le frasi in grassetto sono tratte dall’Itinerarium di Guglielmo, secondo l’edizione stabilita da Paolo Chiesa in G. di Rubruk, Viaggio in Mongolia, Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2011. Spesso abbiamo usato la versione italiana dello stesso Chiesa; qualche volta abbiamo invece tradotto noi stessi dal testo latino.

PPPS: Negli anni fra il 1237 e il 1242 un’orda di guerrieri mongoli avanzò verso l’Europa. I Tartari, come venivano chiamati, si spinsero in Russia, Polonia, Boemia, Ungheria, devastando città e villaggi. L’esercito arrivò fino all’Adriatico e si ritirò soltanto alla morte del comandante Ögedei Khan. Qualche anno dopo, nel 1253, il re di Francia Luigi IX decise d’inviare un ambasciatore verso le steppe, per tentare qualche relazione con i Mongoli. Il sovrano si affidò a un frate fiammingo, Guglielmo di Rubruk, che viaggiò per due anni nei territori dell’Asia Centrale fino a Karakorum, dove risiedeva il Gran Khan Möngke. Guglielmo, capace di percorrere grandi distanze in poco tempo (più di dodicimila chilometri in totale) era colto, robusto e dotato di buon senso. Sapeva parlare con i re e con i poveri, con un monaco buddista o con uno sciamano, con un soldato o con un prigioniero. Era aperto e curioso nei confronti delle lingue, delle usanze, delle abitudini dei popoli stranieri. Il suo Itinerarium è uno dei più bei libri di viaggio medievali (e anche oltre).

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