Un circo, in lontananza

È quasi buio. Sto camminando attraverso un grande prato, ancora libero dalle costruzioni. A un certo punto, in lontananza, avvisto le luci di un circo. Alla sinistra del tendone, avvolto dai colori, appaiono due grandi gru, impiegate in un cantiere edile. Dietro, si staglia il profilo nitido delle montagne. Più contemplo questa scena, più fatico a riprendere il cammino, nonostante il freddo. Ho l’impressione di avere già vissuto tutto questo: io immobile, in un prato che diventa buio; oltre il buio, la promessa dell’ignoto che si fa scoperta, avventura, meraviglia. Mentre ancora non ci sono arrivato, tuttavia, già sento la tristezza per la durata effimera delle luci e dello stupore. Il circo ripartirà, le due gru costruiranno un palazzo che resterà invece al suo posto, solido, massiccio. E io non sarò mai più sullo stesso prato, con lo stesso freddo, con gli stessi colori che mi aspettano all’orizzonte.
Alla fine mi sono avvicinato. Dentro il tendone era in corso uno spettacolo, perciò a guidarmi è stato il suono dell’orchestra. Ho girato intorno al circo, ho osservato gli autocarri, i recinti per gli animali, gli artisti in attesa di entrare in scena. Una cavallerizza fumava una sigaretta, appoggiandosi a una staccionata. Un clown si stropicciava le mani per tenerle calde. Fin da quando sono bambino ogni anno assisto allo spettacolo del circo Knie, e da sempre mi stupisce l’intreccio fra l’eccezionale e il quotidiano. Nella città grigia di novembre appare questo scintillìo, questa girandola di pagliacci, acrobati, cavalli. Un mondo che sorge di notte, come un incantesimo, e che dopo tre giorni riparte senza lasciare tracce. Dentro l’arena si accendono le fanfare, le risate, gli applausi; intanto fuori piove e un acrobata, avvolto in un manto sfavillante di lustrini, cammina nel fango verso il suo carrozzone.
La famiglia Knie è arrivata all’ottava generazione. Da cento anni porta in giro per tutta la Svizzera la sua carovana di animali e artisti, destreggiandosi per presentare i numeri in tre lingue e per adattarsi alle stagioni. Per me il circo ha un sapore tardo autunnale, ma in altre città dev’essere simile a una fiera estiva. In particolare, ho una predilezione per la figura del pagliaccio colto nella luce di novembre. Mi affascina quel senso di lontananza che sempre si sprigiona dai clown: sono lontani da noi, dalle nostre esperienze, sono esagerati, sono caratteri estremi… eppure, mentre li guardiamo, ci sorpendiamo all’improvviso come in uno specchio. Questa è la forza del circo: è una narrazione primordiale – forse il primo mezzo con cui l’essere umano ha provato a raccontare storie, insieme ai graffiti e alle fiabe – e allo stesso tempo è eternamente provvisorio. Arriva, crea una piccola fantasmagorica città e poi riparte.
Anche gli artisti del circo affondano le radici in una lontananza che, durante lo spettacolo, si tramuta in presente. Quest’anno ho apprezzato la figura di Yann Rossi nei panni del clown bianco. Già suo padre era un pagliaccio rinomato, così come i suoi antenati: nel 1732 i Rossi già si esibivano in Francia, alla corte di Luigi XIV. Anche Davis Vassallo e Francesco Fratellini sono stati molto bravi nel riproporre in maniera moderna e sofisticata alcuni numeri storici, fra cui quello dell’innaffiatore che finisce innaffiato. Fra l’altro, una variante elementare di questa gag ispirò un cortometraggio dei fratelli Lumière, L’arroseur arrosé, che venne proiettato nella prima rappresentazione pubblica di cinematografo, avvenuta il 28 dicembre 1895 al Salon indien du Grand Café, nel boulevard des Capucins a Parigi.
Anche Francesco Fratellini proviene da una dinastia celebre, cominciata con Giuliano Fratellini nel 1745: Francesco è un esponente dell’ottava generazione. Gli appassionati di circo conoscono soprattutto tre membri della quinta generazione: Paul (1877-1940), François (1879-1951) e Albert (1885-1961), fra i maggiori pagliacci in assoluto di tutti i tempi. Fra il 1909 e il 1940 il Trio Fratellini fece ridere tutta l’Europa, resistendo anche durante i tempi più difficili, come la Prima guerra mondiale. François era il clown bianco, Albert l’augusto, mentre Paul mediava fra i due estremi. I tre ispirarono scrittori (Jean Cocteau, Raymond Radiguet), pittori (Pablo Picasso e molti altri) o fotografi (Robert Doisneau). Annie Fratellini, nipote di Albert, fu la prima donna a vestire i panni dell’augusto; nel 1974 fondò con suo marito Pierre Étaix l’École Nationale du Cirque, poi Académie Fratellini. La coppia è presente nel film I clowns di Federico Fellini (dove appare anche Gustavo, un altro membro della famiglia). Nel 1955, a settant’anni, Albert raccontò in un libro la sua vita e quella dei suoi fratelli, augurandosi che il nome Fratellini restasse «il simbolo della gioia che s’infrange, come una tempesta, sui gradini del circo». Da quanto ho potuto vedere, la tempesta infuria ancora… e dalle onde, dalla schiuma nasce la poesia. Come ebbe a dire lo scrittore Henry Miller, «il clown ci insegna a ridere di noi stessi, ed è un ridere che nasce dalle lacrime». È un gesto potente, catartico. Perciò, sempre secondo Miller, «il clown è un poeta in azione. È lui stesso la storia che interpreta.»PS: Per chi abita non lontano dalla Svizzera italiana, suggerisco di visitare la mostra Remo Rossi e il circo. L’arte della meraviglia. Omaggio a Rolf Knie, aperta fino al 28 marzo 2020 nella sede della Fondazione Rossi a Locarno. Alcune opere sono visibili anche nella Casa Ossola a Orselina e nel Ristorante Teatro Dimitri a Verscio.
L’esposizione presenta numerosi schizzi e disegni dell’artista, dai quali scaturirono le sue opere scultoree (di cui alcune fra le più celebri sono state raccolte per l’occasione). Tra i suoi soggetti sono infatti assai numerosi i clown, gli acrobati e gli animali da circo (per esempio la scultura della foca nella piazza Governo di Bellinzona). Inoltre si possono ammirare anche alcuni dipinti e una scultura di Rolf Knie, nato nel 1949, esponente della sesta generazione, il quale fu clown, cavallerizzo e acrobata prima di diventare pittore e scultore.

PPS: La frase di Albert Fratellini proviene dal suo libro Nous, les Fratellini, edito per la prima volta nel 1958 e ripubblicato nel 2009 dalle Éditions Cartouches di Parigi. Le parole di Henry Miller sono tratte dalla postfazione al suo racconto The smile at the foot of the ladder (1958), tradotto in italiano da Valerio Riva (Henry Miller, Il sorriso ai piedi della scala, Feltrinelli 1963; 1980).

PPPS: Per conoscere altri dettagli sul circo Knie, e per mille altri approfondimenti legati al mondo del circo, consiglio di visitare il sito Solo Circo X Sempre, aggiornato e gestito con cura da Andrea Eglin.

PPPPS: Le prime tre immagini dell’articolo ritraggono il circo Knie. Poi c’è un ritratto di Albert Fratellini e una foto dello storico Trio Fratellini. Infine, Remo Rossi fotografato accanto alla scultura Acrobati su impalcatura (1960 circa). Anche la scultura qui sotto, intitolata Gli acrobati, è di Remo Rossi.

 

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Nebbia e circo

Alcuni libri, letti durante l’infanzia, si fissano nella memoria. Le parole e le immagini mettono radici dentro di noi, e anni dopo le ritroviamo mescolate agli altri ricordi, tanto che quasi non distinguiamo più ciò che abbiamo vissuto da ciò che abbiamo letto. In fondo, questo è il senso della letteratura: aumentare la vita. L’immaginazione ci rende più consapevoli di noi stessi, tiene deste le domande sul mondo, ci rammenta che ogni realtà visibile poggia su fondamenti invisibili. Proprio per verificare i fondamenti, è opportuno qualche volta tornare alle storie che ci meravigliavano da bambini.
Ogni anno, in novembre, rileggo una storia di Bruno Munari: Nella nebbia di Milano, Corraini Editore (prima edizione 1968; ristampato parecchie volte, l’ultima nel 2013). È una passeggiata nella grande città immersa nella nebbia, con il richiamo delle luci di un circo, l’incanto dello spettacolo e infine il ritorno a casa attraversando il parco. L’autore, com’è nel suo stile, trasforma il libro in un oggetto dinamico, per mezzo di illustrazioni, pagine trasparenti, sovrapposizioni e ritagli che creano connessioni segrete. Il fascino di quest’opera consiste soprattutto nell’atmosfera, che si diffonde grazie a due elementi in apparenza diversi, ma intimamente legati: la nebbia e il circo.
Fin da bambino amo sia la nebbia, sia il circo. Anzi, per me il circo è un evento luminoso che si manifesta proprio durante l’inverno, con la musica dell’organetto di Barberia che si diffonde nel buio, con quell’odore di popcorn e di segatura, di zucchero filato e di cavalli. Ogni anno, ancora oggi, assisto allo spettacolo del Circo Knie a Bellinzona. Certo, lo stupore non è più quello assoluto dell’infanzia, ma quando varco la soglia del tendone avviene uno sfasamento temporale. È come se per un istante mi fossero restituite le sensazioni di quel bambino dai capelli biondi, sbalordito dai riflettori e dall’ampiezza dell’arena. Oggi il bambino non esiste più – cioè, ormai sono diventato io, con il mio strascico di esperienze e disillusioni. Ma è davvero così?
Forse acrobati e pagliacci resistono anche per questo, per congiungere epoche lontane con il linguaggio delle pantomime, del salto mortale e dei volti truccati, con quello struggimento dolceamaro che sempre il circo porta con sé. È un mondo nomade, che arriva e riparte, che appartiene a tutti i luoghi e a tutte le età, senza mai radicarsi veramente. Così annotava nel 1939 Tristan Rémy, uno dei più grandi critici circensi: Nella grande famiglia errante dei tendoni, delle carovane e dei transatlantici, si preparano nuove meraviglie, nuovi misteri si compiono, la fantasia prepara nuove forme. Il circo non è un museo. Gli artisti viaggianti non sono manichini. Vivono. E vivere è, per loro come per tutti, sorpassare sé stessi, sorpassarsi ancora.
Lo spettacolo di quest’anno miscelava alcuni grandi classici (la “posta ungherese” di Ivan Frédéric Knie o il numero indiavolato del giocoliere Michael Ferreri) con qualche novità soprattutto nel campo delle acrobazie (penso in particolare ai lazos della Xinjiang Troupe). Per quanto riguarda i clown, l’attrazione dello spettacolo era l’artista ungherese Semen Shuster, conosciuto come Housch-ma-Housch. Sia lui sia l’altro comico presente – il portoghese Cesar Dias – hanno fatto un largo uso degli effetti sonori ottenuti con il microfono. Entrambi mi sono parsi di buon livello, sebbene con una tendenza forse eccessiva a coinvolgere direttamente il pubblico.
Uno dei momenti più intensi è stato il finale, prima della chiusura del sipario. Gli spettatori seduti dietro di me se n’erano già andati, presi dalla frenesia di raggiungere il più presto possibile la loro automobile; altri si stavano alzando. Housch-ma-Housch è tornato in scena con un foglio, dal quale ha letto un breve messaggio di ringraziamento nel suo gergo caratteristico. Poi ha girato il foglio, che era bianco e vuoto, e ha proseguito il discorso. Infine ha spezzato il foglio e, aguzzando lo sguardo, ha continuato a leggere di profilo. Ecco una cosa alla quale non avevo mai pensato: la pagina bianca non è soltanto fronte e retro; anche nel taglio si celano parole minuscole, quasi inafferrabili.
Come scrittore, questa piccola rivelazione circense mi ha fatto riflettere. Da dove arrivano le storie? Credo che le parole trovate non corrispondano mai precisamente a quelle che si cercavano: il senso profondo di un testo, per fortuna, supera sempre le intenzioni dell’autore. Le parole più preziose sono quelle che non aspettavamo, quelle che sono apparse nel taglio nascosto della storia. L’atto del narrare dischiude mondi sconosciuti al narratore stesso: i personaggi si manifestano lentamente, dapprima incorporei e poi sempre più vivi, così come – nel testo di Bruno Munari – la nebbia diventa sempre più colorata man mano che ci avviciniamo alle luci rosse e gialle del Gran Circo.

PS: Da bambino, nel libro di Munari a colpirmi non erano tanto i colori del circo, quanto gli autobus che mescolano lentamente la nebbia dei vari quartieri. Era l’attesa prima dello spettacolo, la sospensione narrativa: nella nebbia di Milano anche i gatti vanno a passo d’uomo. E il ritorno a casa non è un banale ritorno alla normalità: dopo l’incontro con la realtà irreale del circo, anche i viali del parco sembrano avvolti in un prodigio. D’inverno la natura dorme e quando sogna appare la nebbia. Camminare dentro la nebbia è come curiosare nel sogno della natura: gli uccelli fanno voli corti per non perdere l’orientamento, scompaiono i segnali e i divieti nelle strade, i veicoli vanno piano e si fa appena in tempo a riconoscerli che spariscono.

PPS: Le parole di Tristan Rémy provengono dal saggio Le cirque, uscito sul primo numero del mensile Mieux Vivre (gennaio 1939); in italiano, si può leggere tradotto da Luana Savarani per l’antologia Tornano i clown (Medusa 2017). Anche le due fotografie in bianco e nero provengono dal saggio di Rémy (la prima s’intitola Equilibrio, la seconda Intervallo).


PPPS: Per approfondire i contenuti dello spettacolo, e per vedere le fotografie del circo a Bellinzona, consiglio di visitare il blog specialistico https://solocirco.blogspot.ch. È meticolosamente aggiornato e curato con passione. (Questa estate, sono usciti anche degli interessanti reportage sui grandi clown.)

 

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Oggetti smarriti

Il ragazzo con i capelli rossi e il viso cosparso di efelidi, seduto nell’atrio della Gare de Lyon, sta scrutando la confezione di un prodotto contro gli acari, la cui efficacia è garantita al cento per cento. Ha alzato gli occhiali sulla fronte e tende il viso aguzzo, strizza gli occhi miopi, corruga la fronte nello sforzo di studiare, di capire come quel portentoso unguento gli consentirà di sconfiggere i nemici che si celano nella polvere. Seduto di fronte a lui, pochi minuti prima di partire da Parigi, mi chiedo se anche i miei ricordi più volatili, quelli che tengo nel solaio dei pensieri, verranno sterminati dalla furia anti-acari del ragazzo lentigginoso. Lo vedo rileggere le istruzioni per l’uso e accennare un sorriso. Allora apro il taccuino e cerco di fissare questi giorni d’agosto.
Fra i molti modi in cui si può pensare a Parigi, mi piace immaginarla come un immenso Ufficio degli Oggetti Smarriti. Ogni volta che ci vado perdo qualcosa, impercettibilmente, in qualche strada mai vista prima, e ogni volta trovo qualcosa che non conoscevo, o che avevo dimenticato di conoscere. Nel maggio 2015, scendendo da Montmartre, vidi per caso una testa di clown dietro la vetrina di una galleria d’arte. Mi fermai, la fotografai in fretta con il telefono. Da allora quel clown, dipinto da Bernard Buffet nel 1955, è rimasto nella mia mente (e nel mio telefono). Mi sembra che dica qualcosa di me, e talvolta permette di verificare la mia esistenza in maniera più efficace che guardandomi allo specchio. Quest’anno ho cercato di nuovo la galleria, per rivedere il mio clown, ma senza successo: oggetto smarrito.
Nel suo libro Impératif catégorique (Seuil 2008), l’autore francese Jacques Roubaud racconta di quando abitava in rue Notre-Dame-de-Lorette e si sedeva spesso al café Joconde, in cui c’era una riproduzione della Gioconda dipinta da un certo Mérou. Ho scritto una poesia in onore della Gioconda di Mérou – racconta Roubaud – e nelle “letture pubbliche” raccomando sempre ai miei uditori di andarla a vedere. Spiego loro che andare a vedere al Louvre quella del suo “plagiario per anticipazione” è difficile, poiché ci sono almeno un milione settecentonovantacinquemilaseicentosei Giapponesi che premono davanti a lei; mentre là, all’angolo della rue de la Rochefoucauld e della rue Notre-Dame-de-Lorette, la folla è meno compatta e si può contemplare a piacere la Gioconda. Il volume di poesie dello stesso Roubaud intitolato La forme d’une ville change plus vite, hélas, que le coeur des humains (Gallimard 1999) può essere usato quasi come una guida di Parigi. C’è anche la lirica dedicata alla Gioconda, che comincia così: I veri intenditori / per veder la Gioconda / non vanno in capo al mondo / e nemmeno al Louvre // Vanno all’angolo della rue / de la Rochefoucauld e della rue / Notre-Dame- / de-Lorette / entrano nel caffè / lei è là // Il dipinto è sul muro / beige e crema / la cornice è beige e crema e un po’ arancione / la tela è firmata / di pugno dall’artista / E. / Mérou. / È la Gioconda / la Gioconda di Mérou. Ma le città cambiano e gli oggetti si perdono. Oggi il café Joconde è diventato il café Matisse. Era chiuso per ferie. Sbirciando dai vetri ho visto molte riproduzioni di Matisse e nessuna Gioconda. Di nuovo: oggetto smarrito. Per fortuna, resta almeno la Joconde di Barbara, che dura un minuto e mezzo e che si trova su internet.

Balzando da un poeta all’altro, si potrebbe dire con Jean Tardieu: J’ai beaucoup voyagé / et n’ai rien retenu / que des objets perdus (“Ho molto viaggiato / e niente trattenuto / se non oggetti perduti”). Ma forse proprio questi lampi di smarrimento, questi chiaroscuri della memoria sono ciò che segnano Parigi d’agosto. Lo stesso Tardieu, in epigrafe a Le fleuve caché (Gallimard 2013), scriveva: Tutta la mia vita è segnata dall’immagine di questi fiumi, nascosti o perduti ai piedi delle montagne. Come loro, l’aspetto delle cose s’immerge e si gioca fra la presenza e l’assenza. Tutto ciò che tocco è per metà di pietra e per metà di schiuma.
Il concetto di presenza/assenza riassume ciò che si prova camminando. La natura della città si mostra nella spaccatura fra l’interno e l’esterno, l’alto e il basso, l’intimo e l’enorme. Nelle profondità della metropolitana, un uomo viaggia accanto a un drone appena acquistato e ne accarezza la scatola, tutto contento; per un istante, la presenza di quel drone sembra sollevarci tutti e portarci fuori, all’aria aperta. Una macchina lunga e nera si ferma davanti a un edificio austero. Un passante chiede: Ma è una limousine o un carro funebre? E la ragazza di fianco a lui: Perché, c’è differenza? Il centro commerciale a Les Halles, all’ora di chiusura: serrande abbassate, griglie di metallo, vetrine oscurate, scale mobili che salgono e un moto di sorpresa nello scoprire che, fuori, c’è ancora la luce dorata sui monumenti. Anche i pazzi che gridano per strada riecheggiano una lacerazione: la donna che ogni sera si aggira per il Quartiere Latino, rimproverando il mondo ad alta voce, o il vecchio barbone americano che esprime i suoi interrogativi su this fucking Paris in pieno boulevard Saint-Michel.
Basta poco per scivolare dalla Parigi esterna e visibile a quella interna e velata. La vertigine multicolore della Sainte Chapelle, dove lo spettacolo delle vetrate si mescola a quello dei turisti con il naso all’insù. Il fervore silenzioso della Chapelle de la Médaille Miraculeuse, in rue du Bac, a pochi passi dalle vetrine sontuose del Bon Marché. La quieta freschezza di un tè alla menta al bar della Grande Moschea. Lo sguardo senza tempo dell’axolotl, al Jardin des Plantes, che ho ritrovato esattamente nella stessa posizione in cui lo avevo lasciato due anni fa. Il retro del palcoscenico del cinema Le Grand Rex, dove si aggirano fantasmi in bianco e nero; l’ombra accogliente dei bistrot; gli eterni anni ’80 del bar “Breakfast in America”; le partite di pétanque e l’assenza/presenza del commissario Maigret in place Dauphine.
Al Museo d’Orsay, non sapendo più davanti a quale classico arenarmi, ho scelto di partecipare al Bal au moulin de la Galette, così come lo vide Renoir nel 1876. Ma non in prima fila: mi sono messo sulla sinistra e ho fissato un punto periferico, dove gli esseri umani appena accennati diventano macchie di colore.
Succede qualche volta, nella vita, di sentirsi figure sullo sfondo di un dipinto: la festa trascina i personaggi visibili in primo piano mentre noi, nel nostro angolo, con la nostra sensibilità, tentiamo di capire le ragioni della nostra presenza/assenza.

Perché qualcosa ci appartenga è necessario fissarla a lungo o ascoltarla senza distrazioni. Bisogna andare, vedere e poi tornare di nuovo. Succede con i quadri, ma anche con le parole smarrite nelle piazze piene di gente. In place de la Contrescarpe, tagliando fuori ogni altro suono, mi sono concentrato sulla frase di contatto dei camerieri, che tornava ad accendersi uguale, sempre con la stessa intonazione: Bonjour! Vous avez choisi? Le parole dentro di me hanno superato il loro significato e sono diventate una frase musicale: sib-sol, fa-fa-fa-fa-sol… qualcosa da cui potrei partire per improvvisare un ricordo di viaggio al sax.

Dalle parti di rue Lepic, mi sono fermato a sfogliare il libro di Roubaud. Scendevo questa via che era diritta, inclinata di sole, tra automobili di una lentezza imprecisa. Scendendo questa strada, avevo la sensazione di un passato, di un lontano passato, di un’altra strada. […] Quella strada là, che non era questa strada qui, come sarebbe tornata presente, come si sarebbe presentata, mentre camminavo, inseguito dal sole, dallo scintillio degli alberi, le pieghe di polvere? La domanda è di quelle urgenti, perché tutte le strade del nostro qui e ora contengono strade inghiottite dall’oblio e promettono strade future. Si può evitare che ciò che vediamo divenga come l’illustrazione di una rivista, sempre più stinta con il passare degli anni? Come combattere il prodotto anti-acari garantito al cento per cento? O in altre parole, dove trovare il bandolo che possa legare le Parigi del passato e le Parigi del futuro, con tutti i loro oggetti smarriti e ritrovati?
Credo che la risposta stia nel paradosso. Fuori dalla Grande Moschea, in una libreria in place du Puits de l’Ermite, ho comprato una versione del Divân, l’opera più celebre del poeta persiano Khāje Shams o-Dīn Moḥammad Ḥāfeẓ-e Shīrāzī, detto Hāfez, vissuto a Shirāz fra il 1315 e il 1390. Sfogliando il volume, ho trovato due versi che racchiudono il paradosso: Ho lo spirito sereno presso l’Essere che dona la pace, / Colui che all’improvviso ha tolto la quiete dal mio cuore. Questa condizione di pace inquieta serve a tenere desta l’attenzione: fungendo da pungolo, permette a ogni viaggio di farsi significativo, nonostante il pericolo della dimenticanza. La mia fatica è di essere presente in ogni momento, pure in quelli vuoti, cercando di trasformare la malinconia in serenità inquieta. Tale operazione non viene compiuta dall’atmosfera né dalla novità del paesaggio, ma richiede la presenza dei compagni di viaggio.
Ci pensavo al museo Pompidou, davanti all’opera Senza titolo realizzata da Robert Ryman nel 1974. Sostanzialmente si tratta di un trittico monocromatico: tre grandi pannelli (182 x 546 cm) laccati di bianco. Quello spazio sterminato, quel campo dove tutto è possibile non si lascia comprimere nei confini di un luogo fisico. L’aspetto più misterioso di ogni viaggio, per quanto attraversi posti esotici e meravigliosi, consisterà sempre nei viaggiatori stessi. Più dei monumenti, più delle opere d’arte, più dei sapori e degli odori.
Davvero c’è la speranza che rimanga qualcosa di una strada percorsa nella fragilità del presente? Se tale speranza esiste, essa non può che nascere nell’intesa, nello scambio, in quella strana alchimia di silenzio e parola che accade quando il viaggio sta già diventando il racconto del viaggio. Gli aperitivi, le cene, i pranzi nei giardini pubblici o in una fritteria, le frasi scambiate al volo, i momenti dove nessuno dice niente. È in questi interstizi che il grande Ufficio degli Oggetti Smarriti può concedere i suoi doni segreti. Insieme all’inevitabile smarrimento, la città è pronta a offrirci qualcosa che – pur essendoci ignoto – riconosciamo come nostro: per esempio l’Arbre Bleu, dipinto nel 2000 da Pierre Alechinsky in rue Descartes. L’opera è affiancata dai versi scritti appositamente da Yves Bonnefoy: […] Car même déchiré, souillé, / l’arbre des rues, / c’est toute la nature, / tout le ciel, / l’oiseau s’y pose, / le vent y bouge, le soleil / y dit le même espoir malgré / la mort […] (“Perché anche lacerato, sporco, / l’albero delle strade / è tutta la natura, / tutto il cielo, / l’uccello si posa / il vento si muove, il sole / dice la stessa speranza nonostante / la morte”). Questo viaggio a Parigi, nel cuore di agosto, è stato per me come un albero blu che resiste alle intemperie. Un albero che invita a fermarsi per bere qualcosa sotto le sue fronde, con animo serenamente inquieto.

PS: Ringrazio i miei compagni di viaggio per la loro presenza e per la loro pazienza. Grazie anche per avermi inviato alcune delle fotografie che appaiono in questo articolo.


PPS: I versi di Tardieu sono tratti dallo stesso volume di cui cito l’epigrafe. Le traduzioni in italiano sono sempre mie, compresa quella di Hāfez (il volume che ho comprato: Hāfez de Chiraz, Le Divân. Œuvre lyrique d’un spirituel en Perse au XIVème siècle, a cura di Charles-Henri de Fouchécour). La canzone di Barbara è tratta dall’album Barbara à l’Écluse (La voix de son maître 1959). La canzone di Giorgio Conte è un piccolo capolavoro umoristico ispirato a una visita al Museo d’Orsay: si trova nell’album Come Quando Fuori Piove (Ala Bianca 2011). Infine, per chi non fosse pago, ecco Charles Aznavour: Chaque rue, chaque pierre / Semblaient n’être qu’à nous / Nous étions seuls sur terre / À Paris au mois d’août… La canzone, che proviene dall’album La Bohème (EMI 1966), è parte della colonna sonora del film Paris au mois d’août, girato da Pierre Granier-Deferre nel 1966 e tratto dal romanzo omonimo pubblicato da René Fallet nel 1964.

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Smile

Qualche giorno fa ho visto lo spettacolo del circo nazionale svizzero Knie. Fra i vari artisti, spiccava la presenza del clown italiano David Larible. È uno dei pagliacci più famosi e più bravi al mondo (avevo già avuto l’occasione di ammirarlo in passato); nella tournée con il Knie, oltre a riproporre un paio di numeri classici, ha voluto citare il suo stesso spettacolo teatrale. Larible infatti è uno dei pochi clown che, come Dimitri e come Grock, abbiano saputo portare anche a teatro la propria sapienza comica.
img_7981Nello spettacolo Il clown dei clown, che conta centinaia di repliche in tutto il mondo, Larible gioca con l’idea della trasformazione: all’inizio è un semplice inserviente, poi si trucca e si traveste direttamente sul palcoscenico finché, come per miracolo ma davanti agli occhi di tutti, appare il clown. Anche nell’arena di segatura, davanti al suo tavolino, Larible si è messo il fondotinta, si è munito di naso rosso e ha dato avvio all’incantesimo del circo.
img_7966La città era deserta, in una fredda sera di novembre. Si sentiva l’umidità nell’aria e una grande luna, che pareva di cartapesta, se ne stava appostata sopra le luci rosse e gialle del tendone. C’è sempre un po’ di tristezza, in quella musica di fanfara, in quelle facce dipinte, c’è un velo di malinconia nella grande fiera che si accampa sulla terra brulla, fra un palazzotto di cemento e un cantiere. Ricordo che da ragazzo andavo a spiare la costruzione – incredibilmente veloce ed efficiente – di quel mondo sfavillante, ordinato, perfetto nella sua armonia interna. È un mondo provvisorio, però, perché dopo un paio di giorni tutto scompare, e la città continua serena ad attraversare i giorni grigi di novembre, come se nulla fosse accaduto.
img_7975Non è accaduto nulla? I ricordi dello spettacolo sfumano, si alzano i baveri dei cappotti e l’eco delle risate viene coperta dai motori che si riavviano: ognuno ha fretta di tornare a casa. Ma il circo è qualcosa, è un fatto concreto che ha preso vita nel tempo. Non è la registrazione di uno spettacolo, non è l’interpretazione di un testo scritto o di uno spartito musicale; è un atto creativo che, in primo luogo, si può definire come un passaggio di stati d’animo. Così dice lo stesso Larible: Il clown è per me un giocoliere di emozioni che deve essere in grado di smuovere i sentimenti e di tirare fuori le pulsioni che tutti possediamo. Spesso mi chiedono quale messaggio io intenda mandare con le mie gag. La mia risposta a questa domanda è che io non intendo mandare messaggi (per quello esistono gli sms): ciò che faccio è entrare in pista e svuotarmi le tasche di quello che ho, sia essa tristezza, gioia, forza, malinconia. Il pubblico poi può servirsi liberamente e prendere ciò di cui ha più bisogno in quell’occasione. Può ridere, sorridere, commuoversi o cullarsi nella malinconia. Questo è l’unico modo con cui io riesco a concepire, e quindi a definire, il clown.
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Questa trasmissione avviene in tutte le arti. Quando scrivo, cerco di indagare la sostanza delle mie emozioni, dei miei stati d’animo. Se vado a fondo di ciò che sono, riesco a comprendere meglio me stesso e anche l’oggetto di cui sto scrivendo. La scrittura, quindi, è una forma di conoscenza del mondo, perché ci pone in relazione con ciò che è fuori da noi stessi. Anche l’arte creativa del clown, nella sua antica semplicità, tocca le corde primordiali dei sentimenti: il riso, la sorpresa, la malinconia. David Larible ha riproposto al circo Knie alcune variazioni di entrée storiche, come quella dei piatti che si rompono o quella in cui gioca con una chiazza di luce sull’arena (con un richiamo a Pierre Étaix e a Dimitri, due grandi clown da poco scomparsi, e prima di loro a Oleg Popov). In generale, ha mostrato la sua grande abilità nell’intuire e nel leggere le reazioni del pubblico, fino a tirare fuori il clown che dorme dentro ogni spettatore.
modern-times-1Lo spettacolo del circo Knie si chiama Smile, come la famosa canzone composta da Charlie Chaplin (uno dei maestri di ogni clown, e il modello di riferimento per eccellenza dello stesso Larible). Chaplin scrisse questa melodia per il film Modern times del 1936, in un’epoca in cui era ancora indeciso fra il cinema muto e quello sonoro. Le parole, che invitano a sorridere nonostante le avversità, vennero aggiunte più tardi da John Turner e Geoffrey Parsons. Ma prima di farvi ascoltare Smile (ne trovate mille versioni su internet), voglio condividere con voi una canzone che per me ha una funzione simile: When you’re smiling, con la voce di Billie Holiday. È un brano che, in qualche modo, riecheggia l’invito di tutti i clown del mondo: si può sorridere nonostante. Nonostante le difficoltà, nonostante il tempo che ci corrode, nonostante la morte. Ci vuole coraggio. Ma ci si può provare.
Billie Holiday conosceva il dolore e la disperazione; eppure in ogni sua nota sapeva agguantare l’equilibrio e l’eleganza dello swing, insieme alla profondità del blues (sebbene abbia inciso pochi veri e propri blues, si può dire che la sua voce sia intrisa di quel sentimento).
Quando ascolto le canzoni di Billie Holiday degli anni Cinquanta – scrive Murakami Haruki – sento che lei prende su di sé in blocco tutti gli sbagli che ho commesso fino ad oggi, tutte le ferite che ho inferto finora a tante persone. Non si tratta di una cura, precisa l’autore giapponese, perché non è qualcosa che possa essere curato. Perdonato però sì, semplicemente perdonato.

When you’re smiling non risale agli anni Cinquanta, ma è del 1938: Billie Holiday non è ancora troppo incrinata dalle droghe e dalla malattia. Però si ha davvero l’impressione che la sua voce accolga la sofferenza, che in qualche modo sopporti il male e che cerchi di orientarlo verso un possibile perdono. A 2.04, è magistrale e carico di consapevolezza anche l’assolo al sax tenore di Lester Young, amico fraterno di Billie Holiday. «When you are smiling, the whole world smiles with you», canta Billie. E il mondo davvero sorride. Non so se lo vediate o meno, ma fa veramente un gran sorriso.

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PS: Le parole di David Larible provengono dal volume Consigli a un giovane clown, scritto con Massimo Locuratolo e Alessandro Serena e pubblicato da Mimesis nel 2015. Dallo stesso volume proviene il ritratto di Gianluigi Di Napoli, che raffigura Larible al Ringling Bros. and Barnum and Bailey Circus, il maggior circo degli Stati Uniti. Le parole di Murakami (autore anche dell’ultima frase dell’articolo) sono tratte da Ritratti in jazz, scritto nel 1997 e pubblicato in italiano da Einaudi nel 2013. L’immagine con Charlie Chaplin è un fotogramma del film Modern times. L’uomo sorridente (vedi sopra) è un’opera della fotografa tedesca Aenne Biermann (1898-1933), composta prima del 1930 e intitolata Lächelnder Mann (“Uomo che ride”); si trova nella Pinakothek der Moderne di Monaco, in Baviera.

PPS: When you’re smiling è una canzone scritta da Larry Shay, Mark Fisher e Joe Goodwin. La versione di Billie Holiday, con Lester Young al sax, è stata registrata il 6 gennaio 1938 a New York. Potete trovarla nella raccolta Billie Holiday + Lester Young: a musical romance (Columbia 2002). Gli altri musicisti: Teddy Wilson (piano), Buck Clayton (tromba), Benny Morton (trombone), Freddy Green (chitarra), Walter Page (contrabbasso), Jo Jones (batteria).

PPPS: Avevo già accennato qui a David Larible; qui, invece, parlo del rapporto che lega Billie Holiday e Lester Young.

PPPPS: Ecco infine anche Smile, in una versione incisa da Nat King Cole a Hollywood il 27 luglio del 1954.

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Carl Bagessen, nato in Danimarca nel 1858, andò a scuola fino a quattordici anni, conducendo una vita tranquilla. Poi conobbe il circo. Nel 1895 era contorsionista al Cirque Rancy, a Lione, con il nome di “Uomo-cavatappi”. In seguito sposò una giocoliera, alla quale faceva da spalla negli spettacoli. Un giorno, nel mezzo di un volteggio di piatti, lei gliene lanciò uno; lui lo mancò in maniera tanto comica che il pubblico scoppiò a ridere. Bagessen decise allora  di presentare un numero nel quale distruggeva il più grande numero di piatti immaginabile. Il debutto avvenne nel 1893, a Chicago: durante il massacro delle stoviglie, a complicare ulteriormente la situazione, un foglio di carta appiccicoso gli si attaccava alla mano, suscitando una serie di conseguenze catastrofiche. Per vent’anni Bagessen portò il suo numero in tutti i teatri di varietà del mondo. Tra un ingaggio e l’altro, lavorava in una fattoria di sua proprietà a Thuro, in Danimarca. Mi colpisce questa doppia vita. Chi mai sarà riuscito a immaginare, parlando con il contadino, serio e scrupoloso nel seguire le stagioni, nel contrattare i prezzi dei prodotti, che dietro quei lineamenti austeri si nascondesse l’imprevedibile clown, scintillante, giocoso? Ma la doppia vita potrebbe essere tripla: c’è chi dice che Bagessen fosse pure ingegnere, e che non si limitasse a costruire strumenti da circo ma che abbia inventato un sistema di aggancio per i tram, impiegato negli Stati Uniti.
FullSizeRender copia 3Quando si parla di clown, la realtà sconfina spesso nella leggenda. Mi viene in mente Little Walter, un augusto dalla vita mirabolante: conobbe il successo, poi venne mobilitato nell’esercito belga, durante la Prima Guerra mondiale, e svolse pericolose missioni confidenziali (grazie anche alla sua conoscenza delle lingue). Dopo la guerra, cominciò il declino. Little Walter era stato amico di re e potenti, direttore di circo, proprietario di terreni in Portogallo, di un Gran Café a Bordeaux e di aziende in Sudamerica. Non riusciva a sopportare l’insuccesso, tanto che cominciò a bere. Ebbe però un colpo di fortuna: vinse alla lotteria, in Portogallo, comprò un circo ambulante e ricominciò a sperare.
Mi fermo qui. Potrei andare avanti a lungo: da sempre amo i clown e le storie di clown. Ho una serie di libri e video sull’argomento, e tengo d’occhio le novità. Di recente ho comprato l’autobiografia di Achille Zavatta e, sull’onda, ho ripreso in mano un paio di “classici” dello storico del circo Tristan Rémy. Da quando sono bambino non ho mai perso uno spettacolo del Knie, il circo nazionale svizzero, e di sicuro quest’anno non mancherò al ritorno del clown David Larible (del quale ho letto di recente il volume scritto con Massimo Locuratolo e Alessandro Serena).
IMG_5494Qual è stato il mio primo imprinting? Non ci sono dubbi. Per me, nato e cresciuto nella Svizzera italiana, il miracolo della risata prendeva forma e colore nello smisurato sorriso, negli occhi scuri del clown Dimitri, con il candore del volto segnato da sopracciglia e lacrime nere. Ciò che amavo, anche inconsciamente, era la presenza reale del pagliaccio: non era un uomo che recitava un personaggio, ma era il personaggio stesso – il clown – che si serviva dell’uomo per giungere fino a me, per suscitare le mie risate e per mostrarmi l’inestirpabile anima fanciullesca del mondo. Non ho difficoltà ad ammettere di essere un artista che cerca il successo e cui fanno piacere gli applausi, scrisse lo stesso Dimitri. Ma è altrettanto vero che non mi tengo tutti gli applausi per me: parte di essi spetta al clown, al clown in quanto personaggio, in quanto archetipo. Spetta a quella creatura fatta di nostalgia, insieme ingenua e gioiosa, capace di strapparci a tutte le nostre pene attraverso una semplice risata. Come diceva il grande François Fratellini: Les acteurs font semblant, nous c’est pour de vrai. Gli attori fingono e i pagliacci invece no? Ma il trucco, la preparazione dei numeri, l’allenamento? Nell’ambiguità di questa affermazione c’è tutta la bellezza dell’essere clown, e anche il motivo per cui ne sono affascinato. Un clown non si limita a raccontare una storia, ma è la storia: esiste nel tempo in cui agisce, come afferma Pierre Étaix nel suo saggio Il faut appeler clown un clown.
IMG_5492Quando ieri mattina ho visto la notizia della morte di Dimitri, ho sentito risuonare dentro di me, uno dopo l’altro, tutti gli strumenti del suo indimenticabile L’homme-orchestre. Mi sono visto durante gli anni dell’infanzia, nel buio, sgranare gli occhi davanti alla gag della sedia a sdraio o alle evoluzioni sulla corda. E poi mi sono visto nello stesso buio da adolescente e da adulto, un po’ più vecchio, più segnato dal tempo, mentre il clown restava sempre eternamente giovane. Era come un promemoria, un monito perché non abbandonassi la fanciullezza, perché ne conservassi sempre, nel cuore e nella mente, qualche seme prezioso.
Copia di FullSizeRenderIl clown è sempre rimasto giovane, dicevo, ma l’uomo inevitabilmente è invecchiato, e oggi Dimitri non è più con noi. Abbiamo però non soltanto il ricordo, ma soprattutto la permanenza della felicità. I pagliacci non suscitano solo una breve risata liberatoria; quando sono bravi, smuovono emozioni profonde, creano cambiamenti che lasciano il segno. Sono convinto che uno dei motori ancestrali del clown, diceva Dimitri, sia suscitare l’amore attraverso il riso. Esiste forse felicità più grande? C’è un acquerello di Dimitri in cui si vede il clown mentre sale una strada, portando sulle spalle un grande cuore. Il paesaggio è disseminato di pericoli, di cose minacciose, ma a prevalere è il sorriso del clown, la sicurezza consumata con la quale solleva il suo e il nostro cuore.
FullSizeRenderIl clown – insieme rivoluzionario e conservatore, come lo definisce David Larible – mi è d’ispirazione anche nella scrittura. Dimitri raccoglieva le idee per le sue gag nella vita quotidiana, come pagliette d’oro nella sabbia di un fiume. Anche a me piace lavorare in questo modo, cercando di mostrare ciò che si annida dietro la quotidianità. Lo stesso Dimitri, poi, confessava: ci sono delle gag che io non so ancora perché facciano ridere. Mi riconosco in questo segreto che permane dietro ogni costruzione, dietro ogni tecnica per suscitare effetti. Alla fine ogni risata, così come ogni altro aspetto della nostra umanità, è un mistero.
FullSizeRender copia 2Concludo citando una famosa gag del clown svizzero Grock. Dopo aver rivelato al suo partner Max di possedere un misterioso strumento di nome wztdhp, comincia a descriverlo. Tuttavia Max non capisce niente: il congegno musicale è formato da vari pezzi, presi da vari strumenti, incastrati in maniera impossibile. Max s’innervosisce, proprio non riesce a capire come sia fatto questo tortuosissimo wztdhp.
– Con tutti questi pezzi non è più uno strumento, è un’intera orchestra! Ma insomma… alla fine di quelle corde, alla fine di quelle chiavi, di quella imboccatura, che cosa c’è?
– Formaggio – risponde Grock.
– Formaggio? – si stupisce Max. – E per fare cosa?
– Per mangiare.
Ecco, queste due parole mi sembrano splendide. Per mangiare. C’è dentro tutto: la fame atavica dell’augusto, il talento nel rovesciare la logica, il gusto per lo sberleffo, la sorpresa. Per fortuna che ci sono i clown, come Grock e come Dimitri, a ricordarci che il mondo è più vasto di ogni nostra definizione e che, pertanto, uno strumento musicale può servire anche per mangiare formaggio.

PS: Alcuni aneddoti di questo articolo provengono dal volume Les clowns di Tristan Rémy, pubblicato per la prima volta nel 1946 (in italiano nel 2006 dalle edizioni Robin); da Rémy ho preso anche il ritratto di Little Walter (opera di Bils, è la prima immagine dell’articolo). L’autobiografia di Achille Zavatta s’intitola Trente ans de cirque. Souvenirs et anecdotes, scritta nel 1953 e ripubblicata nel 2009 da Arléa. Il volume di Larible, Locuratolo e Serena s’intitola Consigli a un giovane clown (Mimesis 2015). Le citazioni e le immagini di Dimitri sono tratte da Il clown in me, l’autobiografia scritta con Hanspeter Gschwend e pubblicata nel 2004 da Rezzonico editore, e da L’oro dei clown, un’intervista a cura di Pietro Bellasi e Danielle Londei pubblicata nel 2006 dall’editore Danilo Montanari. L’acquerello si trova in Dimitri clown fantasy (Tipografia Poncioni, Losone 2005). Il volume di Pierre Étaix Il faut appeler clown un clown è stato pubblicato nel 2002 da Séguier Archimbaud con disegni dello stesso Étaix. Da questo saggio ho preso anche la frase di François Fratellini. La fotografia di Grock è tratta dalla sua autobiografia (scritta nel 1948, in italiano per Mursia nel 2006: La mia carriera di clown), mentre l’immagine che vedete sotto è di Herbert Leupin, per la tournée 1979 del Circo Knie. Per il momento è tutto, ma presto o tardi tornerò a parlare di clown…

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