Un altro mondo

#Rubruk2022 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli

Guglielmo di Rubruk partì nel 1253 per una lunga spedizione in Asia. Il suo Itinerarium, redatto in latino, è fra i più bei resoconti di viaggio che siano mai stati scritti. Basta leggerne poche frasi per trovarsi nel cuore dell’ignoto, oggi come ieri, desiderosi di conoscere ciò che è diverso da noi.

Rubruk
Divagazioni intorno ai viaggi di Guglielmo di Rubruk

Primo episodio.

1) «Il terzo giorno incontrammo i Tartari; quando arrivai fra loro mi sembrò davvero di entrare in un altro mondo».

Ci sembra di vederlo qui, davanti a noi, come se fosse vivo, questo frate di grossa corporatura, paziente, infaticabile. Un puntino scuro nella steppa immensa. Il 13 aprile 1253 Guglielmo era a Costantinopoli: intraprese il suo viaggio in compagnia di un confratello, un garzone, un chierico e un interprete. Il 7 maggio entrarono nel Mar Nero e il 21 maggio arrivarono a Sudak, dove dieci giorni dopo ripartirono a cavallo. Il 3 giugno incontrarono i Mongoli o, come venivano chiamati allora, i Tartari. Eccoli: da una parte il gruppo di soldati alteri, forse un po’ guardinghi; dall’altra il frate che si avvicina determinato, seguito dal suo interprete. Che cosa si saranno detti? Con quali parole avranno misurato la distanza fra due mondi? Sulle prime, Guglielmo sarà rimasto in silenzio, sprovvisto di parole. Un po’ come sta capitando a noi: ammiriamo la sua audacia e ancora, senza bisogno di dircelo, invidiamo il suo sguardo risoluto e al tempo stesso spalancato. Oggi sembra tutto più difficile: partire, viaggiare, meravigliarsi. Arrivare in un luogo che sia davvero lontano, davvero altrove. Dove si nascondono i Tartari? Dov’è l’assolutamente altro-da-noi? Mentre chiediamo due caffè in un chiosco della stazione di Zurigo, inciampando nel tedesco, il plexiglas che ci separa dal cassiere riflette appena le nostre facce. E subito, mentre azzardiamo un «Dankeschön» a mezza voce, i lineamenti intravisti ci ricordano quanto siamo estranei anche a noi stessi, accoccolati nell’idea provvisoria di un pronome che per comodità evitiamo di interrogare. Così, per strapparci alla paura e ai pregiudizi, cerchiamo di stare più attenti a noi e agli altri nel caos della stazione, sul treno, sulla strada verso casa. È sufficiente un soffio dell’audacia di Guglielmo e di quello sguardo aperto, senza filtri. Allora si va davvero lontano, davvero altrove. E i nostri occhi si riempiono di figure altere, forse un po’ guardinghe, che ci cambiano la vita.

2) «Quando posano a terra le case dove abitano, rivolgono sempre la porta a sud».

Per quanto possa sembrare strano, portarsi appresso la propria casa come se fosse uno zainetto da viaggio ha i suoi vantaggi. Alcuni gasteropodi hanno sperimentato un notevole numero di varianti nel corso dell’evoluzione, senza lesinare nell’impiego di risorse e con eccellenti risultati. In fondo, per quanto riguarda noi umani, l’importante è che lo zainetto racchiuda quell’insieme di voci condivise, di pazienza, di affetto, quel groviglio di cose e persone che per brevità chiamiamo “casa”. Nelle notti più aspre, poi, quelle fredde e tenebrose in cui tutto sembra perduto, basta orientarsi verso sud. Non si tratta di leggere il cielo e le stelle: è un istinto. Giri su te stesso con gli occhi chiusi finché l’aria ti riscalda il petto, la promessa di sole ti chiama per nome e in lontananza senti ricominciare il discorso più antico del mondo, il mormorio di quelle onde che tante volte hai osservato senza uno scopo preciso.

PS: Le frasi in grassetto sono tratte dall’Itinerarium di Guglielmo, secondo l’edizione stabilita da Paolo Chiesa in G. di Rubruk, Viaggio in Mongolia, Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2011. Spesso abbiamo usato la versione italiana dello stesso Chiesa; qualche volta abbiamo invece tradotto noi stessi dal testo latino.

PPS: Negli anni fra il 1237 e il 1242 un’orda di guerrieri mongoli avanzò verso l’Europa. I Tartari, come venivano chiamati, si spinsero in Russia, Polonia, Boemia, Ungheria, devastando città e villaggi. L’esercito arrivò fino all’Adriatico e si ritirò soltanto alla morte del comandante Ögedei Khan. Qualche anno dopo, nel 1253, il re di Francia Luigi IX decise d’inviare un ambasciatore verso le steppe, per tentare qualche relazione con i Mongoli. Il sovrano si affidò a un frate fiammingo, Guglielmo di Rubruk, che viaggiò per due anni nei territori dell’Asia Centrale fino a Karakorum, dove risiedeva il Gran Khan Möngke. Guglielmo, capace di percorrere grandi distanze in poco tempo (più di dodicimila chilometri in totale) era colto, robusto e dotato di buon senso. Sapeva parlare con i re e con i poveri, con un monaco buddista o con uno sciamano, con un soldato o con un prigioniero. Era aperto e curioso nei confronti delle lingue, delle usanze, delle abitudini dei popoli stranieri. Il suo Itinerarium è uno dei più bei libri di viaggio medievali (e anche oltre).

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Il mistero della casa

LIBRI IMPOSSIBILI (FEBBRAIO)
#libriimpossibili2021 è un progetto ideato e scritto da Yari Bernasconi e Andrea Fazioli

Lucio Costa, Casa mia, Ed. Spirito Giallo, 2020, 182 pagine

Quarta di copertina
«Un terribile omicidio viene commesso in una villa immersa nella campagna piemontese. La polizia è alle prese con un torbido intrigo di famiglia. Sembrano le premesse per una classica vicenda poliziesca, ma questa volta a raccontare la storia è un personaggio fuori dall’ordinario: la casa in cui è avvenuto il delitto. L’insolito punto di vista consente all’autore di sviluppare una trama ricca di colpi di scena e nello stesso tempo di scavare nella psicologia dei personaggi. Un lavoro di assoluta originalità nel panorama del nuovo giallo italiano e non solo».

Lucio Costa è nato a Sorengo nel 1994 ed è cresciuto a Lugano. Dopo il liceo, si è trasferito in Piemonte per gli studi in letteratura comparata e comunicazione. Attualmente vive a Torino, dove lavora come copywrighter. Casa mia, il suo esordio narrativo uscito nel 2020 per Spirito Giallo, è stato presentato da Luca Crovi nel quadro del Cureggio Noir Festival. Ne hanno parlato Nanni Canconi sul quotidiano “La Stampa” e Gianni Biondillo sul blog “Nazione Indiana”. Il romanzo sarà pubblicato in Francia dalla prestigiosa casa editrice Flammarion.

Tre domande all’autore

YB+AF: Lucio Costa, il primo aspetto che colpisce del suo romanzo è naturalmente la prospettiva narrativa, affidata dall’inizio alla fine agli “occhi” della casa in cui avviene l’omicidio dell’avvocato Pirello. Un approccio originale che crea anche una particolare suspense: alcuni avvenimenti restano sconosciuti al lettore per il semplice fatto che avvengono fuori casa, mentre altri dettagli minimi e quotidiani (e forse secondari ai fini della trama) vengono raccontati con grande dovizia. Come è giunto a questa scelta o “soluzione” narrativa?
LC: Stavo lavorando al romanzo con un punto di vista più tradizionale, ma avevo l’impressione di scrivere l’ennesimo giallo con il solito poliziotto, la scientifica e via discorrendo. In quel periodo stavo leggendo Here, una graphic novel di Richard McGuire in cui l’autore compie un esperimento narratologico dove una sola stanza di una casa viene mostrata in diverse epoche temporali, delineando una storia che procede dalla preistoria(prima che la casa venisse costruita, ma lo “spazio” già c’era) fino al 2111. Mi sono detto: è come se fosse la stanza a raccontare la storia! Allora ho impostato il romanzo diversamente, seguendo il flusso di una voce che è nello stesso tempo tutti i personaggi e nessuno di loro. La casa è il destino: il luogo della disperazione ma anche la tensione verso un ritorno, verso la pace. Scrivendo avevo in mente pure il capolavoro di Perec, La Vie, mode d’emploi, in cui vene rivelata per segmenti la vita di tutti gli abitanti di un palazzo. Nel mio romanzo la casa è la narratrice e, in un certo senso, anche la “persona” che compie l’indagine. In questo modo, seguendo l’ispirazione di Perec, ho cercato di raccontare non solo i fatti brutali del poliziesco, ma anche il flusso della quotidianità, quella che Perec chiamerebbe l’infra-ordinaire.
YB+AF: Nel romanzo ci sono effettivamente diversi riferimenti alla letteratura francese. La proprietaria della villa, per esempio, è una seguace della patafisica, la scienza dell’immaginario inventata da Alfred Jarry; le sentenze dell’anziana signora, sempre sul filo dell’assurdo, fanno da controcanto cinico alla narrazione, con molta ironia. Poi c’è Marcel Proust, con l’epigrafe tratta proprio dalla Ricerca del tempo perduto: «L’essere che sarò dopo la morte non ha maggior ragione di ricordarsi dell’uomo che io sono dalla mia nascita in poi di quanta ne abbia quest’ultimo di ricordarsi di ciò che sono stato prima di nascere» (dalla trad. di Maria Teresa Nessi Somaini)…
LC: La cultura francese ha cominciato ad affascinarmi all’università. Ho scoperto autrici e autori con cui ancora oggi trascorro molto del mio tempo. Della citazione in esergo non posso dire molto, visto che gioca un ruolo chiave nell’intera vicenda. Ma posso dire che a lungo ho riflettuto se aggiungere una seconda citazione di Perec, una frase che avevo stampato e tenuto accanto al computer durante i mesi di stesura del romanzo: «Vivere è passare da uno spazio all’altro, cercando il più possibile di non farsi troppo male». Anche in questo caso, chi leggerà il libro capirà. Quanto alla patafisica, be’, è una delle cose più spassose che io conosca: non poteva mancare nel mio primo libro. È anche un modo per fare un passo indietro, non dimenticare che basta poco per prendersi troppo sul serio e credere di avere la verità in tasca. Errore imperdonabile, credo, per chi scrive.
YB+AF: Lei è nato e cresciuto nel Canton Ticino. Che rapporto sente di avere, oggi, con la Svizzera italiana? Cosa rappresenta questo territorio, per lei?
LC: Mia madre è svizzera (di Lucerna) e Lugano è la città in cui ho scoperto il mondo. Dopo il liceo mi sono trasferito a Torino. Da qualche anno anche i miei genitori abitano in Piemonte, ma i miei legami con la Svizzera italiana sono rimasti forti. In Ticino ho molti amici e infatti mi capita di tornare spesso. Inoltre il mio “imprinting” è segnato anche dagli scrittori ticinesi e dagli eventi culturali locali. Ricordo per esempio che in prima o seconda liceo, al festival “Tutti i colori del giallo”, conobbi le autrici Margherita Oggero, che è di Torino, ed Elisabetta Bucciarelli, che ho poi rivisto spesso in varie rassegne. Forse proprio in quell’occasione decisi che prima o poi avrei provato anch’io a scrivere un romanzo poliziesco.

Un estratto dal libro
(clicca qui per leggerlo in pdf)

[…]
– Non credo che sia in ufficio.
– Ma allora dov’è?
– Non lo so.
– Andiamo a vedere.
Il commissario Bardi e il suo subalterno uscirono dalla porta sul retro e ripresero a parlare, gesticolando, troppo lontani perché potessi sentirli o vederli.
E Anita? Rientrai dentro me stessa: la donna sedeva sulla poltrona del salotto, gli occhi cerchiati di stanchezza. Nella sua grigia disperazione insisteva a mostrarsi determinata, quasi gelida. “Sei lontana”, le aveva detto Marco prima di andare dal notaio. Si erano abbracciati senza enfasi. Io mi ero concentrata, avevo chiuso mentalmente tutte le finestre. Pensavo di cogliere almeno un segnale, un filo di complicità. Nulla: sembravano a un punto di non ritorno.
Ora Anita aveva rilassato le spalle e curvato leggermente la schiena. Lo sguardo però sempre immobile e teso. La polvere girava nel vuoto e pensai che per gli umani la morte arriva di colpo, come un pensiero involontario. Le maschere vengono a cadere. Le convenzioni e i sorrisi di facciata, così come le relazioni superflue, si accartocciano e prendono fuoco. Gli umani cambiano, muoiono, nascono, fanno tutto così in fretta. Non stanno mai fermi.
Anita si alzò. Sentii la carezza della luce obliqua che illuminava gran parte del salotto. Cominciava a essere tardi. La donna spostò i bicchieri e la brocca sul vassoio e portò tutto in cucina. Percepii il peso del suo passo, rigido come quello di un automa. Continuava a esibire indifferenza, anche ora che si muoveva sola nelle stanze silenziose. Passò due volte vicino allo stipite dove nemmeno tre giorni prima aveva trovato il cadavere dell’avvocato Pirello. Il “suo” avvocato, diceva Marco quando parlavano di lui.
Io mi rilassai. Feci un giro rapido dei locali, lasciandomi cullare dall’ultimo sole. Sentivo il calore sulle finestre e sulle tegole del tetto. Presto sarebbe tornata la gatta.
Poi suonarono alla porta.

[Dal capitolo III, pp. 56-57]

***

NB: Per questioni meramente giuridiche (legate ai diritti editoriali dell’opera), non siamo purtroppo autorizzati a pubblicare in questa sede la copertina del libro. Vi invitiamo a cercare il volume nelle librerie o nelle biblioteche.

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Tutto accade a me

Dov’è casa mia? Domanda insidiosa. Nei miei giochi da bambino facevo costruire a vari personaggi elaborate abitazioni di mattoncini. Poi, quando la situazione era stabile, di colpo distruggevo tutto per poter ricominciare dal desiderio di una casa.
Oggi nel mondo ci sono ottanta milioni di profughi, cui si aggiungono almeno centosessanta milioni di persone senza dimora. Ho citato gli ultimi dati disponibili, ma le cifre sono di certo più alte; senza contare chi abita in un tugurio. È un privilegio avere delle pareti, un tetto sopra la testa. Se dispongo di un edificio nel quale vivere non è certo merito mio; tutto ciò che abbiamo – lavoro, denaro, relazioni, oggetti – non è mai compiutamente nostro. Credo che la mia inquietudine a proposito del concetto di “casa” sia legata a questo, ma anche alla scrittura, alla necessità di partire ogni volta dal vuoto per abitarlo con una storia.

Di recente la città di Lugano mi ha chiesto una citazione per un progetto contro l’ansia da Covid-19 (trovate qui i dettagli). Ho scelto una frase dal libro Il commissario e la badante (Guanda).

«Casa non è famiglia, non basta la famiglia, casa non è patria, e neppure sicurezza o lavoro o figli da crescere. È un luogo ideale a cui appartenere; un territorio vasto, dove ci si può perdere, ma nel quale riconoscere i punti di riferimento dell’amicizia, della condivisione, della tenerezza.»

Anche dopo aver trovato una casa, bisogna continuare a cercarla. I protagonisti del libro vivono questa tensione verso un modo di abitare più compiuto, seguendo un filo conduttore che unisce i vari racconti. Un vecchio ex commissario di polizia, non più del tutto autosufficiente, assume una badante tunisina. Fra i due personaggi c’è una spaccatura: lui anziano e lei giovane; lui scettico e lei musulmana; lui benestante, proprietario di un appartamento e lei migrante, strappata alle sue radici. Il riconoscimento dell’alterità è un gesto difficile, perché l’istinto suggerisce di eliminare la differenza. Ci sono molteplici reazioni: ignorare l’altro, limitarsi a tollerarlo (ma senza volerlo conoscere), fingere che non sia diverso (rinunciando al concetto stesso d’identità), respingerlo o aggredirlo.
Invece la differenza è vitale. È proprio grazie a essa che un rapporto diventa dinamico. Così succede ai miei personaggi: i punti di vista dell’uno e dell’altra, per forza limitati, si arricchiscono a vicenda. E io? Quando trovai i personaggi, avevo in mente due individui distanti fra di loro, senza riflettere sul fatto che entrambi erano distanti anche da me. All’inizio non fu semplice: la tentazione, pure quando si scrive, è sempre quella di rifugiarsi in una casa conosciuta. Poi però, racconto dopo racconto, mi sono affidato agli occhi di Zaynab Ammar che incrociavano quelli di Giorgio Robbiani.
Questo incontro ha mutato anche il mio modo di narrare. Proprio per questo nelle storie affiorano stili diversi (dall’umorismo alla tensione drammatica) e generi diversi (dal poliziesco al racconto minimalista). Anche i luoghi, dalla Svizzera italiana a Milano, da Zurigo alla Toscana, appartengono alla mia vicenda personale, rinnovata dalle vite di Zaynab e Robbiani. Le loro vicissitudini, le loro sofferenze e le loro gioie diventavano le mie. In un certo senso tutto è accaduto a me: la perdita della moglie dopo anni di matrimonio, lo sbarco in Europa, la stanchezza della vecchiaia, il prendersi cura di un estraneo, la paura, la curiosità, l’accettazione della propria fragilità. Tutto continua ad accadere: anche se ho concluso la serie di racconti, Zaynab e Robbiani continuano a vivere in chi legge il libro… e di tanto in tanto tornano nei miei pensieri.
Everything Happens to Me (“tutto accade a me”) è il titolo di una canzone del 1940, scritta da Tom Adair (parole) e Matt Dennis (musica). Diventata uno standard del jazz, venne interpretata da numerosi musicisti e cantanti, da Bill Evans a Sonny Rollins, da Ella Fitzgerald a Billie Holiday, da Thelonious Monk a Gerry Mulligan, Stan Getz, Joe Pass e altri ancora. Di recente ho ascoltato la versione del saxofonista Tina Brooks, che mi avvince in maniera particolare.

Brooks indugia nella melodia, con un suono caldo e insieme un po’ ruvido, accompagnato da grandi musicisti: Lee Morgan alla tromba, Sonny Clark al piano, Doug Watkins al basso e Art Blakey alla batteria. Le frasi di Brooks mostrano un musicista consapevole, capace di pensiero logico e di arguzia (per esempio nella cadenza finale). Ciò che mi colpisce è pensare che il brano, inciso nel 1958 per l’album Minor Mood (Blue Note), uscì soltanto nel 1980 in Giappone, sei anni dopo la morte di Brooks.
È malinconica la vicenda di Harold Floyd “Tina” Brooks (Fayetteville, 7 giugno 1932 – New York, 13 agosto 1974). Amato e stimato da molti altri musicisti, non ebbe mai la piena fiducia della sua casa discografica. Nonostante la sua indubbia bravura, venne tenuto all’ombra: suonò nei dischi degli altri, ma registrò pochissimo a suo nome (e ancora meno venne pubblicato). Questo accadde forse a causa del suo carattere schivo, della sua incapacità di imporsi; era sicuro di sé solo quando suonava. Fin da bambino non si sentiva a suo agio in mezzo agli altri. Quando la sua famiglia si trasferì a New York, nel 1944, il dodicenne Tina non riuscì a legare con nessuno, venne isolato e maltrattato dai suoi coetanei, tanto che lo rimandarono a Fayetteville, in una famiglia di parenti, fino al 1949. Registrò per l’ultima volta in studio nel 1961, poi divenne sempre più dipendente dall’eroina. Morì di un’insufficienza renale nel 1974, ormai ridotto a mendicare per vivere. Ecco, per Tina Brooks, per chi viene lasciato indietro, per chi si ritrova sulla strada, per chi sente il taglio della solitudine, della disperazione, per tutti loro – anche se magari non serve a niente – cerco di non sentirmi mai troppo a casa. Soprattutto quando scrivo.

PS: Il primo video di questo articolo è il “booktrailer” realizzato da Alessandro Tomarchio. Trovate qui altre informazioni su Il commissario e la badante e qui le date delle prossime presentazioni.

PPS: Di recente ho traslocato. A mezza via mi sono trovato in bilico tra due case vuote, o semivuote; le fotografie che illustrano l’articolo sono state scattate durante questa esperienza di sospensione esistenziale.

PPPS: I dati sui profughi provengono dall’ACNUR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. I dati sui senza casa sono tratti da uno studio della Yale University.

 

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Il vento giusto

CARTOLINE (APRILE)

“Cartoline” (#cartoline2020) è un progetto ideato e scritto da Yari Bernasconi e Andrea Fazioli.

CARTOLINA NUMERO 13
Da una casa vuota
Il vuoto occupa la maggior parte dello spazio: fra le galassie o intorno al nucleo delle cellule, nei lunghi pomeriggi dell’infanzia o della vecchiaia, nei nostri pensieri quando crediamo di non pensare… Ma nel vuoto, se prestiamo attenzione, troviamo sempre qualcosa. Anzi, la tensione verso la pienezza vibra spesso nelle giornate più pigre, quando ci sembra di non avanzare. E infatti eccoci qui. I locali della casa vuota, bianchi, spogli, privi dei segni lasciati dalle abitudini, possono rappresentare bene la fine di una storia. Così ci aggiriamo sperduti fra le stanze, quasi in punta di piedi, timorosi di turbare il silenzio perfetto dell’assenza. Ma come non scorgere allo stesso tempo i segni di una rinascita? Il taglio della luce sul pavimento, le finestre aperte, il canto sommesso degli uccelli, l’odore della vernice. Ogni casa vuota è anche una promessa.

CARTOLINA NUMERO 14
Da Tempelhof, Berlino, GermaniaSiamo sulla pista dell’aeroporto. Poco lontano emerge un edificio immenso: nelle intenzioni dei nazisti doveva diventare uno dei più grandi del mondo, forse il più grande di tutti. Camminiamo tra l’erba e l’asfalto. Tira il vento giusto. Gli aquiloni volano alti, sopra le teste delle famiglie con il pic-nic.

CARTOLINA NUMERO 15
Dall’isola di Robinson Crusoe, nell’Oceano Atlantico
Se stai leggendo questa cartolina è perché hai trovato la bottiglia che – chissà quanto tempo fa – abbiamo gettato fra le onde, con la speranza che le parole non si perdessero. Su quest’isola naufragò il marinaio Robinson Crusoe il 30 settembre 1659, e qui restò per ventotto anni, «circondato da ogni parte dal mare». Ogni tanto lui la chiamava «Isola della Speranza», ogni tanto «Isola della Disperazione». Se ci si industria per sopravvivere, il posto non è malaccio: acqua fresca, prati, boschi, spiagge, montagne, cacao, aranci, limoni, cedri, tabacco, frutti e animali di ogni genere. Certo, per quanto ci sentiamo al sicuro, anche a noi un giorno accadrà «con enorme sorpresa di vedere sulla spiaggia l’impronta di un piede umano scalzo». Ci riempirà di paura, perché scopriremo che l’altro, il diverso, non viene dall’esterno ma è già qui, nel cuore del nostro territorio. Lo straniero affiora dentro di noi. È un frammento sconosciuto del nostro io. Avremo il coraggio di accoglierlo?

CARTOLINA NUMERO 16
Da Hirschengraben, Berna, Svizzera
In questo fosso, che non è un fosso ma una piazza, hanno scorrazzato per 120 anni cervi e altri animali, fino al 1877. Ora scorrazzano creature non meno curiose, bipedi che paiono sempre affaccendati: si fermano circospetti al bar, rapidamente bevono e pagano, sbirciano l’orologio, sbuffano a cadenze regolari, entrano infine nella carrozza di un tram rosso che sul tabellone porta l’indicazione “Saali” (e una volta giunti al capolinea, con ogni probabilità, “Sceendi”). L’unico a rimanere immobile e impassibile è Adrian von Bubenberg, dall’alto del suo bronzo. Anche noi non ci fermeremo molto: il tempo di scriverti e di lisciarci le penne per la prossima migrazione.

PS: Potete leggere qui le prime quattro cartoline, qui le cartoline dalla quinta all’ottava e qui le cartoline dalla nona alla dodicesima.

PPS: Adrian Von Bubenberg (1424-1479) è un personaggio storico che si è guadagnato una statua in Hirschengrabenplatz. Le citazioni da La vita e le avventure di Robinson Crusoe sono tratte dall’edizione italiana a cura di Ludovico Terzi, pubblicata da Bompiani nel 1985. La versione originale di Daniel Defoe risale al 1719. La fotografia storica di Hirschengraben proviene da internet.

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