C’è qualcuno in ascolto?

Di recente ho subito un piccolo intervento chirurgico all’ospedale di Bellinzona. Ho avuto a che fare con persone efficienti e gentili prima, durante e dopo l’operazione. Ho scritto “durante”, anche se in quel momento non ero lì: in seguito all’anestesia totale, quella parte del mio io in grado di percepire la propria presenza si era ritirato in una zona d’ombra. M’immagino che fosse dentro una casa dalle pareti di sasso, in una valle scoscesa. Intorno alla casa un recinto nero, le montagne, i boschi sempre più silenziosi mentre tutto si fa buio e, dalla terra, lentamente sale l’umidità.
A che cosa ho pensato, nel profondo di quella valle, nei recessi di quella dimora isolata? Non lo so, non conservo nessuna memoria. Quando l’io si è ricongiunto al corpo, dopo aver registrato la presenza della luce, ha subito cercato di ricostruire che cosa fosse accaduto. Era il mattino del giorno in cui mi sarei fatto operare o era appena avvenuta l’operazione? Subito la seconda ipotesi si è imposta come un’evidenza. Allora ho cominciato a parlare, in maniera bizzarra. Di solito sono una persona abbastanza taciturna, e quando mi succede qualcosa d’importante non mi riesce facile comunicarlo a chi mi sta intorno. Invece in quell’occasione ho cominciato a prendere appunti a voce alta, un po’ come fanno gli esploratori spaziali nei film di fantascienza.
«Mi trovo in un letto, non sento dolore. Dalla mia posizione riesco a vedere un altro letto, di fronte a me, e un computer sulla sinistra. Una donna siede al computer. Qualcuno più in là sta parlando di Alberto Sordi. Il soffito sembra diverso da quello che ho visto prima di addormentarmi…» Insomma, una sorta di delirio. Non so sa dove provenisse; forse era la continuazione di un sogno nato nel cuore della narcosi. Ho recitato dei versi, ho provato a fare dei calcoli, ho risposto di sì a chi mi chiedeva se andasse tutto bene. Avranno pensato che ero strambo… e come dare loro torto? A un certo punto ho detto: «In questo momento, sembra che nessuno mi stia ascoltando». Allora una voce femminile, vicino al computer, ha risposto: «Io ogni tanto la ascolto».
Questa frase mi ha colpito. In quel momento non stavo cercando di comunicare qualcosa di preciso, anzi, stavo parlando più che altro a me stesso. Eppure il fatto di sapere che qualcuno mi ascoltava mi ha riempito di riconoscenza: ciò che mi confortava era il fatto stesso che la mia voce venisse captata nel suo fluire non sempre coerente. Era qualcosa che andava oltre le funzioni tradizionali del linguaggio: non importava il codice, il messaggio, il mittente o il destinatario, quanto il fatto stesso che le parole trovassero un’accoglienza.
Ecco un luogo comune: oggi manca la capacità di ascoltare. Davvero? Eppure fioriscono gli spazi di trasmissione, tutti siamo incentivati a “esprimere noi stessi”. Non si è mai scritto tanto. Basta entrare in un social network, annotare qualunque cosa ci passi per la testa e di sicuro qualcuno ascolterà. Si potranno criticare i contenuti dei commenti, la loro superficialità, la loro grossolanità, ma di certo le chat sono lì a dimostrare che la gente legge ciò che gli altri scrivono. Qual è il problema, allora? Forse il fatto che l’ascolto si limita al contenuto primario.
Quando parliamo, non ci basta che gli altri afferrino il senso delle nostre parole, ma nel profondo desideriamo che accolgano interamente la nostra voce, le sue sfumature, le ripetizioni, quel senso di comunicazione che nasce prima del linguaggio codificato, prima di ogni contenuto razionale. Ci vuole tempo e pazienza, sia dalla parte di chi parla sia dalla parte di chi ascolta. È la voce della madre che arriva al bambino, sono i balbettii del bambino che la madre capisce senza capirli, nella storia del tempo condiviso.
Ritrovo questo desiderio anche nel mio mestiere di scrittore. Ciò a cui lavoro non è la costruzione di un significato da trasmettere, ma la ricerca di una voce che mi appartenga e che, nello stesso tempo, mi superi. Ogni singolo testo ha la sua ragione, spesso legata a una contingenza. Non si tratta tuttavia di esprimere un punto di vista, quanto di rispondere a una necessità più vitale e più segreta. Scrivere è mettermi all’ascolto, prima di tutto, perché una voce può levarsi solo all’interno di un dialogo.

In questi giorni sto ascoltando il disco Americana di JD Allen. Il musicista riprende un classico blues: Another man done gone. Il brano venne registrato all’inizio degli anni Quaranta, quando l’etnomusicologo Alan Lomax incise la voce di Vera Hall (1902-1964), una donna dell’Alabama. Il blues fa riferimento alle cosiddette “chain gang”, le terribili squadre di lavoratori neri legati alla catena. La voce profonda del sax di Allen non solo rende omaggio a Vera Hall, ma nella ripetizione rinnova quel dolore, quello strazio, quell’anelito di libertà. La musica è ricorsiva e insieme originale, antica e nuova, come ogni storia che valga la pena di ascoltare. Di chi è quella voce? Di Vera Hall, di JD Allen, di tutti gli afroamericani, di chiunque si metta all’ascolto con attenzione. In questo modo, fra l’altro, la voce non è più solo un lamento, ma una vera e propria forza vitale. JD Allen stesso, nel libretto, cita una frase dell’autore Albert Murray: «The blues is not the creation of a crushed spirit people. It is the product of a forward-looking, upward-striving people» (“Il blues non è la creazione di un popolo dallo spirito distrutto. È il prodotto di un popolo che guarda al futuro e che tende verso l’alto”).

PS: Nell’album Americana (Savant Records 2016), insieme a JD Allen suonano Gregg August (basso) e Rudy Royston (batteria). L’interazione fra i tre musicisti, il loro scambio d’idee e di emozioni è un buon esempio di ascolto reciproco.

PPS: L’immagine con la madre e il bambino è un dipinto dell’artista svizzero Ferdinand Hodler (1853-1918) ed è intitolato Madre e figlio.

PPPS: In questo articolo la vicenda medica e autobiografica è solo uno spunto per riflettere sul senso dell’ascoltare. Ne approfitto comunque per esprimere un ringraziamento al dottor Ramon Pini e a tutte le altre persone che all’Ospedale San Giovanni si sono prese cura di me.

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Misterioso

Ero uno studente all’università di Zurigo quando un giorno, girando per le strade del Niederdorf, entrai in un negozio di dischi usati. All’epoca cominciavo a interessarmi di jazz, in maniera disordinata e curiosa. Così fui colpito dal nome di un pianista: Thelonious Monk. Non sapevo niente di lui, e credo proprio che comprai il disco per il nome (e forse per il bizzarro disegno sulla copertina, dove Monk appare con un casco da aviatore). Arrivato a casa, mi sedetti in balcone e ascoltai il disco. Non avevo nessuna competenza musicale, ma il suono di quel pianoforte mi riempì di meraviglia. A colpirmi furono la sua forza e insieme la sua lontananza. Quei trilli, quelle note ribattute, quelle dissonanze. Mi pareva di trovarmi in un altro mondo, somigliante al nostro eppure profondamente misterioso. Le melodie erano facilmente distinguibili, le canzoni avevano perfino qualcosa di antico… ma per me era tutto nuovo.
Misterioso è la parola giusta. Questo infatti è il titolo di uno dei brani più belli composti da Monk, registrato per la prima volta il 2 luglio del 1948 con il vibrafonista Milt Jackson. È un blues in dodici battute eppure, per la sua atmosfera surreale, è diverso da ogni altro blues. Questo a causa della melodia che marcia su e giù per la tastiera a scalini di sesta che sembrano un esercizio per principianti – scrive il critico John Szwed – ma soprattutto a causa dell’assolo di Monk, che lascia stupefatti per il suo rifiuto della logica convenzionale del blues. Le frasi sembrano chiudersi sempre su una nota sbagliata, gli intervalli scelti non sembrano quelli corretti, a un certo punto sembra addirittura restare indietro, suonando ripetutamente intervalli di seconda, dissonanti. Ogni volta che lo riascolto, mi sembra che non abbia perso niente della sua contemporaneità; del resto, anche il tocco di Monk al pianoforte è sempre unico e inconfondibile.


Sono passati cento anni dalla nascita di Thelonious Sphere Monk, avvenuta il 10 ottobre del 1917. (Sì, anche il secondo nome non è male.) Sposato e padre di due figli, Monk ebbe una vita difficile, a causa di una grave sindrome depressiva, intensificata dal consumo di alcol e stupefacenti. La moglie Nellie gli fu sempre vicina, così come altre persone; in particolare Nica, cioè la baronessa Pannonica de Koenigswarter, sua grande amica e protettrice, tanto che lo ospitò per gli ultimi dieci anni di vita (dal 1972 al 1982). A lungo Monk non fu curato nella maniera adeguata, e spesso i critici lo descrivono come un matto, un istintivo, uno che suonava le note sbagliate. Lui invece era profondamente consapevole della sua arte. Anche dopo che si era chiuso nel silenzio, durante gli anni Settanta, continuò a non apprezzare i giudizi dei critici (come quello da me citato sopra…). Nel 1976 gli accadde di sentire una trasmissione radiofonica, nella quale un musicologo dichiarava che Monk era un grande musicista nonostante suonasse le note sbagliate sul piano. Thelonious arrivò al punto da chiamare la radio e lasciare un messaggio, chiedendo che qualcuno dicesse a quel tizio in onda: “Il piano non ha note sbagliate”.
La musica di Monk non è sbagliata. È diversamente giusta. È come un pomeriggio di sole nel tardo autunno, quando a sederti in piazza pare di essere in estate, e ti rimbocchi le maniche e ti viene voglia di una birra, mentre la luce accarezza gli alberi nudi sui viali. In quei momenti ti piace stare in silenzio, fissando l’attenzione su qualcosa di piccolo e immediato: un riflesso sui vetri, il cigolio di un tram, il passaggio di un corvo sopra i tetti delle case. Il calore del pomeriggio è un abbraccio che fa vibrare qualcosa dentro di te, come una voce amica che ti raggiunge al telefono quando non te lo aspettavi. Mi sembra che tutto ciò, in maniera insondabile, sia racchiuso nella musica di Thelonious Monk.
A volte, quando scrivo e non capisco più a che punto sono, metto un disco di Monk. Come narratore, avverto la presenza di una piccola storia in ogni suo brano: ci sono gli imprevisti, i colpi di scena, la tensione dell’attesa e, nel momento giusto, il silenzio. Monk non amava gli effetti spettacolari, proprio perché sapeva bene – come ebbe a dire in un’intervista – che il silenzio è il rumore più forte del mondo. È famoso un suo silenzio in un’incisione di The man I love, registrata la vigilia di Natale del 1954 con Miles Davis alla tromba e con tre membri del Modern Jazz Quartet (Milt Jackson al vibrafono, Percy Heath al basso e Kenny Clarke alla batteria). Il pezzo comincia con il ritmo lento di una ballad, mentre Davis espone il tema; al minuto 1.21 Jackson parte con l’assolo e la band raddoppia il tempo. Quando è il turno di Monk, a 4.51, lui decide di esporre un’altra volta il tema; ma lo fa nel tempo originale, mentre gli altri continuano a doppia velocità. A 5.23, all’improvviso, Monk si ferma. Il basso e la batteria proseguono per nove battute, poi Davis richiama all’ordine il pianista con una frase suonata lontana dal microfono (5.36), quasi per esortarlo a proseguire. Monk allora si lancia in un’improvvisazione, finché a 6.02 Davis interviene con una frase decisa ripetuta quattro volte.

Su questo episodio si sono fatti molti pettegolezzi, anche perché, durante la stessa sessione, Monk aveva già dato qualche segno di stravaganza. Qualcuno dice che il pianista si fosse addormentato, qualcuno che si fosse alzato per danzare (come faceva spesso durante i suoi assoli), altri pensano che fosse andato in bagno o che si fosse smarrito e non sapesse più che cosa suonare. Altri ancora riferiscono di un litigio fra Monk e Davis (ma i due smentirono; e anzi Monk raccontò che quella sera fecero le ore piccole insieme). In realtà, se si ascolta la prima versione del pezzo, pubblicata in seguito, si scopre che Monk aveva fatto la stessa cosa, lasciando semplicemente una pausa più breve. La spiegazione più semplice è quindi che Monk avesse voluto quel silenzio. Inaspettato, certo. E, com’è giusto che sia, misterioso. Quando scrivo, o quando parlo, cerco sempre di ricordarmi che il silenzio è una modalità espressiva; non è soltanto una pausa fra i suoni o le parole, ma ha una sua consistenza e un suo significato.
In tanti hanno provato a definire la musica di Monk. L’autore giapponese Murakami Haruki, per esempio, la descrisse come ostinata e soave, intelligente ed eccentrica e, per una ragione che non capivo bene, nel complesso estremamente precisa. Una musica che aveva un’incredibile forza di persuasione su qualcosa nascosto dentro di noi. Molti provarono a interrogare lo stesso Monk, ma lui era un esperto nel dirottare le domande. Resta memorabile per esempio la sua ultima intervista, che ebbe luogo a Città del Messico in occasione del Festival internazionale del jazz del 1971. Così la racconta Arrigo Arrigoni in Jazz foto di gruppo (Il Saggiatore 2010).

PEARL GONZALES. «Oltre alla musica esiste qualcosa che la interessa?»
MONK. «La vita in generale.»
G. «E cosa fa in questa direzione?»
M. «Continuo a respirare.»
G. «Qual è secondo lei lo scopo della vita?»
M. «Morire.»
G. «Ma tra la nascita e la morte c’è molto da fare.»
M. «Mi avete fatto una domanda e io vi ho dato una risposta.»
Girò i tacchi, lasciando Miss Gonzales interdetta, per sempre.

Quanto a me, vorrei concludere ascoltando un brano che dura meno di un minuto. Il 26 giugno 1957, in un periodo difficile della sua vita, Monk era in studio per registrare con altri sei musicisti. Il giorno prima avevano inciso qualche brano, ma con grande fatica. La sera del 26 Monk si presentò con l’arrangiamento di un inno che aveva imparato da bambino, Abide with me. Monk adorava quella melodia, composta nel 1861 da William Monk (nessuna parentela) con il titolo Eventide. Dopo che il poeta Henry Francis Lythe ebbe scritto la poesia Abide with me sul letto di morte, le parole furono sovrapposte all’inno di William Monk. Di sicuro Thelonious le aveva in mente quando quella sera insistette perché i quattro fiati registrassero l’inno. Così lui tacque mentre Ray Copeland (tromba), Gigi Gryce (sax alto), John Coltrane (sax tenore) e Coleman Hawkins (sax tenore) suonavano Abide with me.

The darkness deepens; Lord with me abide, / When others helpers fail and confort flee, / Help of the helpless, O abide with me. (“Il buio si addensa; Signore, resta con me, / Quando non vale altro soccorso e fugge ogni consolazione, / Aiuto degli indifesi, resta con me”). Proprio questa registrazione, il 22 febbraio del 1982, accompagnò il funerale di Thelonious Monk. Oggi, a cento anni dalla sua nascita, Monk ancora ci insegna a cercare l’originalità vera, che significa fedeltà alla propria voce e disponibilità allo stupore. Come disse lui stesso, a volte suono cose che nemmeno io ho mai sentito.

PS: Le citazioni di Monk (nella foto qui sopra, a sinistra, con Dizzy Gillespie) e le parole di Abide with me provengono da Robin Kelley, Thelonious Monk. Storia di un genio americano, pubblicato nel 2009 e tradotto da Marco Bertoli nel 2012 per Minimum Fax. Il commento di John Szwed è tratto da Jazz! Una guida completa per ascoltare e amare la musica jazz, pubblicato nel 2000 e tradotto nel 2009 da Francesco Martinelli per EDT. La frase di Murakami viene da Ritratti in jazz, scritto nel 1997 e tradotto da Antonella Pastore nel 2013 per Einaudi. L’episodio legato a The man I love è raccontato anche da Franck Bergerot nel numero 699 (ottobre 2017) della rivista francese Jazz Magazine (Le jour où Monk eut un trou). La stessa rivista presenta un dossier per il centenario di Monk, con cento brani essenziali. Una discografia si trova anche nel volume di Kelley.

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Malinconia

Ormai il bollettino meteorologico non dimentica niente: mutamenti di pressione, sole, neve, ogni soffio di vento e ogni percorso di nuvole sono colti prima che nascano, annotati, divulgati, proiettati sotto forma di grafici e frecce colorate. Quello che ancora non si spiega né con le isobare né con l’anticiclone delle Azzorre sono gli improvvisi passaggi della malinconia. Senza cause scientifiche, senza ragioni apparenti eccola che ci raggiunge, nel cuore di un mattino sereno oppure verso sera, all’imbrunire.
IMG_9108In questi casi c’è poco da fare, bisogna attendere che passi. La radio non aiuta e alla tivù non ci sono fanciulle sorridenti che annunciano il ritorno del sereno. Ognuno ha i suoi mezzi non dico per combatterla – è assai difficile – ma almeno per tenerla a bada. Io per esempio, specialmente se arriva di pomeriggio, faccio qualche nota lunga con il saxofono. Non è una vera e propria melodia: a volte poi provo qualche brano, a volte mi limito alle note lunghe. Di solito è la prima parte del mio allenamento, e serve a cercare un timbro, a misurare l’efficienza dell’ancia e la posizione del bocchino. Mi metto in un angolo del mio studio, in modo che le pareti riflettano il suono e possa giudicarne la sostanza: se pieno, limpido, affannato, ricco di armonici o esitante, soffiato, liquido, sghembo. Piano piano, una nota dopo l’altra, cerco di trovare una voce che mi assomigli.
IMG_9109Dal profondo dell’addome, passando per i polmoni e per la gola, il respiro si propaga attraverso il sax, e raggiunge una tonalità, esprime un modo di essere. Se non so stare calmo, le note lunghe sono esitanti, si spengono subito. Allora mi concentro sui dettagli, sui millimetri di ancia e sulla mia posizione, sul fiato, sulla tastiera. Senza che me ne renda conto, per qualche minuto, la malinconia lascia spazio a un re bemolle basso, a un do diesis o a una nota sovracuta, raggiunta arrampicandomi in cima alla scala e poi buttandomi nel vuoto.
Non sono un bravo musicista; non lo sarò mai. Ma avventurarmi in queste terre ignote mi aiuta a tenere a bada i rannuvolamenti dell’anima, e m’insegna che per trovare una voce occorre fatica e ascolto. Soprattutto, bisogna accettare la propria fragilità. Così è pure quando scrivo, quando cioè mi esprimo nel mio campo: in quel caso, trovare una voce è un impegno necessario, al quale sto lavorando da anni, romanzo dopo romanzo. In fondo, se continuo a scrivere, è perché credo che questa sia la mia via d’accesso al mistero del mondo e di me stesso. Nella scrittura, la ricerca di una voce diventa condivisione della voce stessa, perché altri percorrano i paesaggi che ho esplorato nella mia solitudine.
IMG_9104Mi aiuta l’ascolto delle voci altrui. Nella lettura, naturalmente, ma pure nella musica. A volte il suono di un sax mi racconta cose di me stesso per le quali ancora non ho trovato le parole. In una delle sue prime poesie, scritta a ventun anni, Cesare Pavese evoca un’esperienza simile, vissuta durante una passeggiata. Fragorosa sul viale / ecco a un tratto l’orchestra si spegne. / Sull’orchestra in sordina, / canta spietato un saxofono rauco. // Fin la folla si arresta. / Le case indifferenti / gravano il cielo intorno. // Vibra la voce barbara. Il poeta sente che la musica frantuma i suoi pensieri, cancella la stanchezza e lascia l’anima come indifesa. È la mia voce stessa / che echeggia questa notte. / Nell’anima smarrita / canta alto, altissimo la solitudine / una canzone ubriaca della vita. / La stanchezza fuggita, non vivo per un attimo che all’urlo / modulato, esultante. / Tutta l’anima mia / rabbrividisce e trema e s’abbandona / al saxofono rauco. / È una donna in balia / di un amante, una foglia / dentro il vento, un miracolo, / una musica anch’essa.
Il saxofonista Billy Harper narra di aver sognato che stava camminando nella Settima Avenue di Manhattan; con sé aveva un vecchio mangiacassette vuoto. A un certo punto, dal cielo è scesa una gigantesca mano che gli offriva una cassetta. Allora Harper l’ha presa, l’ha inserita nel mangiacassette e ha udito sprigionarsi una melodia bellissima. In quel momento si è svegliato e subito è corso a suonare quella stessa melodia.

Il brano s’intitola If one could only see. Lo trovate nel disco The Roots of the Blues, in cui il pianista Randy Weston (nato nel 1926) suona in duo con lo stesso Billy Harper (nato nel 1943). Il disco è uscito nel 2013: nonostante Weston avesse ottantasette anni e Harper settanta, l’energia che i due sprigionano ha un impeto giovanile e una vitalità senza tempo.
IMG_9103Weston ha uno stile percussivo, intriso di blues in ogni tocco, mentre Harper, che viene dalla scuola texana (è nato a Houston), ha una sonorità rugosa e potente. In lui c’è una dimensione spirituale che ricorda Coltrane e nella quale riecheggiano anche le sue radici gospel. In più, quando Harper trova una nota lunga, ci si aggrappa e la spreme fino all’ultima goccia di sentimento, di significato, di speranza. Certe volte, alla fine della nota lunga, uno si volta a guardare e – come per incanto – non c’è più traccia della malinconia. Oppure, se la malinconia persiste, c’è la consapevolezza di non essere soli. Passando per la musica tutte le nostre malinconie si chiamano e si rispondono, come in un blues, e anche se il dolore rimane, almeno è un dolore condiviso.

PS: La lirica di Pavese fa parte della piccola suite Blues della grande città, scritta nel 1929. La si trova nel volume Le Poesie (Einaudi 1998). Entrambi i brani musicali vengono dal disco Roots of the Blues (Universal 2013), che presenta perlopiù brani composti da Weston, come Blues to Senegal, insieme a If one could only see (composto da Harper) e a qualche standard come Body and soul e Take the A train.

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PPS: L’immagine qui sopra è la copertina dell’album. Le prime due fotografie sono del mio sax; quella posta fra i due video è di Giuseppe Pino, tratta dal volume Sax! (Earbooks 2005). L’immagine qui sotto è un ritratto di Billy Harper, contenuta nel libretto di The Roots of the Blues e scattata da Jules Allen nel 2013.

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Vulcani

Accanto alle vie affollate, se ci si ferma a guardare, ci sono sempre isole di vuoto. Anche nelle grandi città, nei luoghi più caotici. Sabato scorso ero a Milano: alle dieci di sera, mi sono trovato in mezzo alla folla che popola i Navigli; ma è bastata una deviazione, pochi metri in una strada oscura, ed eccomi in una via che pareva rubata a un villaggio. Mi sono fermato a respirare. Dopo un po’, anche quella zona desolata ha mostrato di essere viva.
img_7388Per prima cosa un neonato ha cominciato a piangere. I genitori, che stavano spingendo la carrozzina, si sono chinati sulla bimba, chiamandola per nome, cercando di placarla. Poi la madre, con gesti misurati, esperti, ha indossato un’apposita imbracatura e ha collocato la figlia contro il suo corpo, sotto il cappotto. Quasi istantaneamente la bambina ha smesso di piangere. La scena è avvenuta vicino a un lampione, mentre io stavo dall’altra parte della strada. Ho alzato gli occhi e ho visto, nel muro di un caseggiato, il riquadro luminoso di una finestra: c’era una stanza da bagno con un boiler, una parete piastrellata e uno specchio. Davanti allo specchio, una ragazzina fra gli undici e i tredici anni si stava lavando i denti; nello stesso tempo ascoltava musica con gli auricolari del telefono, accennando qualche movimento di danza. A un certo punto si è messa a cantare: usava lo spazzolino come se fosse un microfono e sperimentava nello specchio qualche espressione da rock star.
img_7469Ho ripreso a camminare. Mentre tornavo alla mia automobile, ripensavo alla scena. Come se ci fosse la mano di un regista, in pochi secondi si era dispiegato davanti ai miei occhi un piccolo universo al femminile: la bimba che strilla, il sorriso della giovane madre, i suoi gesti sapienti, e infine la ragazzina che si lascia trascinare dalla musica, sognando forse di essere su un palcoscenico (ma ignara di me, il suo unico spettatore).
Le manifestazioni dell’animo femminile, per quanto uno passi la vita a studiarle, conservano sempre un lembo di ignoto. Tutto è misterioso: lo strillo e la paura della bimba, la tenerezza della madre, la vitalità della ragazza che canta nello spazzolino. Quest’ultimo caso, in particolare, è forse un esempio di come lo spirito femminile sia capace di trasfigurare la realtà. Anche nelle situazioni più impensate o più banalmente quotidiane, una delle maggiori forze della femminilità mi pare proprio questa profonda capacità immaginativa, questa tensione a cambiare le cose senza il fracasso di gesta roboanti, ma con una adesione potente alla propria intimità.
img_7451Spinto da questi pensieri, ho ripreso in mano un saggio di Grazia Livi: Da una stanza all’altra. Woolf, Austen, Dickinson, Percoto, Mansfield, Nin. Sei maniere diverse di affrontare il conflitto fra vita quotidiana e vocazione alla scrittura. Edito da Garzanti nel 1984, il libro racconta sei figure femminili, mettendo l’accento sulla loro diversità rispetto all’ambiente nel quale vivevano. Si parte da Virginia Woolf e dal suo desiderio di una stanza tutta per sé, in cui riflettere, lavorare, soprattutto desiderare, desiderare sempre il vero, attenderlo laboriosamente, distillare poche parole. Secondo Grazia Livi, dentro ognuna di queste donna preme il bisogno di far confluire tutto ciò che accade al centro della propria persona. Il bisogno di essere vigile, assorta, silenziosa, riunita. Il bisogno di stare in disparte, per preservare la sua crescita, per far germogliare il seme.
Per queste autrici la difficoltà era anche sociale e culturale. Ma neppure oggi è facile accedere a questa stanza privata; se lo fosse in senso materiale, resterebbero i legami invisibili, l’eterna connessione in cui siamo immersi. Questo vale non solo per chi scrive. Credo che ogni persona, in certe circostanze, senta l’esigenza di una stanza tutta per sé e di qualcuno con cui, nei tempi e nei modi appropriati, condividere questo spazio di riflessione, di creatività.
dsc_7585È chiaro che per una come Emily Dickinson (1830-86) non doveva essere semplice trovare persone (anime, avrebbe detto lei) con cui avere una corrispondenza di pensieri e sentimenti. Lei stessa se ne accorgeva, captando qualche perplessità nelle conversazioni. Io sono colei a cui tutti dicono: cosa? Pochi riuscirono a intravedere che cosa si nascondesse sotto quel silenzioso vulcano. Scrisse in una delle sue millesettecentosettantacinque poesie (scoperte dopo la sua morte): Sul mio vulcano cresce l’erba: / luogo contemplativo / parrebbe a tutti, adatto / al nido di un uccello. / Come dentro lingueggi rosso il fuoco, / come precaria sia la zolla / se lo svelassi, subito il terrore / invaderebbe la mia solitudine. (Ecco qui il testo originale). In generale, l’immagine del vulcano si addice anche ad altre scrittrici. Prendiamo Jane Austen (1775-1817), di cui Grazia Livi descrive bene non solo il primo impeto creativo giovanile (di cui parlerò un’altra volta) ma anche il lavoro in età più matura, in mezzo a mille distrazioni.

La sua caratteristica, agli occhi dei nipoti, è l’amabilità. Solo a volte, entrando all’improvviso nel salottino, zia Jane appare diversa. Se ne sta al tavolino assorta, accigliata, quasi fosse intenta a un segreto. «Che stai facendo, zia?» chiede Fanny. «Nulla, nulla. Pensavo.» La creatività, che scorre serena sulla carta nel silenzio di certi mattini, non è un fatto comunicabile, è un fatto personalissimo. Non solo. È una scelta vivificante, che appartiene alla sfera interiore, alla sfera dell’equilibrio. Spiegarla è impossibile. Inoltre lei, essendo nubile, non ha alcun diritto di pronunziare la parola “io” ad alta voce. «Zia, si può giocare insieme? O vuoi che ritorni più tardi?» «Ma no, cara, resta, resta.» Si è già tolti gli occhiali, li ripone dentro l’astuccio di raso. «Ti do noia? Stavi forse scrivendo?» insiste Fanny affettuosamente. «Figurati! Neanche per sogno» e Jane, sorridente, è già in piedi, dopo aver fatto scivolare un foglio sotto la carta asciugante.

La metafora del vulcano si addice bene a queste autrici, ma può essere utile anche per avvicinare persone più elusive, lontane da ogni manifestazione artistica. Di recente ho studiato la figura di Teresa Manganiello (1849-76), di cui mi sono trovato a raccontare la storia nel volume La beata analfabeta.
la-beata-analfabetaNon è stato facile scriverne, perché la sua fu una vita nascosta, un vulcano di cui a prima vista era difficile scorgere il fuoco. Di certo Teresa aveva una sensibilità religiosa, una tensione spirituale e una capacità mistica che la rendevano diversa dalle sue coetanee. Contadina, povera, analfabeta, in che modo avrà saputo gestire la sua singolarità? In che modo avrà conciliato le esigenze della vita quotidiana con lo slancio creativo? Si può essere creativi pure senza conoscere l’alfabeto; e Teresa, così ho immaginato nel romanzo, deve avere avvertito fin da bambina un misterioso divario: Le sue amiche le danno una spinta, la invitano a correre più forte. Teresa le segue, e ride con loro, ma sente dentro di lei la ferita della differenza. Sono nate nello stesso anno, hanno visto le stesse cose e hanno più o meno gli stessi parenti. Com’è possibile che Teresa si senta così sola?
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Vorrei concludere parlandovi di un’altra figura femminile, un altro vulcano che, in qualche modo, riuscì a illuminare il cielo con la sua musica: Mary Lou Williams (1910-81). In un mondo fortemente maschile, com’era la musica jazz agli inizi del Novecento, riuscì a emergere come pianista, come compositrice e come arrangiatrice. Con grande apertura mentale e versatilità, seppe poi rinnovarsi di continuo, passando da uno stile all’altro, dallo swing di Andy Kirk, Earl Hines e Benny Goodman al bop di Dizzy Gillespie fino al free jazz di Cecil Taylor. Oltre ad avere in qualche modo influenzato alcuni grandi musicisti (Thelonius Monk, per dirne uno), ne aiutò molti in difficoltà per problemi di alcol e droga. Duke Ellington diceva che era perpetually contemporary, sempre attuale, e la definì in questo modo: She is like a soul on soul (come l’anima all’ennesima potenza). Il critico Enrico Bettinello scrive che spesso si è usata la parola anima per parlare di Mary Lou Williams. E si capisce perché: basta ascoltare due minuti di un qualunque blues, registrato da Mary Lou Williams un anno prima di morire…

Mi piace immaginare che questo blues esprima uno slancio verso la libertà, la creatività, la forza dell’immaginazione: questa musica, in qualche modo, è uscita da una stanza tutta per sé. E chissà, magari quella ragazzina, in quella via oscura di Milano, con il suo spazzolino-microfono, apprezzerebbe il tocco deciso e il fraseggio soulful di Mary Lou Williams.

PS: Del romanzo La beata analfabeta, e quindi anche di Teresa Manganiello, avevo già parlato qui.

PPS: Le citazioni di Virginia Woolf, Emily Dickinson e Jane Austen provengono dal volume di Grazia Livi, di cui ho già dato le indicazioni bibliografiche (e di cui riparlerò prima o poi). La lirica di Emily Dickinson la trovate anche, con una traduzione diversa, in Poesie (Mondadori 1995). Il saggio di Virginia Woolf intitolato A Room of One’s Own (“Una stanza tutta per sé”) fu pubblicato per la prima volta il 24 ottobre 1929. La citazione di Duke Ellington è tratta dalla sua autobiografia Music Is My Mistress (uscita nel 1973; pubblicata in italiano da Minimum fax con il titolo La musica è la mia signora nel 2007 e poi nel 2014). La frase di Enrico Bettinello proviene da Storie di jazz (Arcana 2015). Di Mary Lou Williams, per cominciare, non è male l’antologia Mary Lou Williams 1951-53 (Classics 2006): il suono è un po’ disturbato, ma l’anima è inconfondibile.

PPPS: L’immagine di Mary Lou Williams proviene da internet. Grazie a Martina per la foto del vulcano.

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“Every style is the result of a handicap”

C’è chi me lo chiede, ogni tanto. Perché uno come te, senza talento musicale, si è messo in mente di suonare il sax? Io rispondo che si tratta di un esperimento: uso me stesso come cavia per dimostrare che la musica è qualcosa che tutti abbiamo dentro e che, presto o tardi, troverà una via d’uscita.
image1Da qualche anno prendo lezioni di sax. E sto imparando. Non sarò mai un virtuoso, ma forse un ascoltatore più attento. Inoltre, il fatto di suonare apre nella mia vita spazi di gratuità: un’attività che faccio per il gusto di farla, da solo, per il piacere di sviluppare un suono personale. Senza dover dimostrare niente a nessuno. Be’, naturalmente ho un maestro paziente, che ogni tanto viene a rincorrermi nelle giungle di accordi strani in cui mi smarrisco.
La musica mi aiuta fra l’altro a comporre i dissidi e ad apprezzare la semplicità. Questi per me sono due grandi insegnamenti.
FullSizeRenderQuando suoni con qualcuno devi ascoltarlo, non si scappa. Non puoi essere concentrato sempre e solo sulla tua voce, ma devi prestare attenzione, reagire agli stimoli. Ogni tanto ti succede di sbagliare, capita anche ai più bravi, e devi proseguire lo stesso. Come diceva il pianista Thelonius Monk, bisogna fare gli errori giusti.
Con il tempo e il lavoro, ti accorgi poi che non si tratta di aggiungere, ma di togliere, di rendere più essenziale la propria voce: è la difficile arte della facilità. Per averne un’idea si può guardare un video del dicembre 1957, in cui un gruppo di musicisti accompagna Billie Holiday. Dopo trenta secondi, Billie comincia a cantare “Fine and Mellow”. Poi si alza Ben Webster, per il suo assolo. Subito dopo, intorno al secondo minuto, ecco apparire Lester Young, un po’ all’improvviso, come se il suo intervento non fosse previsto. Fra Lester e Billie c’è un rapporto di amicizia profondo, sebbene negli ultimi anni si siano visti poco; entrambi del resto sono affaticati da alcol, droga, malattie. Moriranno due anni dopo, nel 1959, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altra, dopo un declino rovinoso. Ma nei momenti catturati dalla cinepresa, Lester Young riesce a compiere un piccolo miracolo: soffia nel sax e fa un assolo semplicissimo (a partire dal minuto 1.23). Poche note indietro sul tempo, una linea musicale scarna, commovente, che risponde al sentimento di Billie ed esprime tenerezza, malinconia, partecipazione. Infatti lei alza gli occhi, lo guarda e senza parlare dice tutto: è così, annuisce, è proprio così.

È una scintilla che dura pochi secondi, poi riprende la canzone. Ma in quegli istanti si capisce come la musica possa placare una ferita – specialmente il blues – come uno sguardo possa dire più di lunghi discorsi, più di mille telefonate, lettere, messaggi. IMG_0600Basta una serie di note, limpide come gocce d’acqua, basta un sorriso.
Quanti musicisti hanno imparato ad accettare le loro imperfezioni, anzi, a usarle per essere più autentici, più compiuti. Non parlo soltanto degli schiavi che inventarono il blues o dei jazzisti degli anni Cinquanta minati dalle dipendenze. Penso anche a un virtuoso come Keith Jarrett, che nel 1996 fu travolto da una sindrome da affaticamento cronico. Nel 1999, durante la convalescenza, incise da solo il disco The melody at night with you: niente di straordinario, poche canzoni d’amore suonate in maniera sommessa. Ma proprio per questo, forse, è uno dei dischi di Jarrett che più mi hanno colpito al primo ascolto.

Il mio mestiere non è suonare, ma scrivere.
La musica è un’attività meno intensa, meno sofferta, però a volte mi porta in territori che non avrei mai pensato di attraversare. E allora sbaglio il ritmo, non sento gli accordi, perdo il treno. Poco male. Basta avere pazienza, perché prima o poi le cose si sbloccano. Anche per chi, come me, parte con un forte handicap. Ma diceva proprio Lester Young: Every style is the result of a handicap. Ogni stile è il risultato di una mancanza.

PS: L’incisione di I love you Porgy risale a un concerto del 1986 (quella del disco The melody at night with you non è disponibile su internet).

 

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