Le cose necessarie

Mentre passeggiavo in una piccola città ho visto un biglietto sul marciapiede. Era lungo circa quattro per venti centimetri e conteneva un testo scritto a computer con un carattere minuscolo (forse Cambria dimensione 5). Era difficile da decifrare. La prima riga: «ecologia: stu t re k es Org:ess vi costcost da un complena di org vit». E qualche riga dopo: «flusso di ene=corrente/spostam di E da un punto ad un altro della catena». Dopo un po’ ho capito che era uno di quei foglietti sui quali gli studenti annotano ciò che devono imparare a memoria, con la speranza di sbirciare le informazioni durante le verifiche scritte. Dalle mie parti si chiamano “bigini”.

È un imbroglio, ma non si può negare che ci sia qualcosa di significativo nel costringere quanta più conoscenza nel minore spazio possibile. Inoltre, in un’epoca virtuale come la nostra, si tratta pur sempre di un buon vecchio bigino ritagliato a mano, su carta, come ai vecchi tempi. Chissà se il foglietto è stato smarrito prima o dopo la verifica. Immagino l’artefice del bigino seduto al suo banco, pronto a sfoderare la sua arma segreta. Cerca nella tasca… ma è vuota. Nella borsa? Nell’astuccio? Nel diario? Niente, il bigino non si trova. Tanta minuziosa fatica è andata sprecata… non resta che fare i conti con la propria memoria.
Questo ritrovamento mi ha fatto riflettere. Forse succede così anche a me? Tanti romanzi, racconti, saggi, segni neri sul bianco, anno dopo anno. Ma che cosa rimane? Prima o poi il tempo cancella ogni parola scritta, dal bigino al romanzo, dalla lirica d’amore alla lista della spesa. Può restare un frammento di emozione, il fantasma di un personaggio, lo straccio di un pensiero. Ma ogni memoria presto o tardi perde la presa.
Tutto passa.
Una banalità, certo.
Ma quando s’incide nella carne, nella quotidianità, è sempre un’esperienza nuova.
Comunque, è un giornata di sole. La cosa migliore sarebbe uscire, fare un giro in bicicletta, non lasciare che i pensieri si avvitino. Ma oggi ho una scusa: è il mio compleanno. Ci passiamo tutti, no? Dopo i cinque o sei anni di età, la percezione del tempo si fa sempre più acuta, e uno finisce per mettere nel calderone tutto quanto (i bigini, i romanzi, le giornate di sole).

Sarà poi vero che tutto passa? Certo: fra cento anni non ci sarà più traccia né di me né di voi che state leggendo queste righe. Ma c’è qualcosa, nel profondo della natura umana, come un bisbiglio, una voce fragile che sussurra: non è vero, non è così. Non vorrei parlare ora delle credenze personali: la fiducia nei figli, nella specie umana, nelle idee che fioriranno. Non vorrei nemmeno mettere a tema la fede in Dio e la speranza in un aldilà. Mi fermo molto prima. Da dove vengono le parole del bigino? Sono le cose indispensabili, quelle da sapere, lo stretto necessario. Da dove vengono le mie storie? Sono le stesse che i nostri progenitori raccontavano un milione di anni fa e che i nostri discendenti racconteranno fra un milione di anni, se ci saranno ancora esseri umani. La storia di un eroe che parte e scopre il mondo, la storia di uno straniero che arriva nel villaggio. È tutto qui. Ancora una volta, le cose necessarie. Ecco, io credo che se c’è qualcosa invece di niente, vuol dire che qualcosa è necessario. Altrimenti non ci sarebbe. E perdonatemi questi numeri da giocoliere (il giorno del proprio compleanno si manifesta con più intensità la tentazione di filosofeggiare).
Comunque, per dirla in maniera meno tortuosa, riconoscere le cose necessarie è forse l’esperienza più grande, l’insegnamento più saggio che una persona possa apprendere in tutta la vita. L’ironia è che in fondo, appena nati, abbiamo un’idea assai chiara delle cose necessarie, così come spesso, probabilmente, tendiamo ad averla durante la vecchiaia. È durante il cammino che perdiamo di vista l’essenziale. E forse, per allenarsi a riconoscere l’imprescindibile, può essere un esercizio utile anche compilare un bigino. E soprattutto perderlo. Ciò che rimane dopo lo smarrimento, dopo la malinconia, dopo i ragionamenti sul tempo e sulla morte. Ciò che rimane sono le cose necessarie.

PS: Il giorno del mio compleanno, di solito, condivido un racconto inedito con le lettrici e i lettori del blog. Quest’anno in realtà mi sembra di avere detto fin troppo. Ma per chi volesse ancora una storia, ecco un raccontino su Alessandro Magno, scritto nell’estate del 2021. (Ho già condiviso qui altri racconti sullo stesso personaggio: piano piano sto cercando di capirlo.)

Leggi Il mercante e il conquistatore

PPS: Per chi invece volesse andare oltre le parole, condivido il sax tenore di Sonny Rollins, accompagnato nel 1962 da Jim Hall alla chitarra, Bob Cranshaw al contrabbasso e Ben Riley alla batteria. Where are you è una vecchia canzone del 1937, scritta da Jimmy McHugh con le parole di Harold Adamson. È diventata uno standard del jazz e non solo, interpretata dai più grandi, da Frank Sinatra a Duke Ellington, da Dexter Gordon ad Aretha Franklin, da Ella Fitzgerald a Bob Dylan. «All life through must I go on pretending?», canta il sax di Rollins. Per tutta la vita devo continuare a fingere? «Where is my happy ending? Where are you?» Dov’è il mio lieto fine? Dove sei?

PPPS: La prima foto rappresenta il bigino. La seconda foto rappresenta una cosa necessaria (due, contando la scopa sullo sfondo).

PPPPS: Oggi un amico mi ha ricordato un verso di Giorgio Orelli: «”Il tempo passa. Tutto passa. Eccetera”.» (da “Una sorpresa sempre uguale spiuma”, v. 10, in Né bianco né viola, 1944). Mi sembra che si adegui alla circostanza.

PPPPPS: È una giornata di sole, lo so. Ora esco e faccio un giro in bicicletta.

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