#Rubruk2022 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli
Guglielmo di Rubruk partì nel 1253 per una lunga spedizione in Asia. Il suo Itinerarium, redatto in latino, è fra i più bei resoconti di viaggio che siano mai stati scritti. Basta leggerne poche frasi per trovarsi nel cuore dell’ignoto, oggi come ieri, desiderosi di conoscere ciò che è diverso da noi.
Rubruk
Divagazioni intorno ai viaggi di Guglielmo di Rubruk
Secondo episodio.
3) «In nessun luogo hanno una città stabile, e neppure sanno dove l’avranno domani».
Stiamo pedalando affiancati, quando comincia a piovere. L’asfalto diventa scivoloso. La salita è ancora lunga, così decidiamo di fermarci sotto una tettoia arrugginita. Sembra la vecchia fermata di un autobus. Metà della struttura è ricoperta di erica e altri rampicanti. Sotto, seminascosto dalle erbacce, c’è il pannello che un tempo doveva ospitare gli orari. Appoggiamo le biciclette a un grosso albero, forse un faggio. Lasciamo il casco sulla testa e ascoltiamo il nostro respiro che torna regolare.
– Guarda come viene giù.
– Che facciamo, aspettiamo?
– Ma sì, fra poco smette.
– Tanto abbiamo tempo.
Parliamo senza pensarci, come per dimostrare a noi stessi che non stiamo sognando, siamo lì veramente, in piedi, uno accanto all’altro. Dietro le nuvole e la pioggia c’è ancora il sole a scaldare l’aria.
Poi succede tutto in un attimo: chiudiamo gli occhi e siamo a casa. Per una manciata di secondi sentiamo di appartenere a qualcosa. Siamo in viaggio, sostiamo sotto un riparo improvvisato, quasi nulla sappiamo della terra su cui poggiano i nostri piedi, eppure la consapevolezza è talmente forte che quando apriamo gli occhi quello ciò che abbiamo intorno – la ruggine, l’edera, gli alberi, l’asfalto – assume un nuovo, prezioso significato.
Ieri, in autostrada, ci siamo fermati in un’area di servizio dove stazionavano molte roulotte. Era un gruppo di Jenisch. Alcune bambine che giocavano con un pallone ci hanno salutato con le mani, gridando qualcosa. Abbiamo risposto incuriositi. Quelle erano le loro abitazioni, pronte per ripartire. Fisse nel movimento. Radicate in quella geografia mobile che tanto sembra impossibile agli stanziali, e che invece loro continuano a chiamare casa.
Chissà dove saranno oggi, ci chiediamo a mezza voce. Poi recuperiamo le biciclette, beviamo un sorso d’acqua e riprendiamo la salita.
4) «Entrando in casa, gli uomini non appendono mai la loro faretra sul lato delle donne».
Nel Medioevo li chiamavano Tartari. Allora come oggi, basta nominarli per evocare guerrieri indecifrabili e possenti, assalti all’arma bianca, tempeste di frecce, maestose cavalcate nell’infinito enigma della steppa. Eppure anche il Tartaro, quando la sera rientra a casa, ha le sue piccole abitudini. Noi appoggiamo le chiavi sul piattino all’ingresso, lui appende la faretra sempre dalla stessa parte.
5) «Le donne si fanno costruire dei carri bellissimi, che saprei descrivervi solo con un disegno; ma in verità tutto quanto vi avrei dipinto, se sapessi disegnare!».
Guglielmo scrive. Poi si volta. Ci scruta in silenzio per qualche secondo. Infine borbotta: «Non è che voi sapete disegnare, per caso?» Ci guardiamo negli occhi. Non è stato facile convincerlo a portarci con lui: non sembriamo esattamente due esploratori pronti a un viaggio nella steppa, fra sconosciute tribù di Tartari. Però avevamo i nostri due taccuini, una scorta di buona volontà, oltre a maglioni di lana e scarpe robuste. Guglielmo, che gira invece per la steppa con i sandali da frate, ci ha raccomandato più volte di non perderci e noi facciamo del nostro meglio. Ma un disegno? «Disegnare non è il nostro forte, purtroppo». Lui risponde qualcosa d’incomprensibile in fiammingo. Forse si chiede quale sia il nostro forte.
La bellezza di quei carri resterà insomma un mistero. Gli storici descriveranno esemplari simili, gli esperti ne ricostruiranno la forma e gli addobbi. Quei carri, però, proprio quelli, così come apparivano nell’estate del 1253, saranno per sempre velati dalla loro stessa bellezza: pulcherrimas bigas, scrive Gugliemo, ammutolito per lo stupore. Noi in verità qualche schizzo sui taccuini l’abbiamo fatto. E senza dubbio avremmo potuto scattare una foto con i nostri cellulari (li abbiamo infilati nello zaino di nascosto). Ma perché? A che proposito? Ci sono cose che non si possono dire, ed è bene che sia così. Il mondo ha bisogno anche di silenzio.
Ah, se sapessi disegnare! Lo stile di Guglielmo è immediato, pieno di vita, e i suoi silenzi sono eloquenti. Ancora oggi, del resto, noi ci aggrappiamo alla sua tonaca per partecipare al suo viaggio, e giorno dopo giorno impariamo a conoscere il mondo. E se Guglielmo vivesse nel 2022? Se avesse postato tutto sul suo profilo Instagram, fotografie e dirette video? Vogliamo credere che anche oggi Guglielmo avrebbe avuto la saggezza di spegnere il cellulare.
PS: Potete leggere qui il primo episodio.
PPS: Le frasi in grassetto sono tratte dall’Itinerarium di Guglielmo, secondo l’edizione stabilita da Paolo Chiesa in G. di Rubruk, Viaggio in Mongolia, Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2011. Spesso abbiamo usato la versione italiana dello stesso Chiesa; qualche volta abbiamo invece tradotto noi stessi dal testo latino.
PPPS: Negli anni fra il 1237 e il 1242 un’orda di guerrieri mongoli avanzò verso l’Europa. I Tartari, come venivano chiamati, si spinsero in Russia, Polonia, Boemia, Ungheria, devastando città e villaggi. L’esercito arrivò fino all’Adriatico e si ritirò soltanto alla morte del comandante Ögedei Khan. Qualche anno dopo, nel 1253, il re di Francia Luigi IX decise d’inviare un ambasciatore verso le steppe, per tentare qualche relazione con i Mongoli. Il sovrano si affidò a un frate fiammingo, Guglielmo di Rubruk, che viaggiò per due anni nei territori dell’Asia Centrale fino a Karakorum, dove risiedeva il Gran Khan Möngke. Guglielmo, capace di percorrere grandi distanze in poco tempo (più di dodicimila chilometri in totale) era colto, robusto e dotato di buon senso. Sapeva parlare con i re e con i poveri, con un monaco buddista o con uno sciamano, con un soldato o con un prigioniero. Era aperto e curioso nei confronti delle lingue, delle usanze, delle abitudini dei popoli stranieri. Il suo Itinerarium è uno dei più bei libri di viaggio medievali (e anche oltre).