La parola “cielo”

IMG_9950Nessuno che conosca il cuore segreto dell’orologio, scrive Elias Canetti. E nessuno conosce la data in cui finalmente l’acqua sgorgherà dalla fontana nell’anonima piazzetta circolare tra via Raggi e via Borromini a Bellinzona (dietro la fermata del bus Semine). È un luogo non distante da casa mia; quest’anno ho deciso di fermarmi una volta al mese per almeno mezz’ora su una delle panchine ai bordi della piazza (trovate qui e qui le prime puntate della serie). Mi siedo con un libro e con un taccuino, guardo, ascolto, cerco di captare il passaggio del tempo. È una zona di transito, un frammento di umanità alla periferia di un piccolo borgo; ma potrebbe diventare come un mandala, uno specchio che rifletta una realtà più grande. Certo, non è facile osservare con attenzione. Oggi mi ha dato una mano Elias Canetti, con gli appunti annotati fra il 1972 e il 1985 e raccolti nel volume Das Geheimherz der Uhr (Il cuore segreto dell’orologio, Adelphi 1987).
IMG_9949Ciò che si è visto una sola volta non esiste ancora. Ciò che si è sempre visto non esiste più. Forse il metodo, interpretando questa frase di Canetti, è vedere come se fosse la prima volta e poi tornare a rivedere, a misurare il cambiamento. In gennaio nessuno ne parlava ancora, e nemmeno in febbraio; ma stavolta i pensionati in fila sulla panchina mettono a tema l’argomento: quando si deciderà il Comune ad avviare la fontana? (Uno di loro, comunque, ci tiene a precisare che lui preferisce la birra). Alcuni ragazzi aspettano l’autobus, la strada vicina è percorsa dalle automobili. Da un finestrino aperto esce una canzone ad alto volume: Un sacco di gente là fuori sogna cose che non esistono, e ha aspettative altissime da cui… e la voce del rapper sfuma tra i motori. Sulla panchina di fianco a me si siede una signora di mezza età con un cagnolino al guinzaglio. Ci salutiamo. Lei mi domanda se mi piacciano i cani. Devi prenderne uno, mi dice, tengono compagnia. Mi spiega che la sua cagnolina ha già diciassette anni, ma è ancora in forma. Come si chiama? le domando. Maddalena, mi risponde, ma per fare prima la chiamo Aisha.
IMG_9960Mentre medito su queste parole, noto che c’è fermento tra i signori della panchina alla mia destra: uno di loro sta mostrando un video sul cellulare. Vorrei chiedergli di che si tratta, ma non oso, anche perché nel frattempo, a sinistra, altri due signori stanno discutendo di una faccenda spinosa. Lui me lo disse a me che non era cosa da fare!, esclama il più vecchio, con accento siciliano. L’altro bofonchia parole che non capisco, mentre il vento scuote le bandiere, i cespugli, i capelli dei pensionati, le pagine del taccuino.
IMG_9952Arriva un tizio massiccio, in bicicletta. Assicura il veicolo con un lucchetto gigantesco, che potrebbe incatenare un’automobile, precisando che in città c’è una banda di ladri, ma che lui certo non si fa fregare. In mano ha una lattina di birra, e sembra avere idee limpide su molte cose; per esempio, il numero di amici che un uomo deve avere nella vita. Al massimo tre, confida alla mia vicina. Tre amici è già tanto. Gli altri sembrano amici, ma sono sconosciuti. Un uomo magro si aggiunge al nostro gruppo, lamentandosi dei giovani manovali che lavorano con lui sui cantieri. Qui in Svizzera se un uomo ha trent’anni è ancora un bambino, borbotta con un lieve accento straniero. Al mio paese, avevo venti anni ed ero un uomo. Salta poi fuori che, fra le varie professioni, è anche meccanico di biciclette. La signora con la cagnolina gli chiede se può gonfiarle le gomme della bici. Lui promette che lo farà e spiega di avere studiato un po’ di tutto: Sono medico, giardiniere, muratore, ginecologo, so fare molte cose, questo è il mio lavoro. Poi si lamenta che in Svizzera ci sono troppe tasse: Qua devi pagare anche quello che camminiamo! L’uomo con la lattina di birra annuisce e sorride, come se si fosse appena ricordato di una cosa divertente.
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I vecchietti nel frattempo tengono d’occhio i passanti. Di ognuno conoscono il lavoro, la situazione famigliare, perfino gli orari di arrivo nella piazzetta (Ah, guarda chi c’è! Sì, ma oggi è in ritardo…). Il sole va e viene dietro le nuvole, mentre un ragazzo racconta a un amico che la sera prima hanno fatto una cena tra amici, divorando trenta chili di costine. Passa una famiglia con il passeggino, una coppia molto anziana con le scarpe da ginnastica nuove, una bambina su una bicicletta rosa. La bambina, con le sue evoluzioni intorno alla fontana, suscita l’approvazione dei pensionati. Ma guarda come pedali bene! E che bella bicicletta che ci hai! Il sole si fa più basso e tagliente, quanto basta perché la mia vicina indossi un paio di occhiali scuri, prima di versare un po’ d’acqua in una ciotola per il cane.
IMG_9953Leggo un fulmineo racconto di Elias Canetti: Egli parla rivolgendosi al sole, e la bambina ascolta. Adesso parla la bambina, e lui ode il sole. Mi sembra una bella storia, anche se non l’ho capita (ma ci sono storie che è bello non capire). Muovo lo sguardo dalla bimba in bicicletta verso il sole, mentre la mia vicina spiega all’uomo con la birra che per lei tre amici sono anche troppi. Io sto con Aisha, dice. Accarezza la bestiola. È lei la mia amica. Uno dei vecchietti tossisce, un altro dice che quest’anno la primavera arriva presto, un terzo domanda quando apriranno la fontana. Ho la sensazione che il tempo proceda per strappi minuscoli, per impercettibili scosse di assestamento. Uno potrebbe passare qui il pomeriggio e alla fine avrebbe l’impressione di non aver visto niente, di aver sentito sempre le stesse parole. Invece il paesaggio è più meraviglioso e terrificante del Grand Canyon o delle nevi dell’Himalaya: intorno a questa fontana spenta si sta mostrando semplicemente la vita nella sua profonda quotidianità, la vita fedele e implacabile, nella sua straziante normalità.
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Girano le nuvole sopra i palazzi, si allungano le ombre, il traffico scorre incessante sulla strada, dove ogni tanto si ferma un autobus. Un signore in giacca e cravatta si sposta e cambia panchina, per mettersi al sole. La bambina con la bicicletta rosa fa un ultimo giro e se ne va. Guarda che cielo, dice l’uomo con la lattina di birra. È sicuro, domani piove! Ma no che devo lavorare, gli risponde il meccanico-medico-muratore-giardiniere. Maddalena, detta Aisha, agita la coda implorando un biscotto. Il signore al sole distende le gambe e allenta il nodo della cravatta. Io leggo il mio libro. Anche dopo tutto quello che è già piovuto di lassù, egli non rinuncia alla parola “cielo”. Arriva una ragazza vestita di nero e saluta il giovane mangiatore di costine. Ma quando l’apriranno questa fontana? gli domanda. Chi lo sa, interviene l’uomo con la birra, chi lo sa.

PS: Abbiamo bisogno di luoghi che siano uno specchio per le nostre riflessioni. Luoghi che ci allontanino dalla vita che stiamo facendo, luoghi per fermare la nostra fretta e aspettare l’anima (Tonino Guerra). Questa bella osservazione si trova in epigrafe a un racconto dello scrittore Silvano Calzini: è una storia delicata e profonda, che parla di un uomo innamorato delle panchine. Ecco qui il racconto, messo gentilmente a disposizione dall’autore. Di Calzini segnalo anche il recente Figurine e le raccolte di fulminei racconti brevi intitolate graziosamente Nani da leggere.

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Buon Natale!

La mattina di Natale, il commissario Maigret si alza e guarda dalla finestra.

Non nevicava. Era ridicolo restarci male, a cinquant’anni sonati, se mancava la neve una mattina di Natale: ma le persone d’una certa età non sono mai proprio così serie come si figurano i giovani.

Con la sua lenta placidità, con la sua gravità e la sua dolente umanità di uomo che ha visto tanto male, Maigret è ancora capace di sentimenti lievi, da ragazzino. Ma davvero il commissario e il fanciullo sono due entità distinte? Forse dietro la massiccia ragionevolezza del poliziotto cova un granello d’imprevedibilità, di apparente follia, ed è proprio questo ad acuire lo sguardo di Maigret.

Il cielo basso, di un color bianco sporco, sembrava gravare sui tetti. Boulevard Richard-Lenoir era completamente deserto, e la scritta «Magazzini Legal, Figli & C.», sopra la porta carraia dell’edificio di fronte, era di un nero come di lucido da scarpe. La M, Dio sa perché, aveva un’aria triste.

img_8748Maigret coglie la tristezza della lettera M: una tristezza senza ragioni apparenti, che non si può spiegare; ma ci sono percezioni che si conficcano nell’anima. Secondo me, è proprio questa apertura nei confronti del mondo a rendere memorabile il personaggio creato da Georges Simenon. Come scrive Gesualdo Bufalino, Maigret non abbocca alle esche inique dell’immaginazione, e nemmeno alle lusinghe a volte fallibili della ragione; ma si lascia impregnare naso e cappotto dagli odori decisivi del delitto. Del delitto, ma non solo; Maigret cammina lento e non trascura nessun dettaglio, con la sua pipa, i grandi fazzoletti, le scarpe campagnuole, da veterinario o curato, con cui batte il pavé color ferro di una Parigi di piogge e soli, da un bistrot a una portineria, per scale che stillano confessioni da tribunale, fra mura che nascondono grida e grovigli di vipere quiete.
Un uomo prevedibile, in fin dei conti: un bravo poliziotto che colpisce il delitto con tristezza, con dura pietà. Però la mattina di Natale Maigret non sa frenare un moto di delusione. Sembra una frase messa lì per delineare l’atmosfera del racconto; invece definisce soprattutto il personaggio: Maigret è un uomo capace di meraviglia. Nonostante l’età, nonostante le ferite e la stanchezza, ha ancora il coraggio di tenersi stretti i suoi desideri, anche quelli assurdi o puerili.

Mi pare un buon augurio per Natale: avere il coraggio di desiderare. Spesso la realtà ci viene raccontata come inesorabile, e tutto sembra tendere in una direzione ovvia, già prevedibile. Possiamo fare qualcosa? Certo, ma si tratta di limitare i danni. Invece no, anche in mezzo ai drammi (personali e collettivi), il desiderio ci mantiene vivi. Sarebbe bello non smarrire quella scintilla d’infanzia, quella capacità irrazionale di continuare ad aspettarsi la neve la mattina di Natale. Se saremo fortunati, arriverà almeno un po’ di nevischio. Magari non sempre, ma una volta o l’altra arriverà. Dal cielo cadeva come un pulviscolo bianco, e questo gli ricordò che da bambino cacciava fuori la lingua per acchiapparne qualche granello.
Maigret tiene aperti gli occhi dell’anima, oltre a quelli del corpo. È lo stesso invito che ci rivolge il sax di John Coltrane, nell’interpretazione di Soul Eyes, una canzone composta nel 1957 dal pianista Mal Waldron. La voce di Coltrane è precisa e insieme dolente, tenera senza essere sentimentale. Insieme a lui, Elvin Jones alla batteria, Jimmy Garrison al basso e McCoy Tyner al piano. Quest’ultimo, giocando con ritmi diversi, instilla una sottile inquietudine nella melodia.

PS: Visto che siamo in argomento: qualche giorno fa è uscito un mio racconto di Natale per il settimanale “Azione”. Ecco qui il link (e qui la versione in pdf).

PPS: Simenon scrisse Un Noël de Maigret fra il 17 e il 20 maggio 1950; poi lo inserì nell’omonima raccolta di racconti pubblicata nel 1951 dalle edizioni Presses de la Cité. In italiano, è stato tradotto da Marina Di Leo per Adelphi nel 2015. Le parole di Gesualdo Bufalino sono tratte dal suo Dizionario dei personaggi di romanzo (edizioni il Saggiatore 1982). La registrazione di Soul Eyes avvenne a Eglewood Cliffs, nel New Jersey, il 19 giugno 1962. Si trova nel disco Coltrane (Impulse 2008).

PPPS: Le due foto di Simenon sono tratte da Georges Simenon. Le patron, una pubblicazione a cura di Pierre Assouline uscita in allegato a “Le Monde” nell’ottobre 2014.

PPPPS: Questo articolo natalizio raddoppia il consueto appuntamento settimanale del blog. Mi perdonino gli iscritti alla newsletter: questa intrusione nella loro casella postale non diventerà un’abitudine…

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Esami di maturità

Era un giorno di giugno, verso la fine degli anni Novanta. Me ne stavo seduto in uno stanzone, insieme a decine di altri studenti, e stavo affrontando l’Esame di Maturità di Arti Visive. Uso le maiuscole per dare solennità a un’operazione che, in fondo, consisteva nello spremere colori a tempera fuori dai tubetti per riempire una griglia di cento piccoli quadrati. Per uno come me, che ha raggiunto il massimo valore artistico all’età di nove anni, era un’impresa irta di ostacoli. Infatti, presto la situazione degenerò. Dopo un quarto d’ora il tavolo e le mani erano cosparsi di colore. Dopo trenta minuti le macchie variopinte si estendevano alle braccia, alla camicia, ai pantaloni. Alla fine della prima ora, anche sui capelli cominciavano ad apparire tracce di blu magenta.
image2Ricordo che ogni tanto sbirciavo fuori dalla finestra, in cerca di sollievo. (È un gesto che gli studenti fanno da sempre: gettare lo sguardo al di là dei vetri, nel mezzo di un esame, con una struggente nostalgia di libertà). Mi colpiva l’azzurro del cielo, il verde degli alberi intorno al cortile. C’erano tre ragazzi che giocavano a lanciarsi delle biglie, in un angolo, e un corvo che becchettava accanto al davanzale. Mi pareva che la vita e i colori autentici mi aspettassero là fuori, e che io stessi mettendo in scena una pallida contraffazione. Ripresi pazientemente a miscelare il rosso e il giallo, con una punta di nero, per vedere che cosa avrei potuto ricavarne. Nello stesso tempo, mi venivano in mente parole, invece di colori. Ricordo che scrissi qualche appunto pseudo-poetico in un foglietto che, dopo tanti anni, ho ritrovato in uno scatolone. Ecco il testo di allora:
Sfugge il colore si arrampica
sui polsi. Sobbalza il pennello:
non sa resistere non può
alla macchia improvvisa al movimento…
Fuori, sotto gli alberi
l’agguato dei colori. Tre ragazzi
giocano a biglie. Discutono
di strane regole che sanno loro…
E quel corvo
che si aggira vicino, nero,
lisciandosi le penne, carico
di dignità. Mistero.

Ora non so più se la discussione dei ragazzi me la fossi inventata per ragioni poetico-tortuose o se fosse vera. Dovete considerare che avevo diciotto anni e che stavo cercando di salvare un esame che tendeva alla catastrofe.
Alla fine, come sempre, in qualche modo l’esame passò. È questo il bello degli esami: passano. Bene o male, ma passano. Tranne gli esami di maturità che, per qualche ragione misteriosa, continuano a starci addosso per tutta la vita. Quante persone li sognano ancora, magari decenni dopo? Qualche volta è capitato anche a me: eccomi trafelato, immerso in affannose ricerche per ritrovare gli appunti di matematica, di fisica o di greco. Curiosamente, nel sogno mi ritrovo a dover rifare gli esami oggi, alla mia età, a causa di un indefinito inghippo burocratico. Sogno? Sarebbe meglio chiamarlo incubo…
image1-2 copia 2Di recente mi è capitato di passare da un liceo durante gli esami. La scena ha una sua forza primordiale: la porta chiusa, la stanza dove si consuma il destino di anni e anni di studio. Gli ultimi, terribili istanti di attesa. Il dubbio feroce che insorge due minuti prima dell’ora x. Il ripasso furibondo, sessanta secondi prima. L’ultimo appunto, trenta secondi prima. Una formula scarabocchiata su un foglio, per terra o contro una parete. Le raccomandazioni. Le palpitazioni. La ragazza che evita di stringere la mano all’esaminatore perché, mi scusi, sono troppo sudata. E poi, quando lo studente esce, una raffica di domande. Che cosa ti hanno chiesto? È cattivo? Ma voleva sapere anche le date? E tu gli hai detto che era Celestino V o Ponzio Pilato? Scene di lacrime, fou rire, virtuosismi critici (l’Orlando Furioso spiegato in trenta secondi), stupori, terrori, consigli volanti (ricorda d’invertire la funzione!) grandi domande (qual è l’unico segno d’interpunzione che usa Ungaretti nell’Allegria?) e profondi dubbi esistenziali (ma se mi chiede la dimostrazione, che cosa faccio?). Il trambusto cresce, raggiunge il parossismo e poi passa. Perché gli esami, appunto, passano.
image4Un paio di anni fa scrissi un racconto sulla frontiera tra studio e vacanza. In un certo senso, durante gli esami la vita è ferma in un parcheggio: tutto è rimandato, si vive in una bolla. Poi, quando la frenesia finisce, le vacanze ci riportano anche i problemi che avevamo sospeso, insieme a quella che ci illudiamo sia la “vera vita” dopo lo stress dello studio. E non sappiamo, nella nostra ingenuità, che anni dopo non ricorderemo le settimane di vacanze, scivolate via insieme a tante altre, ma solo i momenti di tensione, che si sono incisi nella mente e nel cuore e che, in maniera insondabile, ci hanno insegnato a essere noi stessi.

Leggi il racconto “Il primo giorno di vacanza”

Per l’ultima volta nella nostra vita abbiamo studiato tutto, ad ampio raggio: matematica e poesia, rocce calcaree e solipsismo, integrali e Giulio Cesare. Al momento degli esami di maturità, siamo ancora come gli uomini del medioevo e del rinascimento: affrontiamo ogni disciplina, indaghiamo ogni segreto. Ma poi gli esami passano. Passano? È finita, ci hanno detto. Ormai sei in vacanza, ci sorridevano, l’anno prossimo che cosa farai? Invece, all’insaputa di tutti, gli esami di maturità stavano continuando, e continuano ogni giorno, e non cessano di metterci alla prova, di chiederci collegamenti tra i colori e i corvi, tra i fiori e l’aritmetica, tra l’amore e l’economia, tra la letteratura e la vita.

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PS: L’unico segno d’interpunzione che usa Ungaretti nell’Allegria, a quanto pare, è il punto di domanda (lo scrivo a uso e consumo degli studenti che eventualmente mi leggessero).

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Com’è potuto succedere?

Com’è potuto succedere? Non ricordo bene. Venivo da un periodo tranquillo, ma intuivo che stava per capitarmi qualcosa. Piccoli segnali, sapete, quasi impercettibili: cambiamenti di umore, un po’ d’insofferenza, una certa voglia di novità. Anche se, a pensarci ora, stavo bene dove mi trovavo. Ma che ci volete fare? È la vita. Ricordo che alla fine sono partito in fretta, come sempre. Non ho avuto il tempo di prepararmi, e tutto è stato abbastanza scioccante: la luce, l’impressione di muovermi a una velocità incredibile, una sensazione di dolore e soprattutto l’aria, una massa, una colonna d’aria che mi ha invaso i polmoni, il sangue, il pensiero. Ho cominciato a respirare… anche perché ho capito che non c’erano alternative. Intanto fuori diluviava. Erano le 5.42 del 15 maggio 1978.
A raccontarla così, sembra una gran cosa. Ma non è niente di speciale, credetemi. Lo fanno tutti e il mondo non se ne accorge nemmeno. Diciamo la verità: il 14 maggio era più o meno uguale al 16 maggio, e nessuno (o quasi) badava a me. Ero solo un pezzetto di mondo, come scrive Azzurra D’Agostino nella sua lirica Prima.
FullSizeRenderDall’ultimo mio anniversario ho passato un anno di alti e bassi (come sono più o meno tutti). Ho attraversato i miei guai e ho avuto le mie delusioni: roba di cui non scrivo nel blog… siamo su internet, ma comunque ci vuole una certa discrezione. Ho avuto anche momenti buoni, giorni in cui mi pare di aver capito qualcosa. Leggendo la poesia, che parla del “prima”, ho pensato al “dopo”.
image1Il mondo funzionava senza di me, quando non ero ancora nemmeno un pensiero, e continuerà a funzionare dopo di me. Fra cento o fra mille anni sarà come se io, come se queste mie parole, come se tutti noi non fossimo mai esistiti. Nessuno saprà più niente di noi (a meno che qualcuno diventi un personaggio storico: ma prima o poi tutti vengono dimenticati). E con ciò? Pensieri del genere non devono per forza suscitare tristezza, ma gratitudine e rispetto per questo mistero che possiamo riassumere in una sola parola: esserci. Fino a quando, come, perché? Difficile saperlo con certezza. Ma cercare di esserci, nella maniera più compiuta possibile, non è mai scontato.
Per festeggiare insieme, vi offro ciò che posso offrirvi: parole. Ecco un brevissimo racconto che scrissi un paio di anni fa (non è per niente autobiografico, ma si sviluppa intorno a un compleanno). Buona lettura e buona domenica!

Leggi il racconto “1978”

Ricordo che l’idea per questa storia mi arrivò quando, per caso, ascoltai alla radio una canzone di Battisti. Ero in macchina, nella periferia di Milano, ed era un pomeriggio di sole. Non so perché mi ritrovai a pensare al tempo. Sarà stato l’impasto fra la voce, la musica, il traffico, il suono dei clacson, la fretta dei passanti, le grandi insegne pubblicitarie, la consapevolezza di essere in ritardo per un appuntamento e il sospetto che, forse, tanto per cambiare, mi fossi perso.

PS: La lirica di Azzurra D’Agostino proviene dal volume Quando piove ho visto le rane (Valigie rosse, 2015). Sono belle poesie, capaci di risvegliare l’infanzia.

PPS: Ringrazio Maria Maggini, la madre della madre di mio padre, per avermi confezionato il vestito giallo e blu. Non penso che dove si trova ora abbia l’abitudine di leggere i blog su internet… ma in fondo, chi può dirlo?

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“Lezioni private” in bicicletta

Mi piace scrivere di lavoro. Non so se dipenda dal mio gusto per l’ozio creativo (chiamiamolo così) o dal mio percorso professionale talvolta complesso. Amo guardare i gesti di chi è immerso in un mestiere, seguirne i tentativi, le sconfitte, le soluzioni. E se il lavoro non va? Ho provato a partire da questa situazione in un raccontino offerto gratuitamente in ebook da Guanda (lo trovate su Amazon).

Scarica gratuitamente l’ebook di “Lezioni private”

C’è di mezzo Contini con la sua routine: piccoli furti, ripicche, animali smarriti. Nella dolcezza di un autunno dorato che sfuma in inverno, l’investigatore si pone una domanda che prima o poi ci poniamo tutti: a che cosa serve il mio lavoro?
FazioliLEZIONIebook-bit01Una volta andavano di moda i detective privati: da Sherlock Holmes a Nero Wolfe, da Philip Marlowe a Pepe Carvalho. Oggi pare che gli autori preferiscano i poliziotti, forse perché sembrano più realistici. L’investigatore privato è più romantico, con quello strascico d’impermeabili e smorfie alla Bogart, ma anche più inverosimile. Certo, le agenzie d’investigazione esistono, ma di solito sono poco romanzesche; ed è proprio su questa discrepanza fra reale e immaginario che vorrei lavorare. Nel racconto “Lezioni private” Contini finisce in una storia più grande di lui. Naturalmente protesta, agisce quasi controvoglia. Controvoglia? Contini non lo ammetterebbe mai, ma sotto sotto si diverte a fingere di essere un vero detective, un tenebroso private eye
Mi accorgo però che sto eludendo la domanda: a che cosa serve il mio lavoro? Ci pensavo l’altro ieri, quando sono andato a fare un giro in bicicletta, poco dopo aver tenuto un laboratorio in un liceo. Per due ore avevamo parlato di storie, d’immaginazione, provando a buttare sulla carta le cose impalpabili che si aggirano dentro di noi. In fondo, era uscito l’aspetto piacevole della scrittura: l’intuizione, la creatività. Dopo aver salutato i ragazzi, mentre arrancavo in bicicletta, mi è venuto in mente anche l’altro aspetto. Perché scrivere assomiglia un po’ alle prime salite della stagione, quando le gambe sono ancora arrugginite e, a metà strada, non sai come riuscirai ad arrivare in cima.
image1-2La via si arrampicava tra i vigneti, dolcemente, con il sole che si posava di traverso e allungava le ombre. Io avevo il fiato corto, i muscoli cigolanti. Perché tanta fatica? Che cosa ci trovo di bello, a che scopo? Ecco, forse la risposta si trova lassù, nella panchina in cui mi siedo sempre prima di scendere e tornare a casa. Non saprei spiegarmi meglio, ma credo che qualcosa di essenziale si nasconda in quel cielo così intimamente blu, in quei minuti di quiete. Nel gesto di bere un po’ d’acqua. O nel lasciare che i pensieri divaghino, mentre mi dedico alla prima fra tutte le occupazioni umane: respirare.
Ho trovato una sorta di risposta anche in una lirica di Cesare Viviani. In ogni attività, infatti, mi pare decisiva la capacità di ricevere (oltre che di respirare).
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PS: La poesia è tratta da Credere all’invisibile (Einaudi 2009).

PPS: Di lavoro, o della sua mancanza, avevo già parlato qui, a proposito del romanzo L’arte del fallimento (ormai imminente: arriva il 18 febbraio).

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