Qualche giorno fa, nella città dove abito, abbiamo votato per eleggere i membri del Municipio e del Consiglio comunale. Mentre scorrevo le liste con i nomi, ognuno con accanto un quadratino pronto ad accogliere la X della preferenza, mi è venuto uno strano desiderio: avrei voluto votarli tutti. Era impossibile, naturalmente, però mi è spiaciuto lasciare vuoti quei piccoli, fiduciosi quadrati. Avrei voluto votarli perché riconoscevo in quelle donne e in quegli uomini la speranza nel futuro, nonostante tutto. Quella gente ha la certezza che il domani possa essere migliore dell’oggi. Non solo: ognuno di loro pensa di poter contribuire a questo miglioramento, a questa sempre maggiore compiutezza del mondo (o almeno della nostra città).
Non è un sentimento da prendere alla leggera.
Quando scrivo, studio, lavoro, quando faccio tutto quello che devo fare, sono mosso dalla speranza? In teoria direi di sì: se non avessi speranza non riuscirei a scrivere; senza un minimo di fiducia non è possibile compiere un atto creativo. Ma un conto è la speranza come quieto fondamento, come ipotesi di base che non richiede più verifiche. Un altro conto è la speranza come brivido, come vitalità che pervade i gesti più banali, che dà senso a ogni parola, a ogni pensiero. Quella speranza non basta raccontarsela, deve scaturire dal mondo, dev’esserci qualcosa nel mondo che incontra il mio io, con tutte le sue ruggini, e che cambia il mio sguardo. Che speranza sarebbe, se non cambiasse lo sguardo?
Insomma, la speranza deve mutare il mio modo di vivere (e di scrivere). Ma in che modo? La speranza è un sommovimento che avviene nel sottosuolo, coinvolgendo parti di me che nemmeno conosco. Spesso mi chiedo dove sia, in quale cunicolo di miniera. Ci sono giornate in cui ogni cosa prende un gusto amaro: l’amicizia, il lavoro, i gesti consueti come gli eventi inattesi. Non mi accade niente di doloroso. Semplicemente la bellezza si ritira dalla realtà, e di colpo non mi aspetto più niente. La presenza del male intorno a me e dentro di me è particolarmente acuta, come una ferita che pulsa. È difficile da spiegare: non perdo la speranza, poiché continuo a riconoscere le mie ragioni per avere fiducia. Ma sentite com’è astratta questa frase? Continuo a riconoscere le mie ragioni per avere fiducia. Provate a ripeterla una, due, dieci volte, e vi accorgerete che il senso svanisce. E allora? Allora non mi resta che aspettare. Le cose accadono, questo è certo. Prima o poi le cose accadono, dentro gli esseri umani e fuori, nel tessuto della quotidianità.
Stamattina mi sono affacciato al balcone. Sulla strada sotto casa passavano due ragazzini: lui in bicicletta e lei su un monopattino. Saranno stati sui dieci, undici anni. Lui stava dicendo una frase che mi ha sorpreso: «Ormai ho imparato a tenere sempre le mani sul manubrio». Lei gli ha risposto qualcosa che non ho capito e poi gli ha fatto una domanda. Lui si scherniva: «No, è meglio di no!». Stavano passando dietro l’angolo quando, prima che sparissero alla mia vista, il ragazzo ha staccato le mani dal manubrio. Subito dopo ho sentito la risata di lei: squillante, due toni acuti in crescendo. E lui: «Ecco, vedi?» Ho immaginato che le avesse dato un saggio della sua incapacità di pedalare senza mani. E lei aveva riso. Quella risata mi è rimasta nelle orecchie. Non era di scherno, e non era nemmeno finta. Era quasi un singulto, una piccola, stridula esplosione. La grazia di quel suono consisteva proprio nel suo essere goffo. Era una risata di quelle che risuonano nella fanciullezza, e che poi si sentono sempre più di rado.
All’età del ragazzino che teneva le mani sul manubrio, una risata del genere sarebbe bastata per farmi invaghire della sua coetanea in monopattino. Gli innamoramenti giovanili sembrano assurdi solo a chi ha dimenticato che cosa siano quegli anni, quelle lunghe incertezze, quelle bufere. Saranno sentimenti goffi, proprio come la risata, ma non per questo superficiali.
Alla mia età, invece, la risata mi ha colpito come la frase di un blues. Nella mia mente la musica era triste, era la percezione di una distanza. Ma nel fondo della tristezza c’era un moto di allegria inestirpabile. Non è sempre necessario riepilogare le ragioni della speranza: a volte essa si presenta da sola, vivida, intatta, come un’evidenza alla quale non posso che arrendermi. Ovviamente non è priva di senso – non sto parlando di un sentimento assurdo – ma è qualcosa in più di tutte le sue ragioni: il totale non corrisponde agli addendi. È come lo zampillo di una sorgente in una terra inaridita. Tutti gli indizi, le misurazioni, i calcoli mi portano a sapere che là sotto c’è una falda acquifera, a immaginarne la direzione e le dimensioni. Ma una sorgente che sgorga da una roccia è sempre una cosa diversa.
È tutto qui. La speranza è una cosa diversa.
Sto parlando degli aspetti antropologici della speranza. Volutamente non ne approfondisco la sostanza, cioè le ragioni di cui scrivevo sopra. Ognuno potrà confrontare le mie osservazioni con la propria storia personale. Anche se le radici differiscono, infatti, credo che nel suo nascondersi e manifestarsi ogni forma di speranza si assomigli. Proprio per questo ho cominciato questa divagazione parlando degli inesorabili quadratini elettorali. Qualcuno dirà che i candidati esprimono speranze completamente differenti fra di loro; senza dubbio, ma quello che più mi preme è l’essenza comune della speranza, come espressione costitutiva del nostro essere uomini e donne capaci d’immaginazione, desiderio e volontà.
Tutto può richiamare la speranza: un quadrato vuoto in una lista, la risata di una ragazzina o un albero in primavera, come scrive Margherita Guidacci in una poesia intitolata Inizio di primavera.
Una fanciulla ride dentro di me, incantevole.
Il vecchio albero ha contato gli anelli
del suo midollo, senza tralasciarne
neppur uno, conosce ogni grinza
della sua corteccia, il suo logoro corpo…
Ma la sua anima ride dentro ogni foglia nuova.
Questi versi mi sono tornati in mente dopo l’episodio della risata. Nella poesia però si tratta di una “fanciulla interiore”… forse è così, forse quel tipo di risata, quella particolare forma di leggiadria si può ritrovare anche dentro di noi. Per me comunque è più facile immedesimarmi nell’albero. Mi rendo conto che non sempre la mia anima riesce a ridere «dentro ogni foglia nuova», anche perché non sempre ha coscienza della novità. Di certo è più facile sentire gli anelli, le grinze della corteccia, le rugosità del proprio rimuginare. Un aspetto che mi colpisce è l’intima connessione fra questo cuore legnoso e le foglie nuove: in fondo esse scaturiscono proprio dal «logoro corpo», con tutte le sue ferite.
La speranza è per forza di cose intricata con il dolore, la sofferenza. Altrimenti sarebbe solo un ottimismo stolido. Vorrei precisare il sentimento da me provato sul balcone con l’aiuto di un brano musicale. Più che un blues, penso a uno spiritual: Sometimes I feel like a motherless child, nell’interpretazione che ne danno in duo Archie Shepp al saxofono e Horace Parlan al pianoforte.
La voce del sax esprime la solitudine, anzi, la desolazione. Le parole non ci sono, ma è come se ci fossero, nascoste nell’improvvisazione di Shepp. È un pianto, è il lamento di chi si sente come un bambino senza madre, perduto, lontano da casa: a long way is from home… Ma la canzone lascia uno spiraglio, anche solo perché il testo dice sometimes, qualche volta, non sempre. Perfino in quei momenti oscuri resta la possibilità di un altro stato d’animo. Del resto, insieme alla scalata verso le note acute, verso il singhiozzo aspro, la voce del sax canta anche nelle note basse, che sembrano corrispondere a una sorta di presenza materna. La voce di chi è strappato via, di chi è senza casa, si mescola a questa vibrazione bassa, intensa, come un promemoria: tieni duro, tutto questo passerà, tutto questo non cancella la speranza di una madre, di una casa, di una presenza amica.
PS: La poesia Inizio di primavera è tratta dalla raccolta Inno alla gioia (Nardini, 1983) e si trova pure in Poesia come un albero (Marietti, 2010). Il brano di Archie Shepp proviene dall’album Goin’ Home (Steeplechase, 1977).
Grazie Andrea per aver condiviso con noi lettori queste belle riflessioni e per la tua capacità di trovare sempre la speranza anche in mezzo al buio!
Grazie mille per le sue parole che mi hanno infuso un po’ di speranza in un giorno orribile. Avevo bisogno di questo.
Sono lieto che le mie parole le siano state d’aiuto.
Coraggio!
Caro Andrea, a proposito di speranza…
L’allievo è furibondo con il mondo. Non parla, è chiuso in sé stesso come in una bara. I suoi l’hanno abbandonato, non si sa bene il perché. L’insegnante di disegno della scuola speciale è deciso a scardinare quel guscio che lo strangola. – Non serve dipingere opere d’arte per sentirsi gratificati – spiega l’uomo al ragazzo. – Mentre dipingi, ti immergi in un mondo ovattato in cui ogni distrazione o preoccupazione restano fuori. Persino i rumori del traffico si attenuano. Credimi – insiste – in quel momento potresti addirittura essere felice.
Grazie mille, Lorenza.
Mi viene in mente un pensiero di Giacomo Leopardi: «Ma quantunque chi non ha provato la sventura non sappia nulla, è certo che l’immaginazione e anche la sensibilità malinconica non ha forza senza un’aura di prosperità e senza un vigor d’animo che non può stare senza un crepuscolo, un raggio, un barlume di allegrezza» (Zibaldone, 24 giugno 1820).