Prima i nostri

Boom di suicidi. Così titolava un giornale, commentando il numero di persone che nel Canton Ticino, fra agosto e settembre, si sono tolte la vita. La cosa mi ha colpito sia perché si tratta del luogo dove abito, sia perché un titolo del genere, così banalmente allarmista, è riuscito a generare in me un sentimento di tristezza tanto profondo, tanto complesso e ramificato che alla fine non so nemmeno più perché sono triste. Ho pensato quindi di scrivere sull’argomento, non per dire qualcosa ma per capire meglio questa faccenda. Tuttavia ho fatto uno sbaglio: ho lasciato che l’atteggiamento giornalistico invadesse il campo della scrittura.
Mi sono messo a fare ricerche. Ho esaminato le cifre dell’Ufficio federale di statistica, ho compulsato i rapporti della polizia, controllando gli eventi senza reato qualificato, distinguendo i suicidi tramite organizzazione di assistenza dai suicidi veri e propri (con la tabella che precisa: di cui uomini, di cui Svizzeri, di cui minori), prendendo in considerazione anche i tentativi di suicidio accertati e incrociando i dati con quelli dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ho confrontato la situazione svizzera con quella di altri paesi europei ed extraeuropei. In seguito ho paragonato le differenti modalità di esecuzione di quello che qualche giornalista ancora definisce gesto fatale (più per evitare una ripetizione che per interrogarsi sul ruolo del fato, del destino inesorabile che forse governa le nostre piccole azioni umane; e forse no, per fortuna). Infine mi sono interessato anche alla prevenzione, in particolare studiando il prezioso servizio del Telefono Amico (numero 143). Ho scoperto che tale servizio, in collaborazione con le autorità, ha posto una cabina telefonica sulla diga della Verzasca, per offrire un ultimo appiglio a chi salisse fin lassù con l’intenzione di gettarsi nel vuoto.
Tutto questo non mi ha aiutato. Infatti non riporterò qui nemmeno una cifra, tra le tante che ho annotato nel taccuino. Non citerò nemmeno l’evoluzione storica del fenomeno e le indagini socio-psicologiche volte a individuarne le cause. Non vorrei nemmeno precisare la situazione della Svizzera, della Svizzera italiana o dell’Italia, cioè i luoghi che conosco meglio, in rapporto alla situazione internazionale. Vorrei partire invece dal fatto che un suicidio è un suicidio, e che soltanto accessoriamente diventa una percentuale, un fenomeno, una tendenza, magari un boom.
Certo, il suicidio assistito è un’altra cosa, e infatti qui non ne parlerò. Così come è diverso uccidersi perché si è in preda al terrore, alla fame, in situazioni di povertà, tortura, sofferenze indicibili. A me basterebbe capire meglio i suicidi che mi hanno toccato più o meno da vicino. Ho conosciuto infatti alcune persone che poi si sono suicidate. Ho letto e amato scrittori che, magari nel pieno del successo professionale, si sono suicidati. Ho incrociato pure qualcuno che ha tentato di suicidarsi, o che ha voluto sucidarsi, senza poi arrivare a suicidarsi davvero.
Che cosa succede, qual è la spinta che, in una situazione di pace, di salute, di relativa tranquillità economica, porta al desiderio di uscire dalla propria vita? Di certo nessuno è al riparo dall’angoscia. (Sembra una frase scontata, ma qualche volta giova ripeterlo.) Anzi, il fatto di vivere in un paese (più o meno) permeato di benessere, come lo sono i paesi occidentali, può mettere a nudo quanto sia precaria ogni forma di benessere, fisico e spirituale. Soprattutto, il benessere non mette al riparo dalla solitudine. E ogni suicidio è avvolto, riempito, intriso di solitudine.
La ricerca di legami definisce ogni essere umano. Appena nati, ci viene reciso il cordone ombelicale, ed è come se la nostalgia di quella connessione primigenia si ripercuotesse su ogni azione successiva. Sentiamo il peso dell’io, e a ogni costo vogliamo sentirci protetti nel tepore rassicurante di un “noi”. Credo che questo spieghi alcune paure collettive, che forse mascherano disperazioni individuali. Convincersi di essere parte di una comunità, sentirne il privilegio, la dolcezza dei valori condivisi. E di conseguenza avere la necessità di ribadirne l’esclusività, serrando i ranghi. Allora si contingenta il numero di stranieri, si lanciano iniziative popolari che gridano “Prima i nostri!” (ed è come una richiesta d’aiuto dal profondo dell’abisso), ci si aggrappa alle tradizioni, al buon vecchio tempo in cui eravamo gentili, alla necessità di non coprirsi il volto nei luoghi pubblici, alla fierezza per le imprese sportive dei nostri ragazzi.
Prima i nostri. I nostri ragazzi. Il nostro paese. I nostri giovani. Ecco, vedete? Siamo un “noi”. Possiamo dire: i nostri valori. Come se ci fossero valori nostri e valori altrui, e non semplicemente valori, da qualunque parte provengano, in opposizione a ciò che invece non vale. Ma tutto questo “noi” non mette al riparo dalla noia. È la noia insidiosa dell’uomo che esce di casa intorno all’ora di cena, una sera d’inverno. E si accorge che a casa potrebbe anche non tornarci.
Vorrei seguire quest’uomo. È lui che mi permetterà forse di capire. Eccolo che lascia l’automobile e prosegue a piedi. Attraversa il parcheggio davanti alla sagoma oscura di una chiesa. Nota che stanno restaurando la chiesa – vede le impalcature, gli avvisi del cantiere. Pensa che restaurare sia una bellissima parola, ma anche un inganno. L’uomo non è isolato: ha una famiglia, amici, colleghi. Eppure non c’è nessuno di loro che prima o poi non se ne andrà, lasciandolo solo. Presto o tardi. L’uomo sa che ha cominciato a morire quando gli hanno tagliato quel cordone, qualche decina di anni fa. Di giorno in giorno vedrà il suo declino, il suo lento abbandonarsi alla deriva di un corpo meno efficiente, di un futuro più ristretto. Di certo l’uomo si ammalerà, e scivolerà negli ultimi giorni della sua vita. Oppure un incidente lo farà piombare di colpo nell’incoscienza.
Nel buio, l’uomo cammina su un sottile strato di ghiaccio, attento a non perdere l’equilibrio. Mica vorrà cadere, magari picchiare la testa e restarci secco? L’uomo sorride e si accorge di quanto sia terrificante quel suo sorriso. Pensa alla felicità. Ai momenti di quiete. E intorno, l’infelicità delle persone vicine, delle persone lontane, degli affamati, dei torturati. Intorno, l’infelicità passata e futura. Intorno, l’incapacità di provare piacere, se non mentendo a sé stesso. Intorno, la consapevolezza che, anche quando la ragione cerca di trovare un senso in tutto questo, la sensibilità dell’anima lo rifiuta.
L’uomo è straniero, anche in mezzo ai “nostri”. Questa è la sua condizione inesorabile. Cammina lungo la strada, di fianco ai binari della ferrovia. Si affaccia al parapetto, vede il cartello giallo con il teschio: pericolo di morte, non toccare i fili. Sente tutto il peso di esistere, la stanchezza di vagare in mezzo a un paese straniero, fingendo che i legami siano duraturi, fingendo di conoscere la lingua, le usanze, ma irrimediabilmente solo. L’uomo fissa i binari e pensa che, dopotutto, non fa una grande differenza se la morte accade ora, fra un anno, fra dieci anni, fra venti. Il mondo potrà continuare a essere anche senza di lui, e almeno la solitudine diventerebbe un fatto, non solo una condizione straziante.
Non so andare oltre. Mentre torno a casa, porto con me l’immagine di quell’uomo fermo sopra i binari. Essere stranieri non ha a che fare con il passaporto. (Perché poi, in fondo, il passaporto è solo una sciocchezza burocratica, inventata per mantenere un’apparenza di ordine nel crogiolo dell’umanità.) La solitudine e l’essere stranieri si manifestano come una ferita, ma occorre credere che non sia incurabile. Dopo giorni e giorni di cammino nel deserto, capita di giungere a un accampamento. Non è difficile riconoscere che, fra le tende, non c’è nessuno dei “nostri”. Siamo inevitabilmente stranieri, e come tale veniamo accolti. Mio padre è straniero. Mia madre è straniera. I miei parenti, i miei amici. E questa indecifrabile cosa che chiamiamo vita oscilla sempre, paurosamente, fra i poli della solitudine e dell’accoglienza. Speriamo che si fermi dalla parte giusta.

 

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15 pensieri su “Prima i nostri

  1. Grazie. Avrei mille cose da dire ma dico solo grazie. Non avrei mai pensato di trovare qualcuno che parlasse di me con tanta precisione. Cerchiamo di essere resilienti!

    1. Grazie a lei. Avrei voluto essere ancora più preciso, ma non è facile. Ci proverò di nuovo. E sono d’accordo con lei: cerchiamo di resistere, di tenere duro, di fare il nostro lavoro meglio che possiamo.

  2. Credo sia un argomento di portata troppo vasta e sfaccettata che pare di difficile lettura: certamente non è possibile generalizzare. Ma il pensiero di essere stranieri dentro l’insieme che ti ha generato… be’ mi pare veramente molto centrato, forse il miglior punto prospettico possibile?

    1. È sempre possibile affinare lo sguardo. Ma quello che lei riassume in poche parole efficaci – il pensiero di essere straniero dentro l’insieme che ti ha generato – mi pare un’evidenza. Naturalmente questo non spiega, aiuta soltanto l’esercizio dell’empatia. Sta di fatto che il suicidio è principalmente sofferenza; e la sofferenza degli esseri viventi, al di là di ogni analisi e di ogni statistica, resta un mistero.

  3. Grazie Andrea per questa riflessione su un argomento tanto delicato quanto comune a tutti. Trovare le strade per sostenere la solitudine che ci accomuna è un esercizio quotidiano che ognuno declina in modo del tutto personale… L’incontro con l’altro consente sguardi, offre scorci di possibili strade per proseguire il cammino.
    Ancora grazie.

    1. Grazie mille, Barbara. Uno degli aspetti più pericolosi del sentimento che cerco di descrivere è che, benché come dici tu sia comune a tutti, nel suo manifestarsi si presenta come irreparabilmente individuale, creando in questo modo un fossato fra l’io e il mondo. Allora, come dici tu, si tratta di sostenere la solitudine. Mi piace molto questa espressione. È una delle cose più difficili, ma bisogna provarci.

  4. Caro Andrea, vengo da un pomeriggio dove sono stata accanto ad un amico che ha deciso di lasciarci una settimana fa; lo abbiamo accompagnato in chiesa e pregato per lui; spero tanto abbia capito, ovunque ora si trovi, la bontà dei nostri pensieri, rivolti a lui; penso spesso che tutti siamo come “d’autunno sugli alberi le foglie”; mi piace molto la tua descizione dell’equilibrio fra accoglienza e solitudine; che sia questo equilibrio a lasciare la piccola foglia attaccata al suo ramo sull’albero?

    1. Gentile Carmen,
      grazie per aver condiviso il tuo pomeriggio di commiato.
      Spero che questo articolo, nel suo piccolo, con tutte le riflessioni che seguono nei commenti, aiuti a trovare un po’ di speranza: l’equilibrio fra solitudine e accoglienza è fragile, così come è fragile la nostra vita. Ma credo anch’io che le piccole foglie, talvolta, siano più tenaci di quanto sembrano. Uno sguardo, una parola, una telefonata, una mano tesa nel momento giusto possono fare miracoli.

  5. Caro Andrea,
    mi hanno riferito di una ragazza che viveva a Barcellona e che, fra l’altro, dipingeva. Il suo sogno era di fare una grande mostra. Finalmente riuscì a organizzarla, con un successo strepitoso, al di là di ogni aspettativa. Ma poi… dopo il grande successo, ha passato un pomeriggio intero a piangere. Non bastava…
    Cesare Pavese, nel giorno in cui riceve il premio Strega annota: “A Roma, apoteosi! E con questo?” Entrambi i casi rivelano il bisogno di un noi, di non sentirsi soli, il bisogno di un abbraccio. L’esperienza della solitudine, dell’incomunicabilità la conosco bene. Essa paradossalmente può insinuarsi pure tra le rassicuranti mura domestiche e tra i famigliari più stretti. Io mi aggrappo a quella frase che papa Francesco ci ricorda spesso: «Anche se tuo padre e tua madre ti abbandonassero, io non ti lascerò» (cfr. Sal. 27, 10; Is. 49, 15).
    Ciao. Scusa…

    1. Caro Nino,
      grazie mille per queste tue parole. Spero che siano un aiuto per me e per tutti i lettori del blog. Non ho altro da aggiungere, se non un pensiero di riconoscenza per Cesare Pavese, che ho scoperto da ragazzo e che ho sempre sentito vicino nella sua solitudine. Un caro saluto, con gratitudine.
      Andrea

  6. È difficile aggiungere un commento a una riflessione così personale e autentica.
    Il “suicidio” , appunto, mi sembra un modo disperato di affermare la propria individualità in contesti che non lo permettono. Purtroppo dà luogo, come dici tu, a generalizzazioni, a messe a confronto di fatti e di statistiche. Sarà poi possibile vivere questa disperata presa di possesso della propria vita, decidendo di perderla, in altri modi che possano integrare ciò che di “suicidario” c’è in noi con i nostri bisogni di amare, di essere amati e di condividere?
    Pare che in questo luogo sia possibile.
    Franco

    1. Grazie per il commento. Anche secondo me è possibile vivere questa disperazione in altri modi. È sicuramente possibile. Occorre comunque riconoscerla, non aver vergogna di portarla alla luce prima che sia troppo tardi. Inoltre, bisogna abituarsi a questa dimensione: la possibilità. Credo che il suicidio, fra le altre cose, sia una negazione della possibilità, un rifiuto che gli eventi siano possibili, possano accadere e sorprenderci fuori dal vicolo senza uscita a cui si sono ridotte le nostre prospettive. La possibilità è una via di salvezza.

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