Ogni tanto qualcuno mi chiede: ma che cosa significa “scrittura creativa”? E tutti questi corsi, queste scuole, a che cosa servono? Spesso la domanda mi coglie impreparato e finisco per dare una risposta più teorica di quanto vorrei. Certo, ogni forma di scrittura in fondo è “creativa”, perciò il termine può sembrare quasi assurdo. Per giunta la pretesa d’insegnare un’attività artistica ha dei limiti evidenti: la tecnica può spingersi fino a un certo punto, ma poi la scrittura – come la musica, la pittura, il cinema – richiede un cammino di ricerca personale, allo scopo di favorire la maturazione negli anni di una propria voce, di un proprio stile.
In realtà non si tratta per me di un problema teorico, ma di un mestiere concreto. Da anni tengo laboratori nei licei o in altri contesti didattici, fra cui la Scuola Flannery O’Connor di Milano e la Scuola Yanez, che opera fra Italia e Svizzera. Con quale spirito, dunque, affronto il lavoro sui testi? Ci pensavo oggi mentre, fermo al semaforo, lasciavo che lo sguardo si perdesse in un terrain vague di fianco alla strada. È una fetta di prato incolto, con qualche vecchio albero da frutto e il ricordo di un sentiero nell’erba alta. Mi sono accorto di due cose. Primo, lasciare che gli occhi divaghino in quello spazio è per me un’abitudine, anche se finora l’avevo sempre fatto senza consapevolezza. Secondo, ho notato che il prato sta per andarsene. Sul terreno infatti sono comparse quelle che in Svizzera si chiamano modine: sono pali di legno o di metallo che, prima dell’avvio di un cantiere, disegnano nell’aria la forma che occuperà il futuro edificio.
Il terreno dunque è ancora incolto, ma ci vuole poco a immaginare il grande caseggiato che lo sostituirà. Comprendo che ciò significherà appartamenti, negozi, opportunità economiche. Ma è più forte di me: amo i terrains vagues e mi rattristo ogni volta che ne scompare uno. In italiano si chiamano spazi residuali, in inglese vacant land. Sono definiti dall’assenza, dalla mancanza di una funzione utile. Un terrain vague è un vuoto, un pezzo di natura dimenticato dentro la città, una svista geografica. La particolarità di questi frammenti è quella di avere un loro tempo, un loro ritmo segreto che non sempre si accorda a quello del contorno urbano. Ecco perché i terrains vagues mi fanno pensare alla “scrittura creativa”. Per me un laboratorio non ha solo lo scopo di aiutare uno scrittore a trovare la sua voce, né quello di fornire mezzi tecnici a chi voglia affinare gli strumenti del mestiere. I laboratori servono anche a controbilanciare un aspetto fondamentale della scrittura: la solitudine. È giusto che un autore conosca la solitudine, ma senza esagerare (altrimenti si rischia l’isolamento). È giusto che chi lavora con le parole approfondisca il valore del silenzio, ma sempre senza esagerare (altrimenti si rischia l’aridità). Nel laboratorio si approfondisce l’amore per la letteratura, come lettori prima che come autori. Il fatto di condividere un’esperienza non rende meno acuminato e solitario il lavoro di chi scrive, ma permette d’interrogarsi e di cogliere altri punti di vista.
La scrittura è come un terrain vague nel tessuto della quotidianità, uno spazio imprevisto, non riducibile a uno scopo immediato. Quando tengo un laboratorio, mi capita di avere intorno persone dai quindici agli ottant’anni (e anche oltre…), che fanno i mestieri più disparati e che vogliono scrivere per i motivi più differenti. Qualcuno vuole costruire racconti o romanzi, qualcun altro vuole raccontare di sé o tenere traccia dei suoi viaggi, altri ancora vogliono diventare lettori più attenti provando il gesto della scrittura. È come dedicarsi a uno strumento musicale: non tutti imparano a suonare il pianoforte per poi incidere un disco; spesso c’è soprattutto il desiderio di conoscere un nuovo tipo di linguaggio. Alla fine l’avvocato o il meccanico che frequenta un laboratorio non diventerà magari uno scrittore, ma è possibile (e auspicabile) che la passione per la letteratura lo aiuti a diventare un avvocato o un meccanico migliore.
Del resto anch’io prendo una lezione di saxofono una volta alla settimana, ma non ho certo intenzione di suonare in pubblico. Semplicemente, a volte uno sente l’esigenza di trovare un terrain vague. Allora occorre parcheggiare la macchina, allontanarsi dal traffico e oltrepassare il cancello chiuso.
Così ho fatto oggi. Ho scavalcato il recinto, ho superato una macchia di bambù e mi sono inoltrato nel vuoto. Le modine, da vicino, parevano dei totem. In mezzo al prato – benché si sentissero ancora le automobili – il vento e il fischio di un uccello mi hanno procurato una sensazione di silenzio, di lontananza dal mondo. È proprio a questo altrove, ho pensato, che approda chi si cimenta nella scrittura.
Ho raggiunto un albero da frutto, mi sono arrampicato sui rami più bassi e da lì ho contemplato il terrain vague. Mi sentivo come se guardassi verso il passato. Fra poco non ci saranno più né gli alberi né il vuoto; già ora, in mezzo ai rami, s’infila come un monito l’asta di metallo, a delimitare l’angolo di un muro o il vano di un garage. Passeranno gli anni e forse, in fila al semaforo, arriverò perfino a scordarmi che al posto del caseggiato c’era uno spazio incolto.
Ci sono tuttavia dei terrains vagues che, nella loro provvisorietà, hanno la capacità di restare. La lettura e la scrittura a ben vedere non servono a niente. La vita sembra fatta di cose ben più necessarie e giustificabili: cibo, contratti, amori, palestre, case, affari, figli, aperitivi, amicizie, vacanze… Insomma, perché scavalcare il cancello? Perché camminare nella terra di nessuno? La risposta non può essere teorica. Bisogna proprio andarci e sentire, sotto i nostri passi, il frusciare di quell’erbaccia inutile e preziosa.
PS: Qualche informazione per chi fosse interessato. Le lezioni della Scuola Flannery a Milano sono già in corso; ci si potrà iscrivere nuovamente all’inizio del 2018. La Scuola Yanez invece apre nuovi laboratori per l’autunno-inverno (trovate qui tutti i dettagli).
PPS: Ne approfitto per ringraziare le scuole e le associazioni che negli anni mi hanno chiamato per tenere lezioni o laboratori. Oltre a quelle che ho già menzionato, voglio citare anche Lalineascritta (Napoli). Il laboratorio fondato da Antonella Cilento festeggia i venticinque anni di attività: un traguardo importante e un segno di speranza per chi crede nella letteratura.
Pensavo di essere l’unico ad amare gli spazi selvaggi dentro le città, e invece… Complimenti per il pezzo: preciso e poetico insieme. Quanto ai laboratori di scrittura, non ne ho mai fatti, ma ho seguito dei gruppi di lettura. Il più vicino per me sarebbe la Scuola Yanez a Varese… vedremo! Bello anche il sito della Lineascritta. C’è anche l’opportunità di seguire online, che mi sembra molto interessante. Complimenti e avanti così con il blog!
Grazie mille, Zeno. Dovremmo creare una SATV (Società Amici dei Terrains Vagues), ma ho l’impressione che sarebbe fin troppo ufficiale, per un amore clandestino e tinto di malinconia com’è quello per gli “spazi residuali”…
La Lineascritta è sempre all’avanguardia, anche con la possibilità di seguire i corsi online. Di recente pure le altre due scuole da me citate offrono questa possibilità, sia pure solo per anche corsi. Per chi abita lontano è una buona occasione. Un cordiale saluto!
Speriamo che la scrittura creativa serva a fermare la cementificazione della città che invade ormai anche i pochi spazi risparmiati finora! Bello il testo e bella l’idea di mettere audio e foto: sembra di essere lì!
Grazie mille, Emma. Purtroppo non credo che la scrittura creativa possa fermare il cemento… o forse, magari, con il tempo, può aiutare le persone a cogliere la bellezza (è uno degli scopi principali dei laboratori, secondo me); e quindi a cogliere anche la “bellezza inutile” dei terrains vagues… In fondo, la scrittura è (anche) una forma di resistenza!
Bello! Devo fare una gita in periferia e fotografare i “terrains vagues”, prima che scompaiano… Una domanda sui laboratori (quelli della Scuola Yanez in particolare). Li tiene tutti lei o si avvale di collaboratori? Grazie, un cordiale saluto!
Sì, ogni città dovrebbe mantenere un Catalogo Aggiornato degli Ultimi Terrains Vagues…
Alla Scuola Yanez, così come alla Scuola Flannery, non sono certo io l’unico insegnante. In particolare, per quanto riguarda la Scuola Yanez, tengo i laboratori a Lugano e a Bellinzona, e qualche volta pure qualche laboratorio in Italia. In generale, molti laboratori sono tenuti dalla direttrice didattica Barbara Bottazzi, altri (come quello via skype) dall’autore e regista Franco Di Leo. Ma poi la Scuola Yanez è aperta alle collaborazioni con molti altri bravi insegnanti. Non soltanto scrittori: uno può essere un bravo scrittore e un pessimo insegnante di scrittura creativa; al contrario, molti ottimi insegnanti di scrittura non sono autori in proprio, se non nel contesto dei laboratori. Questo perché una buona scuola di scrittura va oltre il semplice – e un po’ riduttivo – “t’insegno come si fa a scrivere un libro (e magari a pubblicarlo)”. Un cordiale saluto, buona domenica!
Devo rileggere con più calma. In ogni caso mi intriga particolarmente la focalizzazione sulle “isole naturali” in un territorio urbano sempre più presente ed invadente: la Pianura padana risulta essere oggi una megalopoli diffusa e senza soluzione di continuità (da una ricerca WWF), gli spazi di Milano Expo 2015 avevano sacrificato una delle poche aree coltivabili ancora presenti nelle periferie milanesi, e per protesta personale ho rifiutato di visitare la fiera. Anche in alcune cittadine di fondo valle ed in villaggi alpini le nuove costruzioni (spesso brutte) stanno “urbanizzando” il borgo antico. In fondo manca una progettualità attenta alle nuove ma vecchie esigenze di vita che non siano di eccessivo stress fisiologico.
Sono nato ed ho vissuto l’infanzia e l’adolescenza in una periferia cittadina lombarda dove le poche costruzioni spiccavano in una campagna ancora coltivata (soprattutto a mais, il “formentone” come lo si chiama nella Svizzera italiana, il “marangùn” come lo si chiamava nel milanese). Tante volte ero stato da bimbo coi contadini a sfogliare le pannocchie dei loro grani dorati! Poi c’era ancora qualche gelso (il “murún”) che si caricava di more, ultime vestigia della produzione di seta che facevano fino ai primi del ‘novecento le famiglie tra l’Alto Milanese ed il Comasco ed il Varesotto ed il Mendrisiotto… oggi nella mia cittadina altomilanese siamo passati da 47 mila perone a sessantamila e ci stiamo avvicinando ai 70 mila che l’Acquedotto comunale comincia a soffirne… e la campagna è scomparsa e c’è solo case e cemento e pochissime isole di natura incontaminata. Nostalgia della “vigna di Renzo” e… ma come diceva il Celentano della via Gluck?!?…
Se può interessare qualcuno, nella realizzazione di un sito web dedicato all’Ambiente naturale e le sue contaminazioni antropiche (=attuali mutamenti climatici), avevo espresso un parere che molto è vicino al tema dei “terrains vagues” molto ben individuato da lei Signor Fazioli. Poi mi è piaciuto particolarmente il “sentire il terreno”
entrando fisicamente e camminare ed arrampicare ed ascoltare… perché mi pare che nell’era della comunicazione virtuale le persone stiano perdendo l’abitudine di toccare la terra (e forse anche di guardarsi negli occhi? abusati dai bit elettronici?): lo si è notato anche nel simposio luganese del premio Moebius, sabato scorso, lo si ascolta in rete (volendo).
Ambiente e Territorio – Lo stato del Territorio, come lo utilizziamo e come lo trasformiamo, come lo viviamo e come lo percorriamo, è essenziale per le specie viventi e per il nostro stesso ben-essere. Le costruzioni dell’edilizia, le attività umane, le vie di comunicazione, l’assetto urbanistico delle città e delle periferie, l’esasperata canalizzazione dei corsi d’acqua che vengono così privati delle aree golenali, la creazione di bacini idrici artificiali… sono tutti argomenti che vanno studiati al meglio per interferire il meno possibile con il territorio, non creando sbilanciamenti all’equilibrio naturale consolidato. Occupare senza limiti il territorio impedisce il contatto fisico col terreno (chi lo ha potuto fare almeno da bimbo sa bene cosa significhi), limita la realtà di aree conviviali per le persone, incanala acqua e vento tra gli edifici (potenziandone gli effetti distruttivi), addirittura crea dei microclimi inusuali potenzialmente dannosi (come nel caso delle “isole di calore” cittadine); poi cancella i “corridoi biologici naturali” essenziali per la fauna e la flora, impoverendo l’habitat e compromettendo la bontà del nostro ambiente.