E toseed tumasăd-t

Tra i Tuareg del Niger ogni ragazzo, al momento della pubertà, deve dimostrare il suo valore affrontando il rischio della solitudine nel deserto. Il giovane si allontana da solo, in groppa al suo cammello, per seguire le tracce di un altro cammello che è stato appositamente liberato tre giorni prima. Il suo compito è seguirne le tracce, ritrovarlo e riportarlo all’accampamento. La seconda parte della prova è ancora più difficile. Prima di potere indossare il turbante che vela il viso, segno di maturità, il ragazzo dovrà passare sette giorni da solo chiuso in una tenda. Per conto mio, credo che non riuscirei a ritrovare un cammello nel deserto; ma ho dei dubbi anche sulla mia capacità di affrontare l’isolamento della tenda.
I Tuareg conoscono tutti i pericoli della solitudine. Per la prima volta, da quando ogni mese torno alla mia anonima piazzetta, anch’io percepisco la minaccia dell’abbandono, la violenza della vita che brucia ogni cosa, come una tempesta di sabbia, e che si lascia indietro i suoi relitti. Non è un giorno afoso, ma il sole picchia. La fontana, al centro della piazza, è un’offerta di refrigerio. Si avvicinano vecchi che inumidiscono un fazzoletto e se lo portano alle labbra, ragazze che riempiono bottiglie di plastica, un cagnolino che ficca il muso nel canaletto di scolo. Mi siedo nella parte in ombra dell’unica panchina libera. Scatto due fotografie con il telefono, prendo un appunto sul taccuino e poi sfoglio il libro che mi sono portato dietro: Barbara Fiore, Tuareg (Quodlibet 2011).
Anche la piazzetta è un deserto. Forse non nell’accezione comune, ma di sicuro in senso etimologico: il latino deserere significa “abbandonare” (composto da de + serere, ‘legare’). L’umanità che approda qui in un pomeriggio d’agosto è per certi versi derelitta: pensionati con i calzoni lunghi e un cappello a proteggere la pelle bianca; un uomo in canottiera, seduto su una panchina esposta al sole; un ubriacone che tiene le birre al fresco nella fontana; una ragazzina magrissima che si siede, guarda a lungo il telefono e poi se ne va. Anch’io, con il mio libro e il mio taccuino, sento che i nodi si stanno sciogliendo e che dentro di me qualcosa rimane allo scoperto, sotto un sole che non perdona.
Un autobus rallenta davanti alla fermata, dove non aspetta nessuno. Nell’aria spiccano i colori delle aiuole e il verde profondo degli alberi. A qualche centinaio di metri c’è un Mc Donald’s, da cui giungono zaffate di odori: olio fritto, carne, insieme a qualcosa di dolciastro e imprecisato, a metà fra il ketchup e la ciambella glassata. Il perimetro rotondo della piazzetta aumenta l’impressione di essere fuori dal tempo. Ogni gesto pare una replica. Un bambino incespica verso la fontana, passa un uomo in bicicletta, i vecchietti si alzano e si siedono a turno sulla loro panchina, come se eseguissero movimenti stabiliti in precedenza: le prove generali di uno spettacolo destinato a non andare mai in scena.
Giorno dopo giorno l’estate si trascina in questo frammento di deserto, in cui ognuno fa quello che può per sopravvivere. Le lunghe ore luminose portano verso una serata calda, infinita, e domani tutto ricomincerà. Qualche vecchietto non sarà al suo posto, ma ne arriveranno altri, insieme ad altri ubriaconi, altri cani ansimanti, altre signore in abito lungo color fucsia. Qualcuno si accorgerà della differenza? Chi tiene nota di chi viene e di chi va? Dove si deposita questa vita minuscola, fatta di attese, di chiacchiere, di sguardi persi nel vuoto?
I pensionati stanno parlando di donne. Uno di loro esprime l’opinione che siano figlie del diavolo. Racconta una vicenda intricata di un suo conoscente, più volte divorziato e ora sposato con una brasiliana di trent’anni più giovane. Le donne sono più furbe degli uomini, esclama, ma io sono più furbo di loro: da cinquant’anni me le giro e rigiro! Alla sua destra, un uomo più anziano e più pallido si limita a guardarlo con la coda dell’occhio, sotto il suo cappello, e mormora a fior di labbra: Come no. Anche i pettegolezzi, tra il fruscio del traffico e quello della fontana, sembrano appartenere a un mondo remoto, fuori dal confine circolare.
Lîtni ägg Äouenzeg, un cantore tuareg nato nel 1856, compose nel 1886 un poema per un’amica che abitava nella valle d’Âoulien. Dalla lontananza di questa valle, mentre cavalca un cammello bianco, immagina di sentire il tormento dell’amore che cala su di lui e che lo consuma, bruciante come il vento d’estate. Nella piazzetta invece il vento porta odore di patatine fritte; e perciò, forse, questo deserto è ancora più insidioso. Ma come ogni deserto, potrebbe rivelare anche una promessa. Se uno sa resistere alle banalità sulle donne, alla crudeltà del tempo, all’angoscia della solitudine, forse alla fine otterrà – se non di essere più felice – almeno di conoscere meglio sé stesso.
Nel mio taccuino ho copiato un proverbio tuareg, scritto con i caratteri tifinagh (un antico alfabeto geometrico, usato da migliaia di anni dalle popolazioni nomadi). Provo lentamente a tracciarlo anche sul legno della panchina. Si pronuncia in questo modo: E toseed tumasăd-t. Significa: Diventa il luogo in cui sei arrivato. Ecco, per sopravvivere al deserto, forse bisogna essere parte del deserto, assecondarne i ritmi, la lentezza. Nel mio piccolo, provo a diventare parte di questa piazzetta fuori dal mondo. E provo a resistere.

PS: Le informazioni sulle prove dei giovani tuareg provengono dal libro di Barbara Fiori che ho citato sopra. Il canto di Lîtni ägg Äouenzeg è tratto da Chants touaregs recueillis et traduits par Charles de Foucauld (Albin Michel 1997; in origine pubblicati da Charles de Foucauld in due tomi, con il titolo Poésies touarègues, nel 1925 e nel 1930). Il proverbio è tratto da Mohamad Ag Erless, Provèrbes et dictons touaregs (Géorama 2014). In realtà i caratteri tifinagh non prevedevano l’uso di vocali, ma oggi si tende a introdurle perché l’alfabeto possa venire impiegato con più scioltezza. Su questo argomento, consiglio di leggere Dominique Casajus, L’alphabet touareg. Historie d’un vieil alphabet africain (CNRS 2015).

PPS: La piazzetta si trova a Bellinzona, nel Canton Ticino (Svizzera), tra via Raggi e via Borromini, dietro la fermata dell’’autobus “Semine”. Per leggere le altre puntate della serie, cliccate qui: gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno, luglio.

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12 pensieri su “E toseed tumasăd-t

  1. La piazzetta sta diventando una specie di “luogo letterario”. Visite guidate sul posto? Con i pensionati della panchina a fare gli animatori?

  2. Molto bella l’idea d’impastare la vertigine del deserto con il perimetro chiuso della pizzetta. È affascinante anche il gesto di tornarci una volta al mese, come un calendario della quotidianità. Resisti, coraggio! 🙂

  3. Sono d’accordo con Giovanni: ci starebbe una visita guidata! Bello lo stile, intenso ma anche umoristico, come sempre. E mi è piaciuto il proverbio tuareg… sarebbe bello avere altri dettagli su quell’alfabeto, in uno dei prossimi post… 😉

  4. Mi ha ricordato la scena memorabile del ragazzo arabo che parte solo nel deserto in cerca dell’amico caduto dal cammello (per stanchezza) mentre procedevano in carovana. Nel film Lawrence of Arabia di David Lean, con un cast di attori di prim’ordine, Peter O’Toole, Alec Guinness, Omar Sharif, Antony Quinn, Jack Hawkins… è formidabile e intensissima e fa lacrimare per l’emozione la scena lunga, lunghissima, di quando si vede l’orizzonte del deserto, e poco a poco un puntino scuro si ingrandisce e si ingrandisce e prende forma… ed è quel ragazzo che torna sfinito cavalcando il cammello sfinito, ma ha l’amico ritrovato con sé, e lo riporta nel gruppo di “Orence”.
    Grazie Andrea per avermi emozionato ed avermi ricordato quell’emozione cinematografica specialissima… in una giornata un po’ dura per aver appreso una cosa bruttissima per una buona amica… cercando un appiglio per poterla aiutare.

    1. Ti sei sbagliato! I due ragazzi arabi sono protagonisti di una scena successiva. È proprio il tenente Lawerence che si addentra solo nel deserto in cerca dell’uomo caduto per stanchezza dal cammello, e che poi torna distrutto dalla fatica fisica in quella meravigliosa scena filmata da David Lean. Da quel momento gli arabi comprendono il vero carattere di Lawrence e lo considerano un condottiero vero, inneggiando a “El Orens”!

      1. È verooooo… ho fatto una figuraccia! me n’ero quasi subito reso conto ma non potevo correggere. Che poi Orence, prima di cadere distrutto a terra, riesce a bisbigliare al capo dei predoni del deserto (Antony Quinn): “Niente è scritto!”

    2. Grazie, Giuseppe. Non ho mai visto Lawrence of Arabia; lo farò quanto prima! Mi spiace per la giornata dura, e sono contento di aver potuto offrire una piccola consolazione. Coraggio, a presto!
      PS: Grazie a Carlo per la rettifica. Giuseppe: nessuna figuraccia, ci mancherebbe! Anzi, bella la citazione: Niente è scritto!, proprio così.

  5. M’hai fatto venir voglia di tornare nel deserto!
    Ps hai davvero vandalizzato una povera panchina indifesa nella piazza?

    1. Anch’io amo il deserto. Quello della piazzetta a fine agosto ma anche quello vero (lo amo idealmente, perché non ci sono ancora mai stato, se non di passaggio). Ci penserò per il prossimo viaggio, dopo quello a Parigi…
      PS: Ebbene sì! Ma più che vandalizzato, direi tuareghizzato…

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