Stavo viaggiando in treno. Un uomo sulla trentina si è rivolto a me, dicendomi di avere letto un paio di miei romanzi. In particolare gli è piaciuto quello più recente (Gli Svizzeri muoiono felici); in più segue la serie “Il commissario e la badante”, i cui racconti escono ogni settimana sulla rivista svizzera “Cooperazione”. Dopo i complimenti, l’uomo ha detto che doveva farmi un rimprovero.
«Secondo me lei parla troppo degli islamici.»
Ho chiesto spiegazioni.
«Nel romanzo c’è quel Tuareg, quello che viene dal deserto, e nei racconti c’è la badante tunisina. Va bene l’aspetto esotico, ma secondo me oggi è pericoloso parlare troppo degli islamici in questo modo.» Ha aggiunto che l’Islam è un pericolo per l’Europa, essendo incompatibile con la democrazia e con la vita moderna. Perciò i musulmani cercano di portare la šariʾah in Occidente.
Gli ho spiegato che Moussa ag Ibrahim, il Tuareg del romanzo, è assai diverso da Zaynab Hussain, la badante dei racconti. Fra le due figure non ci sono legami, non sono parte di un mio piano narrativo consapevole. Lungi da me l’idea di scrivere libri a tema sull’Islam o su qualunque altra cosa. È vero comunque che i due personaggi sono musulmani; e in quanto tali, riflettono forse una mia esigenza d’interrogarmi su questa cultura. Così come m’interrogo su altre cose, su questioni e dinamiche umane differenti, che senza dubbio affioreranno nelle mie prossime opere.
L’Islam rappresenta l’alterità con cui cui oggi in Europa ci confrontiamo; il diverso e lo sconosciuto che ci mette alla prova. Che ci spaventa e ci rende fragili, quando entra di forza e con prepotenza nella nostra quotidianità e nel nostro modo di ragionare, viaggiare, passeggiare, bere il caffè, parlare con gli amici. Come può non interessarmi? La letteratura serve anche, o soprattutto, a questo: a permetterci di vedere il mondo con altri occhi.
«Ma gli integralisti islamici sono i nuovi nazisti» ha replicato il mio lettore. «Non si può ingannare la gente!»
Questo lettore non è stato il primo a farmi discorsi del genere: qualcuno mi ha scritto, qualcuno è intervenuto alle presentazioni dei miei libri. Ho imparato a mie spese che la disputa teorica spesso non porta a niente. Allora gli ho raccontato della mia amicizia con Ibrahim Kane Annour, un Tuareg che mi è stato d’aiuto nella stesura del romanzo. Gli ho spiegato che lui e la sua famiglia sono musulmani, e che nel loro modo di vivere non ho visto niente di fanatico. Anzi, la loro accoglienza, la loro gentilezza sono in qualche modo favorite dalla loro fede. A casa loro non mi sono sentito straniero. Lo stesso Ibrahim, ospite poche settimane fa del festival Longlake a Lugano, ha precisato che la religione per lui non è una chiusura, bensì l’opposto. «Tutte le religioni sono buone» ha dichiarato. «Altrimenti non sono vere religioni, sono qualcosa d’altro.» Ho sentito con le mie orecchie altri musulmani esprimere la stessa opinione.
Non voglio parlare male del mio anonimo lettore (tanto più che di questi tempi i lettori sono assai rari…). Ma niente di quanto ho detto lo ha smosso di una virgola. Mi sono reso conto che per lui una tradizione religiosa vecchia di quattordici secoli, con oltre un miliardo e mezzo di seguaci, diffusa in tutto il mondo, è intrinsecamente malvagia e sbagliata. Ho provato a dirgli che, certo, l’Islam sta affrontando un momento difficile della sua storia. Ma gli sembrava davvero plausibile la chiusura totale, lo sbarramento e, perfino, la repressione? A che cosa porterebbe? Non sarebbe meglio cercare di studiare, di capire, di trovare un punto d’incontro? Subito lui, specificando di non essere credente, mi ha fatto notare che i valori cristiani occidentali sono in contrasto con quelli islamici. Perché noi dovremmo accoglierli a casa nostra quando loro ci perseguitano a casa loro?
Prima che il treno si fermasse alla mia stazione, il mio interlocutore stava già parlando di non so quali versetti del Corano che inneggiano all’odio. Inoltre aveva letto anche un articolo di non so quale autorevole studioso che sosteneva, da musulmano, che l’Islam fosse una religione violenta. Infine è sceso dal treno, un po’ imbarazzato, mormorando che comunque il mio libro gli era piaciuto.
Avrei potuto citargli versetti del Corano che esprimono l’opposto. Ma a che cosa sarebbe servito? Chiunque può far dire a un testo quello che vuole, con qualche citazione fuori contesto. Anche la pretesa di sapere che cosa sia l’Islam, tutto intero, mi pare semplicistica. Esistono correnti, divisioni, diverse maniere d’interpretare la religione. Non si può fare di ogni erba un fascio. E il Corano, come ogni testo sacro, non può venire usato a casaccio, senza una lettura approfondita.
Mi sembra sbagliato pensare che solo gli islamici non praticanti siano quelli buoni. In tutto il mondo (l’80% dei musulmani non parla arabo) ci sono semplici fedeli, ma anche autorità religiose e civili, che vivono pienamente la loro religione e si oppongono a chi ne distorce gli insegnamenti, falsificandone i valori fondanti. Fra i vari volumi, cito almeno la Guida all’Islam per persone pensanti (EDB 2019). L’autore, Ghazi bin Muhammad, di solida formazione accademica a livello internazionale, è membro della casa reale di Giordania e promotore di numerose iniziative volte a favorire una maggiore conscenza dell’islam e un maggior dialogo interculturale. A proposito della temuta šariʾah, per esempio, l’autore ricorda come non sia una legge immutabile che ordina lapidazioni ed efferatezze, bensì un codice morale prima di essere legale, che non dovrebbe prevalicare le leggi dello stato e che di certo è «una strada verso la vita, non una strada verso il terrore e la distruzione.» Nel libro c’è anche una documentata appendice sull’Isis.
Oggi molti hanno paura. Anch’io resto sgomento di fronte al fanatismo che colpisce ciecamente, diffondendo odio e insicurezza in tutto il mondo: sia in Occidente, sia nei paesi musulmani. L’Islam sta sicuramente vivendo un periodo di crisi, di contrasto interno; nelle regioni islamiche i diritti umani non sono certo acquisiti. Ma ogni religione, anche quella cristiana, ha conosciuto nella sua storia la violenza, la brutalità. In generale, mi sembra una follia rifiutare in blocco le religioni, con le loro funzioni esistenziali e sociali. Anzi, forse è proprio attingendo alle risorse migliori dell’Islam che sarà possibile combattere il terrorismo.
L’Islam fa paura anche per l’immigrazione. Con l’arrivo di parecchi musulmani, qualcuno teme di perdere la propria “identità”. Si parla un’identità compatta, univoca, che dia forza e coraggio, ma tale concetto di identità non è mai esistito, né mai esisterà. «Ciascuno di noi – scrive Amin Maalouf – dovrebbe essere incoraggiato ad assumere la propria diversità, a concepire la propria identità come la somma delle sue diverse appartenenze, invece di confonderla con una sola, eretta ad appartenenza suprema e a strumento di esclusione, talvolta a strumento di guerra.»
Ecco, per me, come lettore e scrittore, l’appartenenza non è legata soltanto alle circostanze della mia nascita, al mio passaporto, alle mie idee o alla mia lingua. Apparteniamo a tutto ciò che abbiamo amato, che abbiamo conosciuto: la nostra identità non può essere che multipla. Un valore fondamentale, in ogni cultura, è il concetto di ospitalità (in senso concreto e anche intellettuale).
«“A due passi da me, ci sei tu. A due passi da te, c’è lui. A due passi da lui, c’eravamo noi”, diceva un saggio.» Questi versi di Edmond Jabès mi sembrano significativi. Il poeta poi aggiunge: «Il criterio è l’ospitalità». Ospitalità significa non chiudersi di fronte a nulla, non rifiutare nessuno. Ricordarsi che, nella nostra solitudine, siamo tutti vicini gli uni agli altri.
Sulla questione dell’Islam, vorrei riportare qui le parole conclusive della tesi di laurea di Paolo Dall’Oglio, un teologo e sacerdote gesuita che molto si è impegnato per il dialogo e per la pace. (Alla stessa tesi, fra l’altro, ho rubato anche il titolo di questo articolo.) Le parole risalgono al 1991, ma credo che siano sempre attuali.
«La testimonianza sincera dei musulmani ci tocca, ci coinvolge, ci edifica. Le grandi sofferenze del mondo musulmano non sono motivo di giudizio ma di solidarietà. Certo pensiamo che lo scadimento della fede in ideologia sia causa di molti mali che affliggono tutti noi… Ma non perdiamo la “speranza nell’Islâm”.»
PS: Ho citato i seguenti volumi: Ghazi bin Muhammad, Guida all’Islam per persone pensanti. L’essenza dell’Islam in 12 versetti del Corano, traduzione a cura della Fondazione di scienze religiose Giovanni XXIII, EDB 2019; Amin Maalouf, L’identità, traduzione di Fabrizio Ascari, Bompiani 2005 (Les identités meurtières, Grasset 1998); Edmond Jabès, Il libro dell’ospitalità, traduzione di Antonio Prete, Raffaello Cortina 1991; 2017 (Le Livre de l’Hospitalité, Gallimard 1991); Paolo Dall’Oglio, Speranza nell’Islâm. Interpretazione della prospettiva escatologica di Corano XVIII, Marietti 1991.
PPS: Le prime due fotografie provengono dal libro di Ghazi bin Muhammad; la terza ritrae me e Ibrahim Kane Annour durante la sua conferenza a Longlake; le altre sono immagini generiche prese da internet.
PPPS: Ibrahim Kane Annour ha scritto con Elisa Cozzarini il libro Il deserto negli occhi (nuovadimensione 2013), in cui racconta la sua vita e il suo viaggio dal Sahara all’Europa.
PPPPS: Sono consapevole che questo articolo non approfondisce la questione. Non ho affrontato le questioni economiche, gli effetti del colonialismo, l’impatto della modernità; non sono entrato nel dettaglio sulle varie scuole di pensiero islamiche; non ho accennato al sufismo, per esempio, né ho esaminato le ragioni geopolitiche del terrorismo. Del resto, non sono né uno storico né uno studioso, ma solo uno scrittore. La mia riflessione sulla realtà si compie soprattutto nelle mie opere narrative; qui sul blog invece aggiungo qualche spiegazione sui temi di fondo.