L’enigma della luna

Sono quattro e mezzo del mattino e sto guidando alla periferia della mia città. L’autostrada è deserta. Penso che mancano pochi giorni a Natale e mi dico: dovrai ricordarti di scrivere qualcosa per il tuo blog. È un periodo in cui le parole arrivano con fatica. Non è un problema d’ispirazione. Anzi, nella mia mente è tutto pronto, tutto predisposto al viaggio. Le indicazioni sono chiare, come i segnali stradali e i semafori che cambiano colore apposta per me in questo mattino di metà dicembre. Forse è fin troppo facile? Per raccontare una storia bisogna perdersi in qualche zona di buio, altrimenti non c’è gusto (né per chi scrive, né per chi legge). Ma dentro il buio, a quali segnali affidarsi? Non voglio altre frecce, progetti, direzioni pianificate a tavolino. A rispondermi, sopra il chiacchiericcio dei lampioni, è una luna magnifica, rotonda come una O di meraviglia. L’enigma della luna è la risposta a ogni pagina bianca.
Perché tante stelle, perché la luna, si chiedeva Leopardi e mille poeti prima di lui, a partire da quando l’essere umano ebbe coscienza di essere tale. La risposta è nella domanda: la luna serve a chiedersi la ragione della luna stessa. Così come il Natale, comunque lo si voglia intendere, pone una domanda sulle ragioni della luce. Perché l’inverno diminuisce? Perché la speranza, ancora, nonostante tutto? La domanda è inesauribile per tutti. Lo era per i nostri progenitori, lo è per chi festeggiava il Dies natalis solis invicti e per chi celebra il Natale cristiano. Chi crede non esaurisce il mistero della Ragione del mondo che si fa neonato, chi non crede non abbandona lo stupore di fronte alla promessa di un’altra primavera, di un’altra estate che è già qui, dentro questo nero di notte e di asfalto.

Tutto questo per spiegare il motivo per cui quest’anno non ho preparato niente sul Natale, tranne queste due parole improvvisate nel pomeriggio della vigilia.
Quest’anno in compenso Yari Bernasconi & Andrea Fazioli hanno scritto una piccola storia natalizia: lo trovate qui. I due avevano perpetrato una faccenda simile già l’anno scorso, con una plaquette intitolata Manca poco a Natale (Gabriele Capelli), da cui estraggo un frammento che pongo come suggello e come augurio.

E poi ricordati, se puoi, di questa nebbia
silenziosa, che avanza fra gli usci e le finestre,
appanna i vetri ancora addormentati
dietro verdi persiane: non si è accorta
di te, che sei già sveglio ma con occhi
diversi, fissi sul vecchio triciclo, la ruggine
delle ruote e dei freni. Anche questo
può essere Natale: un Natale
che tace e che non sibila.

Alle lettrici e ai lettori di questo blog giunga l’augurio di buon Natale, sia da parte mia sia da parte di Yari Bernasconi & Andrea Fazioli. A presto!

PS: Sempre di YB & AF, in febbraio uscirà un volumetto per Gabriele Capelli. S’intitola Non importa dove ed è una piccola rassegna di cartoline.

PPS: Il racconto Guglielmo nella steppa fa parte del progetto “Un Natale di storie a Mendrisio”. Trovate tutte le informazioni su tale progetto (e sul libro che lo accompagna) a questo indirizzo.

PPPS: Nella rubrica “Colpo critico”, una volta al mese pubblico sul settimanale “Azione” un articolo dedicato ai giochi da tavolo e di ruolo. È appena uscito uno speciale natalizio, che trovate qui.

PPPPS: Le parole escono a fatica, ma piano piano si compongono. Se tutto va bene, nel mese di gennaio o febbraio dovrei concludere due lavori che mi tengono impegnato da anni. Poi forse tornerò a dedicarmi a questo blog con maggiore assiduità.

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Il blu e il noir

Sono seduto in una stanza fredda. Di fronte a me non c’è nessuna cosa blu. Un computer grigio, qualche libro rosso, uno marrone, uno giallo, una penna rossa, un tagliacarte argenteo. Carta bianca, camicia rossa e nera, lampada gialla. È una stanza spoglia, in una casa di montagna.  Davanti a me il muro (bianco) e una finestra con le imposte rosse dalle quali traspare il chiarore del sole. Perché dovrebbero esserci cose blu? Non lo so. Però mi dispiace che non ci siano. Certo, i miei occhi sono blu e chissà, forse improntano il mondo con la loro bluità. Nel dubbio, appoggio accanto alla scrivania la mia penna stilografica (azzurra, con inchiostro blu) e una copia di Une histoire de bleu, di Jean-Michel Maulpoix. Sfogliando il volume di poesie, m’imbatto in una frase che mi sembra adatta a inaugurare un nuovo anno: «Je contemple dans le language le bleu du ciel», contemplo nel linguaggio il blu del cielo.
Il linguaggio per me ha parecchie tinte oscure. Del resto nemmeno il cielo è veramente blu, secondo gli esperti. Ma che cosa importa? Il blu è il colore della lontananza e dell’intimità: fra questi due poli si muove il mio tentativo di dire qualcosa con le parole. Il blu è anche il colore dei fiumi, che sono i maestri di ogni narratore.

Il testo di Maulpoix contiene altre osservazioni memorabili. Traduco: «Le parole per me non avrebbero valore se si rassegnassero a nominare o a descrivere ciò che è, invece di precipitarsi verso ciò che non è. […] Non voglio più appropriarmi delle cose che nomino: mi basta abbozzare il gesto di toccarle con le mani.» Se si rinuncia al linguaggio come mezzo di possesso, allora le parole saranno un modo per toccare «con le mani»; e come sappiamo fin da bambini, il desiderio di toccare le cose riflette quello di conoscerle davvero, con la nostra pelle.

Manca poco a Capodanno. Mi torna alla mente un racconto che scrissi in primavera e che, tuttavia, anticipava il 31 dicembre. S’intitola Il custode dell’abisso ed è contenuto nell’antologia Un lungo Capodanno in noir, edita da Guanda qualche settimana fa. Gli altri autori sono Gianni Biondillo, Gian Andrea Cerone, Luca Crovi, Giancarlo De Cataldo, Marco De Franchi, Diego De Silva, Marcello Fois, Leonardo Gori e Marco Vichi, che è il curatore della raccolta. La mia storia racconta di un uomo ossessionato dall’intelligenza artificiale. L’investigatore Elia Contini affronta un caso minimo, sospeso fra l’assurdo e il mistero che formano il cuore degli esseri umani. Il valore di questo libro, per me, consiste soprattutto nella possibilità di condividere la tecnica e il senso di un mestiere. Il cosiddetto mondo letterario purtroppo è spesso composto da monadi, da colossali ego che si urtano fra loro come continenti alla deriva. Una casa editrice che inviti degli autori ad affrontare un tema invita anche allo scambio, al confronto, al contatto diretto fra scrittori che vivono in luoghi diversi e che scrivono con colori diversi (ma un po’ di blu non manca mai, mescolato con il noir).
La motivazione profonda del mio scrivere discende dal mio essere lettore (e prima ancora ascoltatore e narratore di storie trasmesse oralmente). Perciò, fin dalla primavera, mi rallegravo non solo per l’opportunità di scrivere un racconto venato di malinconie capodannesche, ma soprattutto per la prospettiva di leggere i racconti degli altri, di entrare nel loro mondo. Il che è anche un modo per sentirmi meno solo.
Stamani, mentre caricavo i bagagli in automobile per salire in montagna, una delle mie figlie mi ha fatto notare come fosse nitido il mio riflesso sulla fiancata della macchina. «È quasi uno specchio!» A me sembrava molto confuso, ma ho provato a scattare una fotografia. In effetti l’immagine mi pare assai offuscata… in compenso non è priva di atmosfera. Mi colpisce la presenza dell’ambiguo e dell’ignoto. Sulla sinistra è comparso una sorta di paesaggio innevato (che non c’era) e addirittura quello che potrebbe essere un abete solitario. La casa alle mie spalle è diventata una dimora quasi spettrale. E il mio volto sfocato sembra invocare la grazia di un compimento, di un tratto che restituisca il blu allo sguardo.

Ecco, per me ogni esperienza di condivisione artistica è un passo verso il compimento. Non mi addentro nei dettagli delle singole esperienze (magari aggiungo un Post Scriptum), ma voglio ribadire che Un lungo Capodanno in noir è una di queste. Se la scrittura è la ricerca del proprio volto umano (a partire da un riflesso, da un richiamo), allora tale ricerca deve per forza implicare la presenza degli altri: prima del nostro, infatti, vediamo il volto degli altri, a partire dalla nascita e dal volto materno fino all’ultimo che riusciremo a contemplare, prima di chiudere gli occhi per sempre.
Sono partito con l’idea di scrivere qualcosa sul Capodanno e mi ritrovo a parlare della morte. 
Non era pianificato. A pensarci però mi sembra inevitabile.
Così funziona il mondo. È nella terra dura che dormono i semi, nell’aria tagliente che fioriscono i germogli. Per fortuna, il ghiaccio della pagina bianca prima o poi lascia sempre spazio all’azzurro di un fiume, anche solo di un rigagnolo. Auguro a tutte le lettrici e i lettori di questo blog un anno ricco di ruscelli, di blu, di volti da scoprire e, in generale, di meraviglia. Buon 2024!
Concludo con un estratto dal racconto Il custode dell’abisso

Ci sono persone che sono felici il 31 dicembre. Carlo ne conosceva qualcuna fin dall’adolescenza. Addirittura c’è chi a Capodanno trova l’amore, o qualcosa che ci assomiglia. Il mondo è vario: c’è chi adora il conto alla rovescia. Altri invece, presagendo la sconfitta, riescono a trovare una scusa: basta un raffreddore al momento giusto.
Carlo, invece, cominciava ad agitarsi verso la fine di novembre. Quale invito accettare? E se avesse sbagliato festa? E se fosse capitato per sbaglio a una cena fra coppiette?
Tutto questo a vent’anni è sopportabile, anzi, c’è una sorta di amaro compiacimento nel pensare a sé stesso come a un lupo solitario. A trent’anni invece sei prigioniero dei tuoi desideri, come sbarre di ferro, e non puoi evadere dalla gabbia sociale. Dopo i quaranta provi a metterla sul ridere, ma quando sei solo in cucina il mattino del 31 dicembre, dopo colazione, è difficile fingere di non sapere tutto. 
L’aperitivo, la musica sempre troppo forte, gli ehi-com’è-tutto-a-posto-non-ci-vediamo-da-un-po’, le chiacchiere sullo sport e sul lavoro, gli amici con figli e i relativi beati-voi-che-fate-festa-noi-invece-a-letto-presto. Poi la cena, l’amico esperto di vini, quello che si è comprato una barca, quello che corre in salita e sembra uno spaventapasseri, quello che produce in casa la birra e il pane. Le solite lenticchie, la solita euforia. Infine si va in piazza, dove c’è un palco con gente pagata per gridare, la musica di nuovo troppo forte, i fuochi d’artificio sul lago, oh, meraviglia, ma quanto costeranno? E la prospettiva di bere quel tanto che basta per riuscire a resistere fino al cinque quattro tre due uno, o forse un po’ di più, forse quel tanto che basta per dimenticare tutto il giorno dopo.

PS: Il testo di Jean-Michel Maulpoix è tratto da Une histoire de bleu, Gallimard, Paris 2005 (ed. orig. 1992). Si trova nelle sezione “Carnet d’un éphémère”. Ecco una traduzione dell’intera prosa.

Contemplo nel linguaggio il blu del cielo.

Le parole per me non avrebbero valore se si rassegnassero a nominare o a descrivere ciò che è, invece di precipitarsi verso ciò che non è. Mi si addice la loro cecità: io sono un sognatore irriducibile. Le parole hanno un modo tutto loro per dissipare il mistero aumentandolo, e non mi rivelano niente di cui prima non abbiano deformato i tratti. Conosco i loro inganni e mi ci sono rassegnato. Non voglio più appropriarmi delle cose che nomino: mi basta abbozzare il gesto di toccarle con le mani. Anche solo per ravvivarne il dolore, concedo al linguaggio di corteggiare l’impossibile. La scrittura non è mai troppo ricca di desideri o di menzogne per chi faccia un uso tragico delle sue maschere. Sapendo la sua vanità, non vi rinuncia ma la coltiva come un veleno. Da quel momento niente l’ossessiona più di questa duplicità, dalla quale riconosce che sta diventando un uomo.

PPS: Chi legge questo blog si sarà accorto che gli aggiornamenti sono discontinui. Non è per trascuratezza, ma perché mi sembra opportuno misurare le parole. Il vantaggio di un blog, rispetto a qualunque social network, è che non chiede niente, né “like” o condivisioni, né pubblicità. Quindi pubblico qualcosa quando ne ho voglia, senza darmi nessuna scadenza.

PPPS: Una precisazione sulla creatività condivisa. Per me accade prima di tutto, e in maniera profonda, nella scrittura a quattro mani con Yari Bernasconi. Insieme abbiamo creato una “terza voce”: Yari Bernasconi & Andrea Fazioli è un’entità diversa da YB e AF intesi come autori singoli. Ma tale condivisione si è verificata anche quando ho collaborato con musicisti, pittori, registi teatrali e cinematografici. Vorrei citare almeno Marco Pagani e Fabio Pellegrinelli, con i quali ho sceneggiato La tentazione di esistere (Rough Cat 2023), un film diretto dallo stesso Pellegrinelli, che dopo avere vinto il festival di Benevento, è fra le opere selezionate per il prossimo Premio del cinema svizzero.

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Un selfie banale (e buon Natale!)

Siamo io e lui. Come sempre. Io pedalo controvento, ai margini dei campi, mentre lui scivola al mio fianco, leggero, leggerissimo, come io non sarò mai. Io tendo i muscoli, sudo, respiro l’aria fredda con la bocca. E lui? L’Andrea d’ombra è un pensiero di sfuggita, una rapina. Fugace come il dito di un illusionista.
La terra è chiusa nell’inverno, con il promemoria di qualche ciuffo d’erba color verde sciupato. Ma l’Andrea d’ombra non sente la terra, la sfiora appena.

Vedi, le crepe fra le zolle somigliano alle mie domande. Sciocchezze, bisbiglia l’Andrea d’ombra. Un anno è andato, bene o male. C’è stato il male, sì. La fine di questo e di quello, e le persone in fuga e gli strappi e le ferite della morte, un colpo alla volta. E guerre. E sangue. Non fermarti, mormora l’Andrea d’ombra. Hai avuto anche la felicità, la resistenza. Se lo dici tu. Ma sì, occhi sgranati, castagne d’India in un cortile, pane, alberi, cuscini sprimacciati, l’incanto e le parole…
Ma che stai dicendo?
Non ti fidi.
Come potrei? Sei ombra, senza ferite.
Non è vero: custodisco le tue. E so che tutto quello che ti serve, ora, è questa strada di campagna, con l’asfalto un poco sconnesso, questo indugio del sole nel tardo pomeriggio.

Come ogni vigilia di Natale, io e l’Andrea d’ombra facciamo il punto della situazione. Come sempre mi lamento per i progetti incompiuti, per le pagine scritte che non sono come vorrei. E per fortuna, dice lui. Poi mi chiede: non sei contento di quel libretto? Quale libretto? Ma sì: Manca poco a Natale, appena pubblicato da Gabriele Capelli. Ma quello non è opera mia, rispondo. Come no? Dice: illustrato da Antoine Déprez, scritto da Yari Bernasconi & Andrea Fazioli. Appunto. Yari Bernasconi & Andrea Fazioli sono un’entità indipendente, diversa sia da Yari Bernasconi, sia da Andrea Fazioli, sia dallo Yari d’ombra, sia dall’Andrea d’ombra. E non dimenticare Yari Bernasconi & Andrea Fazioli d’ombra. Sì, hai ragione. Anche la & può essere una & d’ombra.
Insomma, siamo una mezza dozzina.
Solo gli autori. Ma se aggiungi anche i personaggi…
Basta, basta, ho capito. Ogni libro nasconde una folla.
E anche una follia…
Così, mentre la bicicletta sfreccia, io e l’Andrea d’ombra passiamo il tempo fra battibecchi e pessimi giochi di parole. Cose minuscole. In una poesia del libretto ci sono queste parole: «“Anche le cose più comuni / sono straordinarie” diceva mio nonno / con gli occhi, camminando».
Il Natale è anche questo, semplicemente: un gesto d’attenzione. La vastità mutata in piccolezza, l’intuizione che le cose banali covano in sé la meraviglia. Il prodigio è il mondo che ogni mattina si presenta come nuovo, nonostante tutto. «Quello che ci rende possibile continuare a vivere è il costante inizio», scrisse Romano Guardini. Il «nuovo» si presenta ogni giorno «con ogni compito e incontro; con ogni dolore e ogni gioia». Spesso noi «intendiamo per nuovo quanto ci eccita. Solo di rado siamo pronti ad avvertire il nuovo in quel che è piccolo e sommesso».
Anche la letteratura è un fermento di cose banali che diventano necessarie, che rivelano sé stesse (e noi che scriviamo, che leggiamo). In una lirica di Manca poco a Natale appare un personaggio – idealmente un ragazzino – che affida il dopopranzo natalizio all’immaginazione.

E quando inizia a voltare le pagine
oltre il brusio del pranzo
e dei parenti, dal suo angolo discosto,
l’orizzonte perde i contorni.
Come gli gnomi, adesso,
cavalca i cinghiali e soccorre le volpi,
siede guardingo con i gufi sull’orlo
della notte, attendendo l’oscurità
di quelle valli boscose che cercano
un nome.

Il desiderio di un Natale «piccolo e sommesso» ha guidato Yari Bernasconi & Andrea Fazioli nella stesura dei testi lirici che compongono il libretto. E questo è anche l’augurio mio (e di tutta la mezza dozzina di autori) per questo Natale: che sia piccolo e silenzioso, ma promettente. Come una serie di tracce sulla neve che portano a un rifugio, a un calore. Buon Natale!

PS: Il libretto Manca poco a Natale è stato stampato in edizione limitata a 500 esemplari, di cui circa 330 in commercio. Non so se sia ancora disponibile. Per informazioni, potete scrivere a gabrielecapellieditore@gmail.com.

PPS: Le parole di Romano Guardini sono tratte da Nähe des Herrn. Betrachtungen über Advent, Weihnachten, Jahreswende und Epiphanie, TOPOS-Taschenbuch, Matthias Grünewald Verlag, Mainz, 1992, traduzione italiana di Giulio Colombi in Natale e Capodanno, Morcelliana, Brescia 1995.

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Tranne il bianco

#Rubruk2022 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli

Guglielmo di Rubruk partì nel 1253 per una lunga spedizione in Asia. Il suo Itinerarium, redatto in latino, è fra i più bei resoconti di viaggio che siano mai stati scritti. Basta leggerne poche frasi per trovarsi nel cuore dell’ignoto, oggi come ieri, desiderosi di conoscere ciò che è diverso da noi.

Rubruk
Divagazioni intorno ai viaggi di Guglielmo di Rubruk

Quarto episodio.

10) «Quel mattino avevo le dita dei piedi congelate, e non potei più camminare a piedi nudi. (Il freddo in quelle regioni è tremendo. Da quando comincia, il gelo non cessa più fino a maggio; e anche in maggio c’era ancora il ghiaccio ogni mattina, ma si scioglieva per effetto del sole, mentre in inverno non si scioglie mai, comunque tiri il vento.)»

Manca poco a Natale e noi siamo ospiti in una casa di montagna. Un luogo discreto, senza vette irraggiungibili e rocce colossali. Una montagna come molte altre, corrucciata, discosta. L’aria è fredda, ma dall’inizio dell’inverno è la prima volta che vediamo la neve. Arriva di notte, mentre tutti dormono, e all’alba si annuncia al mondo con un grande silenzio. Le finestre, con gli angoli un poco appannati, raccontano un altro paesaggio: non più case e alberi, ma forme impalpabili che sembrano fatte soltanto di luce e di respiro. Beviamo il caffè nero (senza zucchero) davanti alla finestra più grande. Entrambi stiamo pensando a Guglielmo di Rubruck. Nel dicembre del 1253 il grosso e infaticabile monaco era giunto all’accampamento di un importante capo tartaro. Com’è consuetudine dei francescani calzava dei sandali a piedi nudi. I tartari, stupiti, gli chiesero se non avesse bisogno delle dita dei piedi, visto che le avrebbe sicuramente perse. Da uomo saggio qual era, Guglielmo accettò d’indossare delle calzature di pelliccia. In seguito, il frate annotò nei suoi appunti il freddo implacabile della steppa. Era il primo Natale passato in viaggio, lontanissimo dall’Europa e da tutto ciò che conosceva. Eppure, come sempre, Guglielmo aveva la capacità di sentirsi a casa in ogni circostanza. E noi, che all’alba guardiamo il prato e il bosco da una casa calda, piena di persone amiche? Non c’è bisogno di dirci niente. Sappiamo di essere qui, ma sappiamo anche di essere là fuori, intirizziti nella neve ovattata, mentre aspettiamo i tartari. La figura di Guglielmo, quel puntino scuro in mezzo ai campi, per un attimo diventa l’unico riferimento. Lentamente ci avviciniamo, finché la sua immagine sbiadisce sotto le ciglia, scompare tutto tranne il bianco.

11) «Il mio compagno talvolta aveva una fame tale che mi diceva con le lacrime agli occhi: “Mi sembra di non aver mai mangiato in vita mia”».

– Ma la cena?
– Dai, ci sarà qualcosa di aperto.
Non è presto, ma neppure così tardi. Abbiamo appena concluso una lettura serale fuori dal centro urbano, appena sotto le montagne, e ci siamo fermati a chiacchierare. Ora camminiamo soli, nel buio, per raggiungere la nostra auto.
– Mah, sono meno ottimista di te.
– Male che vada andiamo in città.
– In città dove?
– Che ne so, tentiamo alla Valtellinese.
– Che roba è?
– Ci andavo quando lavoravo fino a tardi.
– Fanno pizze?
– Uova strapazzate, forse.
L’autostrada è ampia come uno sbadiglio. Sui lati sfilano le ombre degli alberi. Ogni tanto compare la luce di un gruppetto di case, un magazzino isolato, una strada persa fra i campi. Una ventina di chilometri ci separa dalla città e dalla cena.
– Chiamo la Valtellinese?
– Ma no, saranno aperti.
All’entrata della città, un locale a luci rosse (e verdi e blu e gialle e bianche) squarcia l’oscurità con la sua insegna: dancing. Noi superiamo due semafori e un capannone per la vendita d’automobili. Quando arriviamo alla Valtellinese, non c’è nessun segno di vita.
– Non l’ho ma vista chiusa a quest’ora!
– Ci sarà qualcos’altro, dai, siamo in città.
– Kebab?
– Ma sì.
– Mia moglie prende sempre il kebab vicino al teatro.
A un angolo di strada, un bar-discoteca serve cocktail colorati e fa vibrare le gambe con immensi woofer. I fari rosa puntano sulle poche persone che stanno ballando. Si chiama Upper Class, e noi siamo troppo down (e affamati) per fermarci a pasteggiare con due olive. Più in là c’è un altro bar dall’aria dimessa.
– Guarda. Qui ci andavo da ragazzo.
– “Il Castigamatti”?
– Un postaccio. C’è uno strazio di karaoke.
Una voce acuta, fra le altre, canta: «cercavo in te la tenerezza che non ho / la comprensione che non so / trovare in questo mondo stupido». E continua risuonare mentre ci specchiamo nella porta chiusa del Kostantîniyye Döner Kebap & Pizzeria.
– E adesso?
– È mezzanotte.
– Un nuovo giorno.
– Ma la fame sta invecchiando.
– Non ci sono altri locali?
– Qui vicino c’è il Chiquito, ma non è un posto raccomandabile.
– E noi siamo raccomandabili?
– Sì, hai ragione anche tu.
Il Chiquito è una cantina. Impossibile capire se sia aperto o chiuso. Mentre ci avviciniamo, una figura esce da un angolo nascosto. Ha i capelli quasi bianchi, ma il volto giovane e gli occhi attenti. Sorride con ironia. Ci accorgiamo che in fondo alla scala, dalla porta socchiusa del Chiquito, filtra una sottile linea di luce. C’è pure una nuova insegna, che appare incomprensibile: татаруудын цөл. La vernice sembra fresca, come se l’avessero appesa oggi stesso.
– Siete arrivati, finalmente.

12) «Quando vidi la corte di Baatu rimasi sgomento, perché già solo le dimore di sua spettanza sembrano come una grande città distesa in lunghezza».

È già trascorso un anno. Ancora confondiamo la steppa e le autostrade. Che cosa cerchiamo, seguendo la scia di questo cocciuto viaggiatore di otto secoli fa? Nella nostra piccola vita abbiamo già visto metropoli immense, che si srotolano senza finire mai e contengono milioni di individui. Perché allora immaginare la corte di Baatu ci offre un’emozione così forte, diversa? Dalla radio accesa esce il suono di un violino che taglia lo spazio fra di noi, lo fa a pezzi, come un diamante sul vetro. «Sono stanco», dice uno. «A volte, eh, non sempre». L’altro guarda il cielo oltre il parabrezza, cercando una nuvola o qualcosa che somigli a una nuvola. «Lo so». Bastano due sillabe per ribadire l’alleanza. Meglio che le parole restino nell’abitacolo, perché il mondo risponderebbe: ma come! hai tutto quello che serve per essere felici… Il punto è che forse la felicità non c’entra. E nemmeno la stanchezza. Custodiamo tutti del buio più buio: c’è chi è bravo a dimenticarsene, ma c’è chi non riesce ad arginare l’abisso. C’è poco da fare, se non attraversare insieme la corte di Baatu, distesa in tutta la sua lunghezza. E si può scrivere, aspettando le parole dell’altro. Così, mentre passano gli anni e le stagioni, ogni frase fiorisce dal buio, nel folto dei pensieri e delle angosce. Anche il gesto di mettere una virgola, voltare una frase, cancellare di nuovo: forse anche soltanto questo esprime una speranza. Altrimenti, se le cose dovessero mettersi davvero male, si può sempre tirare un dado, preferibilmente a venti facce. «Hai un dado in tasca». «Sì, come lo sai?» «Lo so perché ne ho uno anch’io». «È vero». «Al mio tre, allora. Uno. Due. Tre». «Bah, 7. Tu?». «5. Siamo spacciati».

PS: Ecco i collegamenti al primo, al secondo e al terzo episodio.

PPS: Le frasi in grassetto sono tratte dall’Itinerarium di Guglielmo, secondo l’edizione stabilita da Paolo Chiesa in G. di Rubruk, Viaggio in Mongolia, Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2011. Spesso abbiamo usato la versione italiana dello stesso Chiesa; qualche volta abbiamo invece tradotto noi stessi dal testo latino.

PPPS: Negli anni fra il 1237 e il 1242 un’orda di guerrieri mongoli avanzò verso l’Europa. I Tartari, come venivano chiamati, si spinsero in Russia, Polonia, Boemia, Ungheria, devastando città e villaggi. L’esercito arrivò fino all’Adriatico e si ritirò soltanto alla morte del comandante Ögedei Khan. Qualche anno dopo, nel 1253, il re di Francia Luigi IX decise d’inviare un ambasciatore verso le steppe, per tentare qualche relazione con i Mongoli. Il sovrano si affidò a un frate fiammingo, Guglielmo di Rubruk, che viaggiò per due anni nei territori dell’Asia Centrale fino a Karakorum, dove risiedeva il Gran Khan Möngke. Guglielmo, capace di percorrere grandi distanze in poco tempo (più di dodicimila chilometri in totale) era colto, robusto e dotato di buon senso. Sapeva parlare con i re e con i poveri, con un monaco buddista o con uno sciamano, con un soldato o con un prigioniero. Era aperto e curioso nei confronti delle lingue, delle usanze, delle abitudini dei popoli stranieri. Il suo Itinerarium è uno dei più bei libri di viaggio medievali (e anche oltre).

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Hi there!

#Rubruk2022 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli

Guglielmo di Rubruk partì nel 1253 per una lunga spedizione in Asia. Il suo Itinerarium, redatto in latino, è fra i più bei resoconti di viaggio che siano mai stati scritti. Basta leggerne poche frasi per trovarsi nel cuore dell’ignoto, oggi come ieri, desiderosi di conoscere ciò che è diverso da noi.

Rubruk
Divagazioni intorno ai viaggi di Guglielmo di Rubruk

Terzo episodio.

7) «Quella sera l’uomo che ci faceva da guida ci diede da bere del comos; al primo sorso mi misi tutto a sudare per il disgusto e la sorpresa, perché non ne avevo mai bevuto. Tuttavia mi sembrò che avesse un buon sapore, ed effettivamente ce l’ha».

Guglielmo beve, ed è come se bevesse l’universo. Nella sua espressione c’è tutto quello che si può cercare: le tenebre dell’ignoto, lo scontro, la luce della scoperta. Come quando fra le montagne, in mezzo a creste e pendii, si giunge a un pianalto inatteso. Guglielmo, con la fronte perlata di sudore, sorride alla guida. Poi si gira verso di noi e scuote la testa, desolato, scoprendoci in bilico sul bicchiere, titubanti e anzi angosciati. Forse più sudati di lui. Abbozza una smorfia ironica: sa bene che non siamo all’altezza, nulla di nuovo, ma bere da un bicchiere, accidenti!
Stretti fra l’imbarazzo e il desiderio di essere altrove, ci torna in mente il ricordo di un altro mondo. Siamo sempre noi due, a Zurigo, e stiamo entrando in un caffè che si vuole internazionale e sfoggia un marchio riconoscibile (l’abbiamo già visto mille volte). Ci avviciniamo al banco luminoso e il commesso ci dice: «Hi there!». Manco a farlo di proposito restiamo interdetti fra l’inglese ostentato del ragazzo con grembiule e la lista infinita di bevande. Volevamo prenderci due ristretti, ma ci troviamo a scegliere fra Vanilla or Caramel Macchiato, Flat White, Chai Tea Latte, Oat Cappuccino (Vegan), Matcha Tea Latte, Espresso 1x 2x 3x, White or Black Macchiato, Cold Brew, Premium Hazelnut Chocolate, Filterkaffee, Café Latte, White Chocolate Mocha, Iced Americano, Java Chip e altre cose che non abbiamo più tempo di leggere, perché dietro sbuffano e il ragazzo ci dice ancora qualcosa in inglese.
Allora uno di noi, di colpo sicuro, dice: «Two Comos, thank you».
E l’altro aggiunge: «Large, please».
Il comos, o kumis, è una bevanda ottenuta a partire dal latte di giumenta. Di certo il frate di origini fiamminghe avrebbe preferito della birra… ma non importa. La memoria evade dal passato. Nell’eterno presente del viaggio, Guglielmo si specchia nelle parole dei tartari, nei loro occhi sottili, nei gusti, negli odori. È fatto così. Non si limita a bere il comos per necessità: finisce per trovarlo buono.
«Okay!» risponde il commesso.
Si volta, traffica fra le bevande, ci porge due bicchieri di carta. Noi ci guardiamo. Non abbiamo nessuna idea di che cosa ci abbia servito. Ma Guglielmo ancora ci osserva – fra le luci del bar moderno, con il suo corpaccio robusto, il saio stazzonato – e quindi, dopo avere elemosinato una cannuccia, non possiamo fare altro che bere il mistero fino all’ultimo sorso.

8) «Camminammo per tre giorni senza incontrare nessuno. Eravamo sfiniti, e così pure i nostri buoi, e non sapevamo in che direzione avremmo potuto trovare dei Tartari; quando improvvisamente ci vennero incontro due cavalli, che accogliemmo con grande gioia. La guida e l’interprete montarono in sella e andarono in esplorazione, per vedere da che parte trovare qualcuno. Quando, il quarto giorno, incontrammo finalmente degli uomini, la nostra felicità fu come quella di naufraghi che arrivano in porto. Lì prendemmo cavalli e buoi, e procedemmo di bivacco in bivacco finché non giungemmo, il 31 luglio, all’accampamento di Sartach».

Alla periferia di noi stessi. Come può il mondo esistere? Il semaforo è giallo, lampeggia, nelle case le tende non si scostano, si appannano gli occhiali. Poi due cavalli ci chiamano per nome.

9) «Muovemmo dunque diritto verso oriente in direzione di Baatu. Il terzo giorno giungemmo all’Etilia; quando vidi il fiume mi chiesi stupito da dove arrivasse tutta quell’acqua che scendeva da nord».

Camminiamo sotto la pioggia, in silenzio. Indossiamo degli stivali di gomma scura e siamo infagottati dentro giacche dai colori squillanti. Uno di noi, sulla testa, porta una specie di cappello da cowboy; l’altro un affare curioso, che potrebbe essere a tutti gli effetti un paralume. La strada sale. Non c’è nessuno. Chi uscirebbe del resto in un giorno come questo? L’acqua scroscia nelle grondaie, gocciola dagli alberi, s’attorciglia sui tetti. E come se niente fosse succede qualcosa. Solo che quando ce ne accorgiamo non c’è già più. Certo non un fatto storico, ma nemmeno un dettaglio particolarmente importante per la nostra vita. Eppure accade. In quell’istante, senza bisogno di parlarci, siamo entrambi invasi dalla meraviglia. Una cosa quasi sciocca: siamo stupiti da come scende la pioggia e da come scricchiolano gli stivali. Dalle sfumature di verde nei prati. Dal profilo incerto delle montagne, poco più in là del nostro naso bagnato.
«Se volete mangiare con noi, vi conviene rientrare e asciugarvi», ci chiamano da una finestra.
Siamo abituati a leggere tante cose, a fissare degli schermi più o meno luminosi dove continuano a muoversi immagini che pretendono di essere nuove e originali. Sappiamo bene quanto sia importante leggere con cura e spegnere gli schermi appena possibile. Ma è la nostra vita. Qualche volta ci addentriamo perfino in quelle prigioni senza sbarre che sono i social network, dove si grida il bisogno di conforto e di ascolto, in mezzo al flusso d’insulti, vanterie, moralismo. È la nostra vita.
La dimenticanza è sempre in agguato. Il rischio di sprofondare nella noia, nell’ansia, nella disperazione. Dopotutto, forse, quell’istante di stupore non era così banale. La salvezza viene anche dal camminare dentro una pozzanghera (tanto abbiamo gli stivali) e da quella nitida, fugace sensazione: i prati sono prati, le case sono case, la strada sale poi scende e resta una strada. E l’acqua è l’acqua.
«Ah, e salendo, controllate che il passeggino sotto la tettoia non si sia bagnato!».

PS: Potete leggere qui il primo episodio e qui il secondo.

PPS: Le frasi in grassetto sono tratte dall’Itinerarium di Guglielmo, secondo l’edizione stabilita da Paolo Chiesa in G. di Rubruk, Viaggio in Mongolia, Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2011. Spesso abbiamo usato la versione italiana dello stesso Chiesa; qualche volta abbiamo invece tradotto noi stessi dal testo latino.

PPPS: Negli anni fra il 1237 e il 1242 un’orda di guerrieri mongoli avanzò verso l’Europa. I Tartari, come venivano chiamati, si spinsero in Russia, Polonia, Boemia, Ungheria, devastando città e villaggi. L’esercito arrivò fino all’Adriatico e si ritirò soltanto alla morte del comandante Ögedei Khan. Qualche anno dopo, nel 1253, il re di Francia Luigi IX decise d’inviare un ambasciatore verso le steppe, per tentare qualche relazione con i Mongoli. Il sovrano si affidò a un frate fiammingo, Guglielmo di Rubruk, che viaggiò per due anni nei territori dell’Asia Centrale fino a Karakorum, dove risiedeva il Gran Khan Möngke. Guglielmo, capace di percorrere grandi distanze in poco tempo (più di dodicimila chilometri in totale) era colto, robusto e dotato di buon senso. Sapeva parlare con i re e con i poveri, con un monaco buddista o con uno sciamano, con un soldato o con un prigioniero. Era aperto e curioso nei confronti delle lingue, delle usanze, delle abitudini dei popoli stranieri. Il suo Itinerarium è uno dei più bei libri di viaggio medievali (e anche oltre).

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