Giro del mondo

Nel 2018 avevo progettato di fare il giro del mondo. Sono partito nel gennaio 2019, con l’idea di visitare ogni mese un luogo diverso. Qualche volta è stato faticoso – a un certo punto ho temuto di non farcela – ma infine ho raggiunto l’obiettivo.
Per mancanza di mezzi finanziari non potevo permettermi né di volare in aeroplano, né di prendere il treno, né d’imbarcarmi per mare; per contro, andare a piedi o in bicicletta sarebbe stato troppo lungo. Ho sfruttato quindi l’immaginazione, che resta il mezzo di trasporto più ecologico mai inventato fino a oggi. I miei bagagli erano ridotti: avevo con me un mazzo di carte. Ecco le mie destinazioni, in ordine cronologico: Pilley’s Island (Canada), Muling (Cina), Makuya (Congo), Igarapeba (Brasile), Myaungmya (Birmania/Myanmar), Yabluniv (Ucraina), Ross Ice Shelf (Antartide), Ajano-Majskij (Russia), Santa Fe (Stati Uniti), Dighori (India), as-Summan (Arabia Saudita), One Tree (Australia).
Presento qui sotto, per ogni mese, la fotografia delle carte che mi hanno ispirato, il link al testo e l’immagine della mappa satellitare. Di seguito, i dodici haiku scritti in occasione di ogni viaggio. (Per i dettagli tecnici sulle spedizioni, si veda il Post Scriptum alla fine.)
Prima di lasciarvi alla lettura, vorrei proporvi una breve riflessione sull’utilità di tale impresa. Qualcuno potrebbe chiedersi: perché dare tanto spazio alle fantasticherie, in un’epoca come la nostra segnata da inquietudini planetarie reali e tangibili? A me sembra che la forza della letteratura, e quindi della fantasia, consista nella capacità di spezzare gli schemi, anche gli schemi che a prima vista ci sembrano corretti.
Non c’è bisogno di andare lontano. Oggi, per esempio, sono uscito di casa e, dopo appena qualche passo, mi sono ritrovato a contemplare le crepe sul marciapiede: di colpo, nel cuore della città, ho visto ergersi la sagoma di una giraffa; oppure ho scorto il profilo di un segugio che fiuta la sua pista. Le cose non sono come sembrano, proprio perché la realtà sfugge a ogni schema. Anch’io, quando scrivo, mi sento come quel segugio: non mi’interessa raccontare ciò che ho trovato, se mai ho trovato qualcosa, ma cercare nuove tracce. Immaginare ciò che non esiste mi aiuta a vedere meglio ciò che esiste; ogni passo – ogni parola – è un tentativo di capire un po’ meglio il mondo, questo inestricabile mistero che ogni giorno ci mette alla prova.

IL GIRO DEL MONDO

 
GENNAIO
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Hanafuda: Pino / Gru
Luogo: Pilley’s Island, Terranova e Labrador, Canada
Coordinate: 49°30’34.2″ N; 55°43’43.6794″ E

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FEBBRAIO
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Hanafuda: Pruno / Usignolo
Luogo: Muling, Mudanjiang, Heilongjiang, Cina
Coordinate: 44°49’25.9″N, 130°35’12.8″E

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MARZO
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Hanafuda: Ciliegio / Tenda
Luogo: Makuya, Lualaba, Congo
Coordinate: 9°29’11.1″S, 21°53’15.3″E

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APRILE
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Hanafuda: Glicine / Cuculo
Luogo: Igarapeba, São Benedito do Sul, Pernambuco, Brasile
Coordinate: 8°48’09.8″S, 35°54’15.7″W

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MAGGIO
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Hanafuda: Iris / Ponte
Luogo: Myaungmya, Myanmar (Birmania)
Coordinate: 16°31’20.5″N 95°10’56.7″E

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GIUGNO
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Hanafuda: Peonia / Farfalla
Luogo: Yabluniv, distretto di Kaniv, Oblast’ di Čerkasy, Ucraina
Coordinate: 49°40’27.8″N; 31°26’21.0″E

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LUGLIO
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Hanafuda: Lespedeza / Cinghiale
Luogo: Ross Ice Shelf, a circa 400 km dalla McMurdo Station, Antartide
Coordinate: 80°38’49.3″S 171°01’35.5″E

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AGOSTO
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Hanafuda: Miscanthus sinensis / Luna piena
Luogo: Ajano-Majskij, Chabarosk, Russia
Coordinate: 58°51’05.8″N; 132°47’40.3″E

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SETTEMBRE
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Hanafuda: Crisantemo / Coppa di saké
Luogo: Santa Fe, Nuovo Messico, Stati Uniti d’America
Coordinate: 35°41’46.2″N; 106°10’21.7″W

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OTTOBRE
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Hanafuda: Acero / Cerbiatto
Luogo: Dighori, Maharashtra 441203, India
Coordinate: 20°47’01.9″N; 79°13’11.7″E

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NOVEMBRE
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Hanafuda: Salice / Poeta / Rondine
Luogo: as-Summan (لصمّان), Arabia Saudita
Coordinate: 23°40’19.6″N; 49°25’45.3″E

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DICEMBRE
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Hanafuda: Paulonia / Fenice
Luogo: One Tree, Nuovo Galles del Sud, Australia
Coordinate: 34°11’05.9″S; 145°15’00.5″E

GLI HAIKU

Parcheggio vuoto.
Sopra le case e gli alberi
passa una gru.

***

Sulla betulla
si posa una colomba –
È quasi marzo.

***

Guardando giù
dall’alto di un ciliegio
vedo me stesso.

***

In bicicletta –
Il cuculo sorprende
la mia fatica.

***

Splende nel calice
un vino bianco freddo.
È quasi estate.

***

Viene la sera –
le peonie si addormentano
stanche di sole.

***

Un vecchio clown
nel buio suona il violino.
Notte di luglio.

***

L’erba d’argento
brilla come un addio –
Non c’è nessuno.

***

Viene la notte –
In fondo all’orto ridono
i fiori d’oro.

***

Sale la nebbia.
Scricchiolano sul viale
passi di corsa.

***

L’eco di un fischio
indugia sopra i tetti –
L’ultima rondine.

***

Libero i vetri
dal ghiaccio e nel frattempo
l’anno finisce.

***

PS: Per scegliere i luoghi in cui viaggiare mi sono affidato a un sito che designa casualmente una coppia di coordinate su tutta la terra. Se finivo nel mare (come accadeva nella maggior parte dei casi) o in un luogo già visitato, facevo un altro tentativo, accettando il primo risultato utile. Ho aiutato la fantasia con l’Hanafuda, un mazzo di carte giapponese risalente al XVI secolo: ogni mese il gioco propone l’immagine di una pianta o di un fiore e talvolta anche di un animale o di oggetti simbolici. Esistono varie versioni dell’Hanafuda; io ho usato quella dell’editore francese Robin Red Games (trovate qui i dettagli).
Insieme al resoconto del viaggio, ogni mese ho scritto anche un haiku, un piccolo poema di tre versi, pure di origine giapponese. L’haiku per me non era un riassunto o un complemento, ma piuttosto un punto di fuga verso l’ignoto.

PPS: Per altri dettagli, si legga anche qui (è l’introduzione al primo viaggio, nel mese di gennaio).

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One Tree

“Viaggi immaginari” è una serie di reportage da luoghi che non ho mai visto, scelti a caso sulla mappa del mondo. A farmi da guida l’antico gioco Hanafuda, che scandisce le stagioni dell’anno. Ogni mese le carte mi accompagnano nella scrittura di un racconto di viaggio e di un haiku.

Dicembre
Hanafuda: Paulonia / Fenice
Luogo: One Tree, Nuovo Galles del Sud, Australia
Coordinate: 34°11’05.9″S; 145°15’00.5″E
(Latitudine -34.18498; longitudine 145.25014)
One Tree, Australia.
– Perché non ti fermi ancora un po’? – mi chiede Jacqueline.
– Non posso, devo lavorare.
Siamo seduti sotto il portico dell’hotel, di fronte alla pianura punteggiata da radi cespugli. Jacqueline è sulla settantina. Parla un inglese senza inflessioni e nomina solo continenti, mai singoli paesi. Mi spiega che vive parte dell’anno «nelle Americhe» e parte «in Eurasia», poi mi chiede che mestiere faccia. Io cerco di spiegarglielo.
– Ho capito – dice lei. – È una specie di lavoro precario, right?
Io annuisco, poi cambio discorso e le domando se conosca la paulonia, il fiore che l’hanafuda propone per questo mese.
– Uh, non farmi pensare ai fiori… di che colore è?
La pawlonia tomentosa è una pianta flessibile, leggera, splendida quando si colora di viola. In Giappone, suo paese d’origine insieme alla Cina, è conosciuta come kiri (桐); nelle lingue occidentali invece prende il nome da Anna Pavlovna Romanova (1795-1865), l’ottava figlia dello zar Paolo I. Si dice che sia l’unico albero fra i cui rami si posi la fenice, il leggendario “uccello di fuoco” di cui scrissero antichi narratori e poeti. La fenice ogni cinquecento anni muore tra le fiamme e risorge dalle sue stesse ceneri; fra l’altro, sembra che possa riposare nelle fronde del suo albero prediletto solo quando al potere c’è un governante giusto – dunque, con i tempi che corrono, i cieli pullulano di fenici stanche di volare, che cercano, cercano un impero, un regno, magari solo un villaggio dove abiti la giustizia e fioriscano le paulonie.
Mentre parlo della paulonia, mi torna in mente l’aggettivo usato da Jacqueline: precarious. È una parola inflazionata, purtroppo. Prima di partire per l’Australia ho partecipato a un aperitivo di fine anno. In queste circostanze si finisce per parlare sempre delle stesse cose: meteorologia, sport, famiglia, lavoro… (Ho provato a infilare nella conversazione la pawlonia tomentosa, ma con scarsi risultati.) Il lavoro, in particolare, torna in maniera martellante. C’è chi ha un impiego solido, facile da spiegare. C’è chi ha perso da poco un impiego solido, facile da spiegare, e si vergogna a confessarlo. C’è chi da mesi o da anni è senza lavoro, chi ha un lavoro che detesta, chi ha un lavoro precario. Seduto sotto il portico dell’One Tree Hotel, penso che “precario” è l’aggettivo giusto per definire l’essere umano su questa terra. Che cosa resiste al mutare delle epoche, o anche solo di una generazione?
– Un party di Capodanno! – esclama Jacqueline. – Lo sai, ti capisco.
– In che senso?
– Sarei fuggita in Australia anch’io, se già non fossi qui.
One Tree si trova lungo la Cobb Highway, nella grande pianura fra Hay e Booligal. Nel 1862 venne edificato un hotel, che bruciò nel 1903 ma venne subito ricostruito tale e quale; oggi è ancora in piedi e resiste alle tempeste, al sole, al fuoco.
Jacqueline mi ha detto che la località di One Tree è conosciuta anche come “Hell”, a causa di un poeta che la descrisse così. In effetti, nelle ore centrali del giorno, il sole picchia feroce e prosciuga i billabong, le tipiche pozze d’acqua del deserto australiano. Di recente nel Nuovo Galles del Sud è stato dichiarato lo stato d’emergenza: le temperature non sono mai state tanto alte e di continuo si accendono nuovi roghi; negli ultimi mesi le fiamme hanno distrutto centinaia di case.
– Oggi sei stato nel deserto?
– Sì.
– Da solo?
– Sì.
– Hai avuto pensieri buoni o cattivi?
– Buoni e cattivi.
– Come sempre. Non occorre andare nel deserto per essere nel deserto.
Durante la mia escursione ho riflettuto sugli incendi, sulla devastazione, sulla nostra fragilità e anche sulla tenacia che ci spinge a ricostruire. Insieme al male inestirpabile, insieme alla precarietà, l’essere umano ha questa prodigiosa resistenza, questa vitalità che nessuna fiamma riesce ad annientare. Quante volte mi capita di scordarmelo? Spesso mi sorprendo a ragionare come se fossimo spacciati, come se la mia fatica fosse una prova dell’inutilità di ogni sforzo. Proprio questo, forse, è uno dei mali peggiori: perdere la speranza, la fiducia nei confronti dell’umanità.
– Raccontami ancora di quell’uccello… come si chiama?
– La fenice – rispondo. In inglese: the phoenix.
– Ah, sì, come la città. Hai detto che brucia e che risorge dalle ceneri, right?
– Sì. Ogni cinquecento anni.
Jacqueline annuisce, lentamente. – È quello che facciamo tutti.
– Cosa?
– Bruciare. E risorgere. È la vita, right? Ogni giorno qualcosa muore, qualcosa tenta di rinascere, e intanto diventiamo vecchi.
– Sì, è un buon riassunto, ma…
– È strano – Jacqueline m’interrompe.
– Come?
Phoenix. È un nome strano, per un uccello.

HAIKU

Libero i vetri
dal ghiaccio e nel frattempo
l’anno finisce.

PS: Questo è l’ultimo “viaggio immaginario”. Ecco le puntate di gennaiofebbraiomarzo, aprilemaggiogiugnoluglioagostosettembreottobre e novembre.

PPS: La foto della paulonia è presa da internet.

PPPS: Un augurio di buon 2020 a tutte le lettrici e a tutti i lettori di questo blog!

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As-Summan

“Viaggi immaginari” è una serie di reportage da luoghi che non ho mai visto, scelti a caso sulla mappa del mondo. A farmi da guida l’antico gioco Hanafuda, che scandisce le stagioni dell’anno. Ogni mese le carte mi accompagnano nella scrittura di un racconto di viaggio e di un haiku.

Novembre
Hanafuda: Salice / Poeta / Rondine
Luogo: as-Summan (لصمّان), Arabia Saudita
Coordinate: 23°40’19.6″N; 49°25’45.3″E
(Latitudine 23.67210; longitudine 49.42926)
La scrittura, così come la lettura, è un modo di allungare la strada. Se nella mia vita devo andare da un punto A a un punto B, come dicono i matematici, se devo affrontare qualsiasi esperienza, potrei scegliere la via più rapida, quella più efficiente. Il gesto di prendere un foglio e scrivere – o di aprire un libro e leggere – è una perdita di tempo, una sorta di espediente per vivere vite che non sono la mia. Eppure, quanta ricchezza in questa divagazione fra il punto A e l’inesorabile punto B.
Capita a volte di sorprendere una lentezza, una sospensione nascosta nelle cose ordinarie. Qualche giorno fa stavo tornando a casa lungo una strada che dal centro della mia città porta verso la collina. Faceva freddo, perciò la mia intenzione era quella di affrettarmi per arrivare il più presto possibile. Eppure, a un certo punto, mi sono fermato, e in pochi secondi mi sono accorto che stavo leggendo il mondo in maniera diversa. Mi sembrava di essere al centro di un mosaico, le cui tessere si disponevano con precisione. Poco più avanti passava un treno, orizzontalmente; di fianco a me scorrevano le automobili, verticalmente. Sulla sinistra, dietro la vetrata di una palestra, ragazzi con abiti colorati ripetevano lo stesso gesto; sulla destra, ingrossato dalla pioggia, scendeva un torrente. Ogni tessera aveva un suono o un silenzio: lo sferragliare del treno, il pigolare degli uccelli, il rombo delle automobili, il gorgoglìo del ruscello, le azioni mute dei ginnasti dietro la vetrata.


Prima la realtà sembrava una cosa sola, come se fosse un monolite. Dopo la mia sosta, invece, le singole tessere del mosaico spiccavano nel loro splendore. Ho cercato di riprodurre questa sensazione anche nel mio viaggio ad as-Summan, in Arabia Saudita. È stato più difficile, perché all’inizio percepivo soltanto il vuoto. Poi, passato qualche minuto, il vuoto è diventato qualcosa di ancora più lancinante: un’assenza, una privazione.
Stavo camminando sull’altopiano di as-Summan, che si estende per quattrocento chilometri a est di ad-Dahna. Procedendo verso nord, in direzione del Golfo Persico, dopo un centinaio di chilometri avrei incontrato una regione meno improba, intorno all’oasi di al-Aḥsāʾ, la più grande di tutto il paese, abitata fin dalla preistoria. Ma non era mia intenzione percorrere tutti quei chilometri: ero al volante di una vecchia Toyota e avevo bisogno di fare benzina. Il mio piano era quello di procedere fuori strada per circa quattro chilometri; poi avrei trovato una strada che in un’ora mi avrebbe portato fino alla città di Haradh, famosa per le installazioni petrolifere e del gas. Ma non è di tutto ciò che voglio parlare, né dell’atmosfera di Haradh, con le sue case piccole e bianche, raggruppate insieme, e intorno un immenso cantiere, un mostruoso pianeta di tubi, acciaio e cemento.
Quello che mi piacerebbe descrivere è proprio quel momento in cui mi sono fermato, ho girato lo sguardo intorno e non ho trovato niente. Nessun appiglio per gli occhi, nessuna tessera del mosaico. Mi è venuto un pensiero bizzarro: questa situazione è tanto diversa da quella che ho trovato lungo la strada che portava a casa mia? Che cosa si nasconde dietro l’asfalto, il ruscello, il vetro, i binari della ferrovia?
Il nulla è sempre a un passo da noi. Abbiamo costruito, nei secoli, nei millenni, abbiamo abitato la terra, l’abbiamo trasformata. Abbiamo il desiderio di lasciare un segno, ma fino a quando? Tuttavia, proprio nel profondo del deserto ho sentito che questo desiderio non è vano. Anche se il vento cancellerà ogni cosa, anche se il tempo macinerà le nostre opere, averle compiute non è privo di senso. Il bisogno della bellezza è inestirpabile nell’essere umano, così come la necessità di far fiorire i deserti, che siano geografici o esistenziali.
Guardo le carte di novembre. Il Salice è un invito ad accogliere quanto succede, a sapersi piegare, adattare, mentre il Poeta (o L’Uomo della Pioggia) è un invito a insistere, a non demordere nel seguire la propria esigenza espressiva. L’uomo si chiamava Ono no Michikaze (894-966), conosciuto anche con il nome di Ono no Tōfū. Fu lui il primo a dare i tratti distintivi alla calligrafia giapponese, distinguendola da quella cinese. Si racconta che un giorno, deluso e amareggiato per la mancanza di risultati nel suo lavoro, si soffermò a osservare una rana che tentava di saltare sopra il ramo di un salice: dopo sei balzi falliti, la rana riuscì infine nel suo obiettivo; e in quel momento Ono no Tōfū trovò la forza interiore per proseguire nella sua ricerca. Oggi il calligrafo è raffigurato su una carta da gioco, nello stesso mese in cui appare anche il Fulmine: l’imprevisto, l’azzardo, l’ignoto che, mentre porta scompiglio, può condurre verso una rivelazione.

HAIKU

L’eco di un fischio
indugia sopra i tetti –
L’ultima rondine.

PS: Ho inserito un frammento audio registrato proprio nel momento in cui vedevo comporsi le tessere del mosaico.

PPS: Questo è l’undicesimo “viaggio immaginario”. Ecco le puntate di gennaiofebbraiomarzo, aprilemaggiogiugnoluglioagostosettembre e ottobre.

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Dighori

“Viaggi immaginari” è una serie di reportage da luoghi che non ho mai visto, scelti a caso sulla mappa del mondo. A farmi da guida l’antico gioco Hanafuda, che scandisce le stagioni dell’anno. Ogni mese le carte mi accompagnano nella scrittura di un racconto di viaggio e di un haiku.

Ottobre
Hanafuda: Acero / Cerbiatto
Luogo: Dighori (दिघोरी), Maharashtra 441203, India
Coordinate: 20°47’01.9″N; 79°13’11.7″E
(Latitudine 20.78386; longitudine 79.21991)
Andando in un sentiero di montagna m’imbatto in una coppia sui trent’anni. Stanno discutendo. Lei dice: «Qualcuno te lo deve insegnare, a essere forte, non puoi arrivarci da solo.» Lui tace. Lei aggiunge: «Come fai, se nessuno te lo insegna?» Il sentiero è pianeggiante, in mezzo a un bosco di latifoglie in cui spiccano l’arancione dei ciliegi e il rosso vivace degli aceri montani, luminosi come segnali d’allarme. Li saluto, loro proseguono. Alle mie spalle la voce di lei diventa più acuta. Mi accorgo che sta piangendo.
Che cosa posso fare? Non sono affari miei. Mi viene il pensiero di voltarmi, di chiedere se vada tutto bene. Di certo la prenderebbero come un’offesa. Esito, rallento. Mi fermo. Forse invece una parola detta da uno sconosciuto potrebbe aiutarli. Ma il mondo non funziona così. Il mondo può essere (o dirsi) moderno, aperto, sensibile alle differenze. Tuttavia gli steccati restano invalicabili: chi soffre deve soffrire da solo. Il dolore deve restare chiuso nella coppia, nella famiglia, nella cerchia più ristretta. O al massimo può essere buttato fuori nei social network, come un urlo scomposto. È doveroso, è necessario rispettare lo spazio privato degli altri. Bisogna salutare, cortesemente – e poi tirare diritto.
Dopo qualche secondo mi volto, quasi di nascosto. La coppia è scomparsa. C’è solo il sentiero, con gli alberi spogli, il fruscio del vento. Di colpo avverto il peso della mia solitudine. Sarà irragionevole, forse stupido. Di sicuro inutile. Ma sento un nodo di lacrime che mi stringe alla gola, come un morso, come l’agguato di una belva.
Sto pensando alla mia fragilità. Quante volte la vita ci sorprende inermi? Da bambini e da vecchi succede forse più spesso, ma anche nel pieno dei tempi, quando abbiamo costruito una fortezza – o almeno una baracca per ripararci dalle intemperie – anche allora capita che ci sentiamo perduti. Siamo come una preda. Un cerbiatto che si è attardato a bere, al fiume, e che si accorge di essere lontano, diviso da ogni gruppo, famiglia, compagnia. In quel momento, anche se non la vediamo, sappiamo che la belva si aggira nei dintorni. Il leopardo, con la sua capacità di piombarci addosso all’improvviso. La tigre, con la sua divisa mimetica, con la sua eleganza crudele. La tigre di cui non ti accorgi finché ormai è troppo tardi.
Ho provato questa sensazione nel mio viaggio in India. Avanzavo in un terreno brullo: polvere marrone, macchie di alberi, tratti di boscaglia più fitta. Non ero proprio fuori dal mondo: a un paio chilometri a sud-est c’era il villaggio di Dighori, che conta poco meno di cinquanta abitanti. Nella direzione opposta, camminando per tre chilometri circa, sarei giunto a Dongargaon, popolato da un centinaio di persone.
Questi paesi fanno pensare a una zona remota, in mezzo alla natura. Ed è così, in un certo senso. Ma se avessi raggiunto Dighori, e se avessi trovato un’automobile, in poco più di un’ora e mezzo, magari due contando gli imprevisti, sarei giunto alla città di Nagpur, la capitale d’inverno dello stato del Maharashtra (quella estiva è Mumbai).
Nagpur, con i suoi due milioni e mezzo di abitanti, è la tredicesima città più popolosa dell’India. Gli Inglesi la designarono come punto centrale del loro Impero delle Indie; e in effetti è proprio il centro geografico della penisola indiana, sebbene sia un po’ fuori dalle rotte turistiche. Secondo uno studio di Oxford nel periodo fra il 2019 e il 2035 Nagpur sarà la quinta città con la crescita più rapida al mondo, con un tasso di crescita media dell’8,41%. (Ai primi venti posti della classifica ci sono diciassette città indiane.) È un luogo vivo, pieno di movimento. Proprio in ottobre, ogni anno diventa una meta di pellegrinaggio per i buddisti, che in India sono una religione minoritaria. Nagpur è soprannominata anche il Cuore dell’India, la Capitale delle Arance (ne produce di rinomate) o la Capitale delle Tigri, per la grande quantità di questi animali presenti nelle riserve intorno alla città.
Mentre vagavo tra Dighori e Dongargaon, espressioni come “tasso di crescita” mi sembravano prive di consistenza. Anche “milioni di abitanti” era un concetto sfumato, astratto. Intorno a me non c’era nessuno. La parola “tigre”, invece, appariva nella mia mente come una cosa concreta. Era il tardo pomeriggio, la temperatura era calda, umida. Cercavo di camminare all’ombra degli alberi, per quanto possibile. Dal bosco venivano fruscii, schiocchi di rami. Che ne sarà di me, ho pensato. E adesso che sono tornato a casa, che sono lontano dalle tigri in carne e ossa, il pensiero non mi abbandona. Anche mentre scrivo, al sicuro nel mio studio, la domanda mi ferisce. Che ne sarà di me… che ne sarà di tutti noi?

HAIKU

Sale la nebbia.
Scricchiolano sul viale
passi di corsa.

 

PS: Questo è il decimo  “viaggio immaginario”. Ecco le puntate di gennaiofebbraiomarzo, aprilemaggiogiugnoluglioagosto e settembre.

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Santa Fe

 “Viaggi immaginari” è una serie di reportage da luoghi che non ho mai visto, scelti a caso sulla mappa del mondo. A farmi da guida l’antico gioco Hanafuda, che scandisce le stagioni dell’anno. Ogni mese le carte mi accompagnano nella scrittura di un racconto di viaggio e di un haiku.

Settembre
Hanafuda: Crisantemo / Coppa di saké
Luogo: Santa Fe, Nuovo Messico, Stati Uniti d’America
Coordinate: 35°41’46.2″N; 106°10’21.7″W
(Latitudine 35.69616; longitudine -106.17269)
Esco a fare una passeggiata. Sul fianco di una collina mi soffermo a guardare la città dall’alto. È tardi, fra un’ora sarà buio. Riprendo a camminare, seguo un tornante e di nuovo mi giro a contemplare la città. Stavolta però mi trovo davanti il verde smagliante di una siepe. Mi viene in mente che, oltre quella siepe, si distendono le strade, le piazze, i quartieri residenziali, il fiume… ma che importa? Sono nella classica situazione leopardiana. Nel pensiero posso fingere interminati spazi e infiniti silenzi di là dalla siepe, posso giungere fin dove mi porta il desiderio. Mi accorgo però di avere trascurato un dettaglio. Di là dalla siepe c’è una terrazza. E sulla terrazza, approfittando dell’ultimo sole, un uomo e una donna stanno chiacchierando. Devono essere davanti alla porta della cucina, perché sullo sfondo sento una voce infantile che ripassa le moltiplicazioni.
– Cinque per uno cinque, cinque per due dieci, cinque per tre quindici…
La voce dell’uomo è più grave. – Lo so che fanno tutti così. Ma a me piace spendere i soldi che ho. Cioè, se voglio una macchina la compro.
– Ma se non puoi comprarla? – interviene la donna.
– Allora ne compro un’altra. Ma sarà la mia macchina.
– Anche se la prendi in leasing è tua. È la stessa cosa.
L’uomo fa un sospiro. – Io spendo solo i soldi che ho.
– Sette per tre ventuno – dice intanto il bambino (o la bambina). – Sette per quattro ventotto, sette per cinque trenta, no, trentacinque, sette per sei quarantadue, sette per sette quarantanove…
Mi allontano. Non ho visto niente, non ho immaginato niente. Ma forse ascoltare è ancora meglio. Ascoltare e capire quando è il momento buono per scrivere. Un tempo, in Giappone, durante le feste di settembre era usanza riunirsi in riva ai ruscelli e ai canali per comporre versi sullo splendore dei crisantemi. Per gioco si facevano galleggiare le coppe di saké sull’acqua corrente e tutti cercavano di scrivere un poema prima che la coppa arrivasse davanti a loro. Anch’io voglio scrivere in questo modo. Non bevendo saké (o non sempre), ma tentando di raccontare una cosa solo al momento giusto, quando mi sembra necessario condividerla.
Confesso che non mi sento del tutto pronto a parlarvi del mio viaggio nel Santa Fe National Park. Ancora non ho capito bene che cosa mi sia accaduto. Però sento che qualcosa devo dire prima che finisca settembre.
Era una giornata di sole. Non faceva troppo caldo, ma tutto era secco, e il vento sollevava sbuffi di polvere. Faticavo a orientarmi, perché il paesaggio era uniforme: rocce, piccoli arbusti che sembravano pini, qualche picco in lontananza. Forse quello a nordovest era il Cerro Micho. Speravo che potesse fungere da punto di riferimento: secondo i miei calcoli dovevo essere a una decina di chilometri dal Rio Grande, dove avrei trovato l’acqua.
Dopo un paio d’ore di cammino mi sentivo in un mio personale film western. Non ero più un Andrea qualunque, ma un personaggio: il bandito a cui hanno rubato cavallo e borraccia. L’uomo solo che deve passare dalle zone più impervie, covando la nostalgia di una voce amica, di un whisky, di un profumo femminile. Il desperado braccato dai cacciatori di taglie. In fondo il suo desiderio è fuggire in un luogo lontano e mettere su un ranch, ma sa che non sarà facile. No, non sarà per niente facile.
Il bandido, roso dalla sete, punta verso il Rio Grande. Potrebbe cambiare direzione e tornare verso Agua Fria, dove forse troverebbe un riparo per la notte. Ma è troppo rischioso. Non devo farmi prendere. Non mi resta altro che la mia libertà. È una vita sporca, misera, solitaria. Ma è la mia vita. Non me la lascerò strappare via dal primo sceriffo in cerca di gloria.
A pochi passi dal Rio Grande una voce mi coglie di sorpresa.
– Ehi, gringo, stai cercando qualcuno?
Mi volto, lentamente. Sono pronto a combattere.
Ecco. Questo è il mio delirante viaggio di settembre. È tutto vero? È tutto falso? This is the West, sir. When the legend becomes fact, print the legend. Nel west, se la leggenda incontra la storia, vince sempre la leggenda.

HAIKU

Viene la notte –
In fondo all’orto ridono
i fiori d’oro.

 

PS: Questo è il nono  “viaggio immaginario”. Ecco le puntate di gennaiofebbraiomarzo, aprilemaggiogiugnoluglio e agosto.

PPS: La frase «This is the West, sir. When the legend becomes fact, print the legend» proviene dal film The man who shot Liberty Valance, girato da John Ford nel 1962. È un giornalista a pronunciarla, per sottolineare come sui giornali trovi posto il mito del Far West anche quando esso non corrisponde ai fatti. Nella prima parte dell’articolo, cito qualche parola della poesia L’infinito, scritta nel 1819 da Giacomo Leopardi.

PPPS: Colpiti da questa serie di viaggi immaginari, alcuni lettori del blog di viaggi Rolling Pandas hanno voluto approfondire la conoscenza con me. L’intervista si trova qui. Ringrazio Alice e tutti i responsabili del sito Rolling Pandas, che offre la possibilità di organizzare viaggi in tutto il mondo.

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