Capolinea Frankental

#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.

La piazza chiama. Noi rispondiamo.
Che non sia un giorno come gli altri appare subito evidente.
Per cominciare, siamo entrambi in anticipo di mezz’ora: alla stazione di Zurigo, senza dire nulla, ci troviamo in quello che è ormai diventato l’unico posto possibile (per incontrarsi). Il cielo, poi, è di un blu troppo intenso per non nascondere qualcosa. Percorriamo rapidamente la distanza che ci separa da Paradeplatz, seguendo la scia di cavi a penzoloni che di notte rendono magica – si dice – la Bahnhofstrasse, illuminando la via con una pioggia di stelle. Di giorno invece le luci spente esaltano l’assenza di colori. Giacche, loden, mantelli oscillano fra il nero e il grigio. Le facce dei passanti appaiono pallide, affaticate, mentre il freddo punge la pelle. I raggi del sole, che pure ci sono, sembrano il ricordo ostentato di un lontano torpore, un po’ come quando davanti a una palazzina si sente dire «qui una volta c’era un prato, c’erano i fiori, ci venivo a giocare».
All’inizio, appena giunti a Paradeplatz, non ci accorgiamo di niente. Poi, dopo qualche secondo, ci rendiamo conto di essere circondati. Intorno a noi è schierato un esercito nemico: un corpo di fanteria composto da appuntiti alberi di Natale ci sta prendendo di mira dai tetti dei palazzi, dalle vetrine, dagli angoli delle strade. Cerchiamo rocambolescamente riparo nel Lichthof, il cortile interno dell’edificio che ospita la Crédit Suisse, ma cadiamo in un agguato.
Gli alberi, tutti identici nella loro agghiacciante opulenza, sono disposti in una sinistra simmetria tra il colonnato marmoreo e le vetrine delle boutiques. Cresce l’inquietudine. Davanti ai nostri occhi, nel centro del centro di questa sorta di chiostro, la fontana è diventata un altare in attesa del sacrificio e del sangue. Ripariamo all’esterno dove, istintivamente, proviamo a difenderci nell’unico modo che conosciamo: prendiamo i nostri taccuini, afferriamo la penna con le dita rigide e cerchiamo apparizioni.
L’attesa dura poco. Tempo di sedersi ed ecco un Uomo Senza Macchia, vestito completamente di bianco. Un imbianchino in pausa pranzo? Un arcangelo che con questo freddo preferisce viaggiare in tram? L’assoluto candore dei suoi abiti è una risposta alla monotonia cromatica, agli sguardi smorzati, all’austera cortesia dei passanti. Poco dopo, nel gelo della piazza, ad attirare la nostra attenzione sono i capelli grigi dolcemente ondulati di un’anziana ed elegante signora, che si avvicina leggiadra alla fontanella. I pochi gesti che seguono sono tra i più antichi nella storia dell’umanità: una donna si avvicina a una fonte, si china, accosta le labbra all’acqua, beve. A confermare questo sussulto di vitalità, da un tram sbarca una scolaresca. Un nugolo di bambini circonda la nostra panchina. Come sempre, sono fra i pochi avventori che sostengono il nostro sguardo senza imbarazzo, osservano i taccuini, si siedono accanto a noi spontaneamente, evitando la più svizzera e improbabile delle domande: isch da no frei, è ancora libero qui? Presto si accendono risate, parole squillanti e ancora, all’improvviso, una canzone.

Forse pungolati dalla maestra, fatto sta che i bambini cantano. Intorno continuano a muoversi le signore impellicciate, gli uomini d’affari, i vecchi dallo sguardo perduto. Qualcuno accenna un mezzo sorriso, la maggior parte lancia un’occhiata rapida e tira diritto, verso il prossimo appuntamento.
Dopo tanti mesi, oggi troviamo la parola per definire questo luogo. Non è una parola nuova, l’abbiamo già menzionata più volte nelle nostre conversazioni e diversi suoi sinonimi hanno già trovato spazio nei nostri testi. Eppure solo oggi la sentiamo emergere definitiva: Paradeplatz è e rimane uno svincolo. Un posto da cui si deve transitare per raggiungere una destinazione. Non sarà mai una di quelle piazze dove la gente sosta, perde (cioè guadagna) tempo, avvia conversazioni. Di qui si continua a passare in fretta, con il pensiero rivolto altrove. È proprio questo, paradossalmente, che rende possibile una mescolanza sociale vertiginosa, difficile da ritrovare in altri luoghi di assembramento. Esistono piazze frequentate dai giovani, altre dai pensionati, alcune predilette dai turisti, altre dai lavoratori. Qui invece gli estremi si sfiorano con naturalezza. Da una limousine tirata a lucido scende un individuo sicuro di sé, dallo sguardo sfacciatamente determinato. Mastica una gomma sbattendo la bocca, con un gesto che mette in evidenza i muscoli della mascella. A pochi metri da lui c’è uno sfaccendato con un abito troppo leggero: finisce di fumare, getta il mozzicone per terra e si avvia come uno che non sa dove andare. Nella mano tiene un enorme pacco di patatine chips. Arriva una guida turistica con il suo gruppo di seguaci. Mentre snocciola dettagli sulla piazza, si affretta a precisare: hier ist das Geld, è qui che stanno i soldi. Intanto un mendicante gira intorno alla pensilina, augurando buon Natale e chiedendo spiccioli per un caffè.

Certo, avere attraversato questa piazza lungo il naturale e ciclico incedere delle stagioni ci rende sensibili alle impressioni nostalgiche. Sicuramente anche qui, prima della colata d’asfalto, «una volta c’era un prato». Come non tornare con la memoria ai piccoli segnali di vita vissuta, che abbiamo tentato di raccontare ogni mese per iscritto?
I dodici testi riflettono dodici frammenti di tempo strappati alla nostra quotidianità. Abbiamo cancellato appuntamenti e rinviato faccende da sbrigare. Ci siamo fermati. Ci siamo seduti ogni mese per un paio d’ore in mezzo al viavai… Non solo quello dei passanti, ma anche quello dei nostri pensieri, delle preoccupazioni, delle malinconie. Ci sono stati mesi in cui eravamo stanchi morti, altri in cui uno di noi era triste, altri ancora in cui il gesto assurdo di venire a Paradeplatz sembrava dare un senso a tutto il resto. Eravamo qui un giorno umido di gennaio, abbiamo visto i primi cenni della primavera, l’afa dei mesi estivi, abbiamo superato l’autunno per approdare a questo giorno di metà dicembre.
Come non cedere al sentimentalismo? Un modo ci sarebbe: nominare tutte le cose di cui non abbiamo parlato in questi dodici mesi. Per esempio la statua di Alfred Escher, all’uscita della stazione di Zurigo: «seguite il mio sguardo e la troverete, la vostra piazza», ci ha detto la prima volta. Ma ancora la bottega di tabacco sul lato sud di Paradeplatz, l’ufficio dei trasporti pubblici, il negozio della Lindt & Sprüngli (dove stavolta ci siamo bevuti un caffè liscio). E proprio di fronte alle vetrine colme di graziose scatole di cioccolatini (a prezzi meno graziosi), la scultura di Silvio Mattioli che esplode e si sfilaccia a mezz’aria, trattenuta solo da una goccia d’acqua che scende implacabile da una sporgenza, a formare una minuscola pozzanghera.

Poi le telefonate, le frasi colte al volo e smarrite, i personaggi passati in un lampo, i capolinea dei tram che non abbiamo mai raggiunto. Vorremmo pronunciare una parola ufficiale di commiato, compiere un memorabile gesto di addio, ma siamo pervasi da una strana sensazione d’incompiutezza. Allora, come abbiamo fatto mese dopo mese, leggiamo una poesia.

Oh rompere gli indugi
Partire partire
Io non sono fra coloro che restano
La casa il giardino tanto amati
Non sono mai dietro ma davanti
Nella splendida bruma
Sconosciuta

Questi pochi versi di Anne Perrier sono un segnale. Ripensando ai tram che non abbiamo preso e ai luoghi che non abbiamo raggiunto, un toponimo si stacca dagli altri e si accende di luce propria: Frankental. Non è un capolinea come gli altri; è quello che per primo, in gennaio, ci ha suggerito una mai sopita volontà di fuga. L’attrazione dell’ignoto. Frankental è la nostra promessa, il nostro capolinea. Da un anno ci sta chiamando, ed è per lui che ci rimane una sola cosa da fare: andarcene. Perché Paradeplatz è e rimane uno svincolo. Non siamo noi a fare eccezione: ci siamo fermati dodici volte, è vero, ma solo per ripartire. Quando il tram numero 13 si ferma incrociamo gli sguardi, infiliamo i taccuini negli zaini e siamo i primi a salire. Dietro, vicino alla fontanella, la Heilsarmee – Suppe für alle! recita un volantino – si sta preparando per un concertino natalizio, trombe e tromboni escono dalle loro custodie, ma non sentiamo nulla, le porte si stanno chiudendo, ora sono chiuse, il tram si muove, prende velocità… Anche il concertino è da rubricare nelle cose di cui non abbiamo parlato.
Chi siamo noi? Due persone che si danno appuntamento ogni mese in una piazza lontano da casa. Ma non abbiamo niente di meglio da fare? A cosa serve correre sui treni per raggiungere un luogo dove poi non facciamo niente? Chi continua a nutrire queste più che pertinenti perplessità, avrà ora nuovi materiali di (psic)analisi: se fino a oggi i nostri incontri sono apparsi assurdi, cosa dire di questo ultimo viaggio? Due persone adulte salgono sul tram numero 13 diretto a Frankental con l’unico scopo di andare a Frankental. Nient’altro che il desiderio di essere lì. Non abbiamo appuntamenti, non abbiamo impegni, non abbiamo motivi validi e spendibili nella vita di tutti i giorni. Vogliamo solo partire, guardare davanti a noi nella splendida bruma /sconosciuta.
Sotto i nostri piedi sentiamo i binari, ogni movimento ha il suo rumore e il suo segreto. Dal finestrino scorgiamo muri con graffiti, cavalcavia, strade vuote e poi sempre più verde: siepi, alberi, pezzi di prato. Attraversiamo quartieri di villette discrete, dove Zurigo si traveste da villaggio. Superiamo supermercati e palazzi. Alla fine, giungiamo a destinazione. Il tram si ferma. Da dietro le porte ancora chiuse scorgiamo una vigna, un fumo che sale in lontananza. La stazione del tram è un edificio rotondo, un disco volante atterrato per sbaglio nel cuore della Svizzera. Siamo arrivati. Siamo qui. Siamo a Frankental.

Eccolo il nostro capolinea. Basta un occhiata e cominciamo a capire. Sorridiamo con una leggerezza diversa, una spontaneità che nel frattempo avevamo dimenticato. Non c’è spazio per i dubbi, questa volta.
Frankental è la fine e l’inizio.

[YB+AF]

PS: La poesia della scrittrice losannese Anne Perrier (1922-2017) è tratta dalla raccolta La voie nomade (1982-86), in La voie nomade et autres poèmes. Œuvres complètes 1952-2007, L’Éscampette Éditions 2008. La traduzione è di Andrea.PPS: Lo spirito natalizio di Paradeplatz ci ha chiesto di trasmettere a tutti i lettori – chi ci ha accompagnato negli ultimi mesi e chi invece ha appena scoperto l’esistenza di questo blog, magari cominciando proprio da questo PS – un augurio di buon Natale. È la prima volta che ci viene chiesto di fare da intermediari, ma come rifiutare?

PPPPS: Per chi volesse aiutare l’immaginazione con i suoni, ecco ciò che si sentiva nei dintorni della guida turistica e dei suoi seguaci.

 

PPPPS: Questa è l’ultima puntata della serie. Se cercate le altre, eccole qui. Siamo stati a Paradeplatz in gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugnoluglioagostosettembreottobre e novembre.

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Una piazza è una piazza

#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.

L’altoparlante annuncia «Wir treffen in Zürich ein», così alzo gli occhi ed esco dal mio libro. La copertina è striata d’argento: Kurt Vonnegut, Mattatoio n. 5. «Ma sì, quel romanzo dove il protagonista impazzisce e crede di viaggiare nel tempo e nello spazio con gli alieni», mi aveva detto un amico pochi giorni prima. «O quello dove sono tutti gli altri a essere pazzi», avevo cercato di rispondere.
Andrea mi aspetta in un punto preciso vicino alla stazione. È solo la seconda volta che ci incontriamo per raggiungere Paradeplatz, ma è già diventato il nostro solito posto: «Ho preso il treno non si sa come. Arrivo alle 12:28 a ZH. Ci vediamo al solito posto?»; «Tu scherzi, ma io l’ho preso all’ultimo secondo, trafelato, mentre già si stava avviando… Sì, ci vediamo al solito posto» (scambio di messaggi delle 11:33, per gentile concessione del Grande Archivio Digitale Che Abita I Nostri Telefoni).
Arriviamo a piedi e il freddo punge le mani, ma la piazza è illuminata per metà dal sole. La gente si muove più leggera, forse allegra. Si ha voglia di scherzare e di laudare, come nella poesia di Guinizzelli che abbiamo preso con noi.

Io vogliọ del ver la mia donna laudare
ed asembrarli la rosa e lo giglio:
più che stella dïana splende e pare,
e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio.
Verde river’ a lei rasembro e l’âre,
tutti color di fior’, giano e vermiglio,
oro ed azzurro e ricche gioi per dare:
medesmo Amor per lei rafina meglio.
Passa per via adorna, e sì gentile
ch’abassa orgoglio a cui dona salute,
e fa ’l de nostra fé se non la crede;
e no·lle pò apressare om che sia vile;
ancor ve dirò c’ha maggior vertute:
null’om pò mal pensar fin che la vede.

In Paradeplatz, oggi, siamo in un altro e sempre dolce stil novo. Non tarda infatti ad arrivare una signora che passa per via adorna: ci sono più fiori sulla sua giacca che in tutta la vetrina del fiorista all’angolo.

In un attimo i tram si moltiplicano, e con loro le gambe dei passanti. Alzo lo sguardo ed è il momento in cui lo vedo. Non c’è dubbio che sia lui. D’altra parte, malgrado il clima, non porta la giacca. È lì per caso, di passaggio, con un abbigliamento elegante ma visibilmente fuori dal tempo, effetto seppia. Ha le mani in tasca e aspetta il suo tram. Chissà dove lo porterà questa volta. Nel passato o nel futuro? Sulla Terra o su Tralfamadore?
Quando sale in carrozza, Kurt Vonnegut si gira e ci fissa dal finestrino. Sta andando nel futuro, ci sarei potuto arrivare prima: la direzione del tram indica «Morgental». Similmente a un battello di Giorgio Orelli, anche il tram di Paradeplatz «già aspetta, già riparte, è già domani».
Peccato che tra ieri, oggi e domani, Andrea sia nel frattempo scomparso. Guardo intorno. Di lui restano solo le due borse con i libri, la pipa e altri oggetti utili, come un richiamo per uccelli e un piccolo rastrello rosso.
[YB]

*

Paradeplatz è un gioco di riflessi. Risplendono al sole le vetrate delle banche, la finestra ondulata della pensilina, gli schermi dei bancomat, il ghirigoro d’acqua della fontanella che si confonde con la collana di un’insegna pubblicitaria. C’è da farsi venire il capogiro. Anche nella donna di Guinizzelli si riflettono la rosa e lo giglio, la prima stella del giorno, la dolcezza dell’aria, la campagna e i gioielli e i colori e l’amore stesso, che diventa per grazia di lei ancora più raffinato, ancora più amoroso. Sembrano saperne qualcosa i due angeli di pietra che, dalla cima di un austero palazzo, si permettono di scherzare con una nuvola di passaggio.
A Zurigo, in febbraio, è ancora troppo presto anche solo per pensare la parola “primavera”. Tuttavia, c’è qualcosa. Sarà il miracolo di essere giunti puntuali. Oppure la fragranza di quelle rime d’amor che, più di settecento anni dopo, risuonano ancora dolci e leggiadre. O magari la donna in azzurro affacciata a una finestra del Savoy. Qualcosa c’è, di sicuro. Se stai seduto abbastanza a lungo, dietro ogni passante vedi un personaggio.
L’uomo senza giacca, elegante, brizzolato, non cede alla disperazione. Le mani in tasca, il volto imperturbabile. Arriva il tram diretto a Morgental. L’uomo lascia salire gli altri passeggeri e si siede per ultimo. Da quando la sua copertura è saltata, le spie di mezza Europa sono sulle sue tracce. Ma è uno di quegli uomini educati ad avere stile in ogni cosa: prendere un tram, cedere il posto alle signore, andare incontro alla morte. Il vagone passa davanti a noi. L’uomo ci osserva. È un attimo, ma ci rendiamo conto che lui sa che noi sappiamo che lui sa.
A distrarmi dagli agenti segreti, appare la Dama dal Cappotto Giallo. Mi accorgo che anche lei, come Yari e me, lascia passare tutti i tram senza muoversi, senza battere ciglio. Mi avvicino per osservarla meglio ma la dama, come assecondando un impulso, entra nell’edificio di una banca. La seguo. Arrivo in una sala spettrale. C’è una specie di creatura marziana dipinta sulla parete di fondo. La Dama in Giallo sta parlando con due uomini, uno dei quali – appena mi vede – mi rivolge due gesti: uno per dirmi di no e l’altro per invitarmi a uscire. Che posso fare? Obbedisco.
Yari mi domanda dove fossi fuggito. Mentre gli racconto della dama perduta, noto davanti a me l’insegna di un negozio, dall’altra parte della piazza: Blue Lemon. Accanto alla scritta c’è un luminoso, radioso, squillante limone, giallo com’era giallo il cappotto di lei. Annoto sul taccuino: limone stilnovista. Infine mi appoggio allo schienale, chiudo gli occhi e ascolto i suoni di Paradeplatz.

 

Le campane e i freni dei tram. Pezzi di conversazioni in svizzero tedesco, in francese, in inglese, in italiano, in spagnolo, in lingue sconosciute. Un uomo che fischietta. Il brusio di tutti i personaggi che, misteriosamente veri nella loro finzione, si nascondono nel flusso dei passanti.
[AF]

*

Per fortuna esistono i taccuini. Torno a rileggere le pagine fitte di geroglifici risalenti alla nostra visita di gennaio per avere conferma, e le cose stanno come pensavo: è la seconda volta su due che Andrea, mosso da nobili propositi (accondiscendendo cioè alla sua curiosità), si fa cacciare da qualche antro di Paradeplatz. La prima volta dopo aver tentato di dare un’occhiata ai gabinetti pubblici, e in particolare a due sacchi di giornali posati in un angolo: una donna – di certo estranea all’amor cortese – gli fece notare che un gabinetto è un gabinetto e le attività ivi compiute non contemplano fantasie romanzesche. La seconda volta è quella della Dama in Giallo, da non confondersi con la Signora in Giallo.
Va così. Finché rimani nei ranghi e ti attieni alle convenzioni sociali, al tuo ruolo di passante o persona-che-aspetta-il-tram, va tutto bene. Non appena ti siedi per terra a fotografare uno scorcio, per esempio, trasgredendo le regole tacite, sei immediatamente guardato di traverso e bollato. Ogni movimento inconsulto viene bloccato sul nascere dal più temibile dei verbi: il verbo essere. Questi giornali… No, un gabinetto è un gabinetto! La Dama in Giallo però… No, una banca è una banca! Vorrei fotografare dal basso… No, una piazza è una piazza! E allora se ci sedessimo e la osservassimo, questa piazza, e ci tornassimo ogni mese? No, Paradeplatz è Paradeplatz! (Eh sì, avranno sempre l’ultima risposta.)
Transita una ragazza vestita di nero e grigio, nel più anonimo dei nero-grigio, distinta, curata. Insieme alla borsetta porta un sacchetto che dice Show who you are. Dietro di me, il Brucaliffo le dice: «You! Who are you?». (Eh sì, il Brucaliffo avrà sempre l’ultima domanda.)[YB]

*

Paradeplatz è Paradeplatz. Ma è anche Paradeplatz. Seguendo Yari nel paese delle meraviglie, mi accorgo che le piazze sono almeno due: quella indaffarata (scarpe lucide, borse di pelle, cravatte) e quella trasognata (agenti segreti, dame stilnoviste, brucaliffi). Perciò torniamo a Zurigo, mese dopo mese. E perciò scriviamo: per passare dal singolare al plurale. Così la prossima volta potremo darci appuntamento ai soliti posti.
[AF]

PS: Mattatoio n. 5 è probabilmente il più celebre romanzo dello scrittore statunitense Kurt Vonnegut (1922-2007). Il protagonista, Billy Pilgrim, viaggia nella sua vita fra passato, presente e futuro. Dalle esperienze militari in Europa durante la seconda guerra mondiale, dove da prigioniero assiste (e sopravvive) al bombardamento di Dresda, come lo stesso Vonnegut, fino al periodo trascorso in uno zoo del pianeta Tralfamadore.PPS: Guido Guinizzelli, invece, nato a Bologna intorno al 1230, morì probabilmente nel 1276. Dante lo riconosce come maestro nella Commedia. È nel canto XXVI del Purgatorio che il poeta fiorentino incontra «il padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d’amore usar dolci e leggiadre» (vv. 97-99). La lirica «Io voglio del ver la mia donna laudare» è tratta dal volume Poeti del Duecento, a cura di Gianfranco Contini, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960.PPPS: I versi di Giorgio Orelli (1921-2013) vengono da Oltr’alpe (in L’ora del tempo, Milano, Mondadori, 1962), che così finisce: «Parliamo di battelli ora che uno / ne arriva con un grido che un tempo / un muggito non era: bianco e sporco, / dimentico dei pochi viaggiatori, / già aspetta, già riparte, è già domani» (vv. 16-20).PPPPS: Il Brucaliffo è il Bruco di Alice nel paese delle meraviglie (Caterpillar in inglese, ribattezzato Brucaliffo nella versione italiana dell’omonimo film di Walt Disney, del 1951). La frase citata compare nel libro e nel film di Walt Disney.

Impossibile non segnalare anche la voce di Alan Rickman, prestata al Brucaliffo nella versione cinematografica di Tim Burton, nel 2010: «The question is who are you»… Indimenticabile.PPPPPS: Ogni mese torniamo a Zurigo e ci sediamo su una panchina di Paradeplatz. Ogni volta, abbiamo con noi una poesia diversa. Trovate qui la puntata di gennaio.

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Non ci saremo

#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.

Paradeplatz, a Zurigo. Forse la piazza più famosa della Svizzera, dove batte il cuore della Confederazione. (Anzi, uno dei cuori: la Svizzera è un paese pluricardiaco.) La domanda è: come si può arrivare tardi a un appuntamento in un luogo tanto solenne?
Ecco le mie giustificazioni:
1) Al momento di scendere dal treno stavo orecchiando una conversazione. Una donna riferiva a un’amica le rivelazioni di un non meglio precisato sciamano, e cioè che il virus dell’influenza è irradiato dal governo per far aumentare i costi della salute e per far guadagnare le aziende farmaceutiche.
2) Tutto ciò mi ha distratto a tal punto che ho scordato il cappello sul treno. Sono tornato indietro, ma non c’era. Una signora molto cortese l’aveva preso e mi stava cercando sul binario. Trovala, spiegale, ringraziala. Ritardo.
Con Yari Bernasconi, in Paradeplatz, abbiamo letto una poesia di Fabio Donalisio.

dire le cose non è raccontarle e
spiegarle men che meno; è accettare
che esista il binario e pure il treno
e l’unico senso è che noi
non ci saremo

Mentre eravamo seduti a leggere, siamo invecchiati in fretta.
Quando alziamo gli occhi, ci accorgiamo che tutte le persone intorno sono nuove. All’improvviso, sento l’impulso di salire sul primo tram, magari quello diretto allo zoo o a Frankental. Del resto, sulle fiancate dei tram le pubblicità sbandierano panda, koala e viaggi da sogno a Singapore. Ma ci sono binari che non vedremo e luoghi che, forse, esistono proprio perché non ci saremo. Un’altra pubblicità tranviaria dice: The show must go wrong.
Sfilano cravatte e borse della spesa, zampettano piccioni, passano e ripassano con suono di risucchio macchine per la pulizia stradale. Accanto a me si siede una ragazza con un telefono così vasto che, anche se lo non facessi di proposito, probabilmente leggerei per sbaglio ciò che sta scrivendo. È un’immensa, entusiasta parola, in un profluvio di faccine: Woooooooow!!! (Mi pare di aver contato sette vocali e tre punti esclamativi, ma non ne sono sicuro). Guardo Yari e gli dico che la prossima volta dobbiamo andare a Frankental.
[AF]

*

Per noi che abitiamo a Berna, andare a Zurigo significa in genere prendere l’Intercity diretto che in 56 minuti ti lascia alla stazione centrale della più popolosa città della Svizzera. Facile. Andare a Zurigo per incontrarmi con Andrea Fazioli, invece, significa in genere scoprire solo una volta arrivati chi dei due:
a) ha sbagliato giorno (worst case scenario, come dicono i cultori del risk management: le parole sono importanti, e il nostro ambiente è molto cheap);
b) è in ritardo (best case scenario).
Questa volta è il cappello di Andrea – che è poi il cappello di Leonard Cohen – a essere in ritardo. Così, per evitare di affrettarmi, dopo essere sceso dal treno mi sgancio dalla folla che avanza verso le uscite della stazione. Nel giro di pochi minuti, l’illusione di appartenere a una comunità si scioglie in una meno volatile evidenza: sono solo. Sopra la testa i tabelloni digitali con gli orari dei treni. Tutto intorno una pulizia irreale, muri chiari e corrimani metallici.
La pulizia è anche la prima immagine che mi investe in Paradeplatz: il tempo di sedersi e una pulitrice a quattro ruote comincia a fare il giro della piazza, spazzando l’asfalto già lustro e aspirando con roboante entusiasmo. Ci si può chiedere perché certi clichés vengano coltivati con tanta dedizione. Sotto il tettuccio della pensilina dove sostiamo, del resto, le vetrate della struttura che porta ai gabinetti sotterranei sono così terse da scomparire (ma ci sono, giuro).
Un uomo fissa lo spazio libero accanto al mio, mi guarda due volte senza sorridere e decide di sedersi solo quando è sicuro che nemmeno io gli sto sorridendo. Ma è un attimo: il suo tram arriva, lui corre e io l’ho già dimenticato.
Non conosco bene Paradeplatz. La mia antipatia non ha argomenti solidi e cerco di dissimularla rapidamente, come se qualcuno potesse cogliermi in fallo. Eppure in questo imbarazzo riconosco qualcosa di rassicurante, di umano. In fondo, se di Paradeplatz vogliamo scrivere, forse la strada da seguire non è così distante da questa componente poco razionale. Per esplorare davvero le cose, bisogna anche fare i conti con la nostra imperfezione, con l’imponderabile, con tutti i paradossi (evidenti e non) che ci abitano. Ecco perché dire le cose non è raccontarle e / spiegarle men che meno. Non è sufficiente rifugiarsi in qualche apparente, transitoria ovvietà.
Certo, di tutto questo Paradeplatz se ne infischia. Chi giunge qui sembra avere solo voglia di ripartire. Oppure viene respinto come in una centrifuga. Una donna chiede ad Andrea se il tram su cui sta salendo è quello per la stazione. «Ich glaube», risponde lui. Poi mi guarda e aggiunge: «La prossima volta dobbiamo andare a Frankental». La poesia dei capolinea. In Piazza della Parata, ogni tram è una promessa.
[YB]

*

Sì, è un luogo promettente. Ma è anche indecifrabile. Forse perché i luoghi, se li guardi a lungo, diventano tutti misteriosi. A che cosa serve una piazza? Ad allontanarsene, a sostare, a pensare… qual è il suo vero scopo?
[AF]

*

E invece della Memoria, del Sole, della Vittoria, perché non c’è Piazza della Dimenticanza, Piazza dell’Uggiosità, Piazza della Sconfitta? Al posto di un Fondatore della Patria, perché non prendere un panettiere?
[YB]

PS: La poesia di Fabio Donalisio è tratta da Ambienti saturi (Amos edizioni 2017).

PPS: Torneremo ogni mese in Paradeplatz (se riusciremo a non perdere troppi treni). Ogni volta leggeremo una poesia. Ci metteremo a sedere e guarderemo ciò che succede. Questa serie scritta a quattro mani prenderà il posto di quella, a due mani, dedicata nel 2017 a un’anonima piazzetta bellinzonese (trovate qui i link a tutte le puntate).

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