Sud

Nel corso della nostra vita possiamo scoprire di appartenere a luoghi che non abbiamo mai visto. Come dice Marcel Proust, anche da una visuale puramente realistica, i paesi che noi desideriamo tengono in ogni istante assai più posto nella nostra esistenza vera dei paesi dove abitiamo in realtà. Nella sezione della Strada di Swann intitolata Nomi di paesi: il nome, Proust accenna alla forza evocativa dei toponimi.
Esistono parecchi modi di viaggiare, che implicano più o meno dispendio di mezzi e di tempo. Uno dei più semplici è senza dubbio quello di limitarsi a pronunciare un nome, lasciando che esso susciti assonanze, ricordi e sensazioni. Questo vale per i posti che abbiamo già visto, poiché essi, come annota lo stesso Proust, diventano un tentativo di fissare il tempo: I luoghi che abbiamo conosciuti non appartengono solo al mondo dello spazio, nel quale li situiamo per maggiore facilità. Essi sono solamente uno spicchio sottile fra le impressioni contigue che costituivano la nostra vita d’allora; il ricordo d’una certa immagine non è che il rimpianto d’un certo minuto; e le case, le strade, i viali, sono fuggitivi, ahimè, come gli anni.
Ma pronunciare nomi non è solo un esercizio nostalgico. A volte si tratta davvero di un modo per svegliare la fantasia, specialmente quando elenchiamo luoghi che non abbiamo mai visto. Per questa ragione, spero che non scompaia del tutto il vecchio Orario Ferroviario cartaceo, con la lista delle stazioni e delle coincidenze. È una lettura ideale prima di andare a letto: i nomi, scritti l’uno in fila all’altro, diventano montagne, laghi, precipizi, cascate, strade fragorose, vicoli, sentieri abbandonati.
Altri “viaggi non viaggiati” sono i cartelli che appaiono in autostrada o dai finestrini del treno, anche lungo i tragitti abituali. Ogni volta che vado a Milano non posso fare a meno d’immaginare Gradate, Fino Mornasco, Lomazzo, Turate, Origgio, Uboldo… Per qualcuno saranno toponimi banali, soprattutto se ci è nato o vissuto, invece per me sono occasioni a portata di mano: un giorno magari mi fermerò, o forse no. I toponimi delle mie parti – Lugano, Lamone, Taverne, Rivera, Bellinzona, Corvesco, Airolo – per me sono un frammento di quotidianità, mentre per qualcuno potrebbero rappresentare l’ignoto.
Il deserto, per esempio, è un luogo che da sempre risveglia in me un misterioso senso di appartenenza. Sono cresciuto in mezzo a valli e montagne, perciò sono più abituato all’altezza, ai boschi, ai declivi. Eppure da qualche parte dentro di me riposa una strana nostalgia per paesaggi che non ho mai visto, per distese di sabbia silenziose e palmizi che tremano all’orizzonte. Di recente mi sono imbattuto in un poema composto nel 1903 da Mokhammed äg Mekhiia, un autore tuareg nato nel 1870. È una lunga fantasticheria, nella quale il poeta passa in rassegna i luoghi che lo separano dalla sua amata. Il testo diventa una rassegna di nomi, simile a quelli che gli studiosi di letteratura araba chiamano “poemi geografici”; l’etnografo Dominique Casajus propone invece, per la rêverie di Mokhammed äg Mekhiia, la definitione di poème de Noms de Pays, con un chiaro riferimento a Proust. Ecco qualche verso in lingua originale.

[…]
Nei Tamada, netrem Êlisen,
Nas Ti-n-täğart ed Ihaouaghâten,
D Ädîkel et Mechredden
Et Tékadeout, netrem Ihaien
Et Tehalaouait, asegh Iouallen
Et Ti-n-täğart, ekkegh I-n-semmen;
Neğ dât-ämoud, eklegh Âseqqen,
Nei Ti-n-älous, ekkegh Âseqqen,
Nas dägg äğêdé dagh Oulaouen.
Ğïgh Tenist dagh gân bareqqâten;
A n nermes akli n Selâmâten
Ğïgh Ti-n-täouâfa d Bereghrâghen.
[…]

Non ci sarebbe quasi bisogno di traduzione, tanto questa litania evoca di per sé stessa la fatica del cammino nel deserto, la lunghezza del viaggio e l’arsura della sete, con la tensione del desiderio che, di luogo in luogo, corre verso l’amata (e verso la freschezza dell’oasi). Anche il ritmo non è casuale: intono il mio canto – scrive Kourman, un altro poeta tuareg – e il passo del cammello mi dà la cadenza. La parola elweylwey, anche soltanto con il suono, richiama la marcia del méhari, il dromedario da monta che si usa nel deserto.
Ecco la traduzione in italiano dei versi di Mokhammed äg Mekhiia: Lasciamoci alle spalle Tamada, scendiamo lungo la valle di Êlisen, andiamo nella valle di Ti-n-täğart e in quella di Ihaouaghâten, raggiungiamo Ädîkel, Imechredden e Tékadeout, scendiamo le valli di Ihaien e di Tehalaouait, troviamo le acque di Iouallen e a quelle di Ti-n-täğart, andiamo a quelle di I-n-semmen; partiamo all’ultimo terzo della notte, fermiamoci a Âseqqen nelle ore calde del giorno, lasciamoci alle spalle il monte Ti-n-älous, andiamo nella valle di Âseqqen, arriviamo ai piedi delle dune di Oulaouen. Passo dal colle Tenist con le sue piste numerose; incontro lo schiavo di un uomo della tribù degli Iselâmâten tra il monte Ti-n-täouâfa e il monte Ibereghrâghen.
Alla fine uno si sente esausto come se davvero avesse percorso le dune del Sahara; in effetti, forse, anche questo è un modo di esplorare il deserto. Non so spiegarmi le ragioni dell’affinità che sento con questi nomadi e queste terre così lontane dalla mia esperienza. Ma quando penso all’origine, penso al sud. Nella mia mente, da sud viene un chiarore primigenio di cose ancora abbozzate, di speranze, di storie appena sorte.
Credo che la letteratura viva anche grazie a queste divagazioni, nel tempo e nello spazio. I nomi nell’Orario Ferroviario s’incrociano con il méhari dei tuareg: è un fermento, una crescita misteriosa che conduce a nuove storie.
Un’altra città che non ho visto è Buenos Aires. Il nome suscita vie, piazze, musiche e ombre che forse non conoscerò mai dal vivo. Tuttavia mi basta leggere qualche verso di Borges per sentirmi come se anch’io fossi stato laggiù, tra portici e cisterne, e avessi contemplato le costellazioni dell’emisfero sud da un cortile nascosto.

Desde uno de tus patios haber mirado
las antiguas estrellas,
desde el banco de
la sombra haber mirado
esas luces dispersas
que mi ignorancia no ha aprendido a nombrar
ni a ordenar en constelaciones,
haber sentido el círculo del agua
en el secreto aljibe,
el olor del jazmín y la madreselva,
el silencio del pájaro dormido,
el arco del zaguán, la humedad
– esas cosas, acaso, son el poema.

La lirica s’intitola El sur ed è tratta da Fervor de Buenos Aires, una raccolta pubblicata da Borges nel 1923. Ecco la traduzione: Da uno dei tuoi cortili aver guardato / le antiche stelle, / dal sedile in / ombra aver guardato / quelle luci disperse / che la mia ignoranza non ha imparato a nominare / né a ordinare in costellazioni, / aver sentito il cerchio dell’acqua / nella segreta cisterna, / l’odore del gelsomino e della madreselva, / il silenzio dell’uccello addormentato, / l’arco dell’androne, l’umidità / – tali cose, forse, sono la poesia.
Se Proust e Mokhammed äg Mekhiia traggono l’incanto poetico dai toponimi, Borges invece qui lavora proprio sull’assenza di nomi, con quelle antiche stelle, quelle luci disperse / che la mia ignoranza non ha imparato a nominare. Ma a volte non c’è bisogno di sapere neppure i nomi. A volte basta una parola sola, di sole tre lettere, per portarci in capo al mondo. Sud.

PS: La traduzione di À côté de chez Swann. III. Nom de pays: le nom, pubblicato da Proust nel 1913, è quella scritta per Einaudi da Natalia Ginzburg del 1946 (poi rivista dall’autrice stessa nel 1990). I versi di Mokhammed äg Mekhiia si trovano in Chants touaregs recueillis et traduits par Charles de Foucauld (Albin Michel 1997; in origine pubblicati da Charles de Foucauld in due tomi, con il titolo Poésies touarègues, nel 1925 e nel 1930). Il poema è citato anche da Dominique Casajus in Gens de parole. Langage, poésie et politique en pays touareg (La Découverte, Paris 2000). Dal volume di Casajus provengono pure i versi di Kourman (nato nel 1912 e morto nel 1989). La traduzione in italiano è mia, a partire dalle versioni francesi di Foucauld e Casajus. La traduzione di Borges è di Domenico Porzio, tratta da Tutte le opere (Mondadori 1984).

PPS: La prima immagine è un’edizione della Recherche che apparteneva allo stesso Proust; la seconda (presa dal sito Le fou du Proust) raffigura l’Orario ferroviario edito da Chaix nel 1906: era forse quello a cui si riferiva Proust quando, nel 1907, scrisse su “Le Figaro” che la saggezza sarebbe sostituire tutte le relazioni moderne e molti viaggi con la lettura dell’Almanacco del Gotha e dell’Orario ferroviario. La terza foto (presa dal sito Proust-ink) rappresenta la stazione di Illiers, chiamata Combray nella Recherche e ora ufficialmente Illiers-Combray. Le immagini del deserto sono tratte dal numero 84 della rivista “Meridiani” (dicembre 1999) e dal volume I Tuareg dell’Aïr di Ketty Adornato (testo) e Rino Cardone (foto), edito da Città del Sole (2005) per l’organizzazione umanitaria Bambini nel Deserto.

PPPS: Questo articolo riprende parzialmente Le antiche stelle, un breve saggio che ho scritto per l’ottavo numero della rivista letteraria Achab (in uscita la settimana prossima). Ringrazio per lo spunto e per la collaborazione Nando Vitali, Maria Rosaria Vado e Vincenzo Gambardella.

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