Lady Sweet

A volte mi capita di trovarmi da qualche parte in macchina, di notte. Di solito ho appena parlato con qualcuno, magari ho visto degli amici, ho cenato, ho letto brani delle mie storie, ho discusso di letteratura, della vita, o semplicemente di quelle cose stupide che vengono in mente la sera tardi. Al momento in cui chiudo la portiera e mi avvio per tornare a casa, c’è un silenzio nel quale riecheggiano pensieri buoni o pensieri molesti. Se sono buoni, lascio che il silenzio li faccia crescere. Se sono molesti, cerco di combatterli con l’aiuto di Dexter Gordon.
IMG_0066Il suo sax tenore, con un suono che sembra risalire dal profondo della terra, è l’ideale per accompagnare i viaggi a notte fonda. C’è una vibrazione antica come i vulcani, e nello stesso tempo c’è una limpidezza nitida come un cielo primaverile, dove spiccano i colori, la forma delle note. Tutto questo insieme a una sapienza ritmica così naturale, così ovvia che sembra lo sguardo di un amico in mezzo alla folla, una strizzata d’occhio, il suono di un passo conosciuto che si avvicina alla porta. Di solito ascolto l’album Go, oppure Our man in Paris. Lo strazio dolce delle ballate è compensato dai brani veloci, nei quali Gordon si diverte a scolpire ogni nota, a sputarla fuori rotonda e perfetta, concedendosi ogni tanto qualche citazione ironica.
IMG_9994Protagonista della scena musicale americana negli anni Quaranta, il saxofonista conobbe in seguito anni dolorosi, nei quali l’alcol e le droghe presero il sopravvento. Alto un metro e novantasei, dinoccolato, con gli occhi gentili e un sorriso affascinante, Long Tall Dexter si perse nel buio degli ospedali, delle prigioni, in una rovina che pareva irreversibile. Invece trovò il coraggio di tirarsene fuori: si trasferì in Europa, a Parigi e a Copenaghen, e seppe inventarsi una seconda carriera. Addirittura, nel 1986, fu scelto dal regista francese Bertrand Tavernier per interpretare ’Round midnight, che è forse il miglior film sul jazz che sia mai stato girato fino a oggi.

Non è il classico biopic, ma il tentativo di rappresentare un’atmosfera, una visione del mondo. Dexter Gordon interpreta il personaggio di Dale Turner, un grande musicista alcolizzato; è una figura in parte ispirata al saxofonista Lester Young, in parte al pianista Bud Powell, in parte allo stesso Gordon. Il film è ambientato alla fine degli anni Cinquanta e narra la storia dell’amicizia fra Turner e Francis Borier, un grafico appassionato di jazz. Non avendo i soldi per il biglietto, Francis si rannicchia sul marciapiede, accanto a una finestra del Blue Note di Parigi. Sera dopo sera, ascolta con rapimento la musica di Turner, che si esibisce dal vivo. Con il tempo fra i due comincia una lunga, intensa amicizia.
UnknownCome tutte le grandi amicizie, anche questa è inaspettata e diffonde intorno a sé un fermento di vita, di scoperte. Francis racconta a Turner come la sua musica lo abbia cambiato e lo abbia portato a interessarsi di arte, di letteratura, lo abbia reso più sensibile. Turner continua a suonare, ma non riesce a stare lontano dall’alcol. Di continuo Francis lo va a cercare negli ospedali e nei commissariati, lo trascina fino al suo appartamento, lo mette a letto.
FullSizeRender-5Come spiega allo stesso Francis un conoscente di Turner: Quando devi esplorare ogni sera, ti suscitano dolore anche le cose belle che trovi. Il film rappresenta bene questo tormento. Gordon infatti non è un attore, così come tutti i musicisti che si vedono nel film. I concerti sono ripresi dal vivo: c’è una tensione reale che si percepisce nei gesti di Herbie Hancock al piano, John McLaughlin alla chitarra, Billy Higgins o Tony Williams alla batteria. Tavernier voleva proprio mostrare la violenza della creazione, il sudore dello sforzo, gli sguardi di due musicisti che si domandano a vicenda quali note suoneranno. Ci sono momenti che solo la diretta poteva offrire: quando Billy Higgins prende le spazzole, poi vede Dexter che sta suonando una variazione e allora cambia e prende le bacchette… non potevo fare tutto questo in playback. È come se in un western gli attori non fossero capaci di cavalcare.

Turner è consapevole del suo talento, ma anche del logorio che questo comporta. Non puoi uscire e prendere uno stile così, cogliendolo da un albero. L’albero è dentro di te, e cresce con naturalezza. Il saxofonista sconta con la sofferenza la crescita dell’albero interiore, staccandosi sempre di più dalla realtà e riducendosi in uno stato pietoso. Finché un mattino, dopo aver visto Francis piangere per lui, Turner promette di cambiare. Le presenze oscure nell’anima del musicista non se ne vanno del tutto, ma in qualche modo allentano la presa. Turner riesce a suonare, a incidere, a comporre musica. La storia è ispirata alla realtà per tanti piccoli dettagli. Il personaggio di Francis Borier, per esempio, ricorda Francis Paudras, lo scrittore amico di Bud Powell (che aveva suonato con Dexter Gordon proprio a Parigi).
Unknown-2Grazie anche alla splendida colonna sonora di Herbie Hancock, Tavernier riesce a mostrare con delicatezza questi paesaggi interiori. Restano nella memoria la voce roca e cantilenante di Gordon, la sua ironia, la dedizione di Francis, il rapporto di entrambi con le loro figlie, i colori azzurri e grigi dei locali notturni parigini, cui fanno da contrasto la luce forte delle poche scene girate all’aperto. Ogni tanto alle immagini del film si alternano quelle in bianco e nero catturate da Francis con una cinepresa; in questo modo si fondono lo sguardo onnisciente del regista con quello intimo e affettivo dell’amico.
imagesIn una delle poche scene in esterno giorno, i due protagonisti sono seduti su una spiaggia. Turner riflette a mezza voce: È strano che il mondo si trovi all’interno del nulla. Insomma, tu hai il cuore, l’anima, dentro di te; i bambini stanno dentro le loro mamme; i pesci stanno dentro il mare. E il mondo? Il mondo si trova dentro un niente. Turner tace e guarda il mare, ma queste domande tornano con forza nella voce possente del suo sax, che lui chiama Lady Sweet.

’Round Midnight ha molti aspetti malinconici, ma la forza, la vitalità della musica afferma una speranza. È memorabile, per esempio, la scena in cui Turner ritrova la cantante Darcey Leigh (interpretata da una sfavillante Lonette McKee). Fra i due c’è una tenera e tenace amicizia, che ricorda quella fra Lester Young e Billie Holiday. L’intensità del loro legame si esprime nella complicità con cui interpretano il brano di Gershwin How long has this been going on? Ci sono rapporti umani che le parole non arrivano a definire; ma per fortuna – come dice lo stesso Dale Turner – non tutto ha bisogno di parole.

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PS: Dexter Gordon nacque a Los Angeles il 27 febbraio 1923 e morì a Philadelphia il 25 aprile 1990. Ho citato all’inizio gli album Go (Blue Note 1962) e Our man in Paris (Blue Note 1963). Esistono pure due dischi con la colonna sonora del film, entrambi molto buoni: ’Round midnight (Columbia 1986) e The other side of ’Round midnight (Blue Note 1986). Le parole di Bertrand Tavernier provengono da un’intervista con Léo Bonneville, pubblicata sul numero 127 della rivista Séquences nel 1986. La canzone ’Round midnight, venne composta dal pianista Thelonius Monk e dal trombettista Cootie Williams all’inizio degli anni Quaranta, con parole di Bernie Hanighen (è uno dei brani più noti e più suonati nel mondo del jazz).
La fotografia che appare sopra questo Post Scriptum è di Giuseppe Pino, che la scattò a Milano nel 1971; è tratta dal volume Sax! (Earbooks 2005). Qui sotto, invece, vedete un ritratto di Gordon nel 1948 al Royal Roost di New York; è opera di Herman Leonard ed è una delle foto più celebri del jazz. Le altre immagini di questo articolo, quando non siano le copertine dei dischi o la locandina, sono dei fotogrammi tratti dal film.
Una versione di questo articolo si trova sulla rivista Cinemany.

 

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Malinconia

Ormai il bollettino meteorologico non dimentica niente: mutamenti di pressione, sole, neve, ogni soffio di vento e ogni percorso di nuvole sono colti prima che nascano, annotati, divulgati, proiettati sotto forma di grafici e frecce colorate. Quello che ancora non si spiega né con le isobare né con l’anticiclone delle Azzorre sono gli improvvisi passaggi della malinconia. Senza cause scientifiche, senza ragioni apparenti eccola che ci raggiunge, nel cuore di un mattino sereno oppure verso sera, all’imbrunire.
IMG_9108In questi casi c’è poco da fare, bisogna attendere che passi. La radio non aiuta e alla tivù non ci sono fanciulle sorridenti che annunciano il ritorno del sereno. Ognuno ha i suoi mezzi non dico per combatterla – è assai difficile – ma almeno per tenerla a bada. Io per esempio, specialmente se arriva di pomeriggio, faccio qualche nota lunga con il saxofono. Non è una vera e propria melodia: a volte poi provo qualche brano, a volte mi limito alle note lunghe. Di solito è la prima parte del mio allenamento, e serve a cercare un timbro, a misurare l’efficienza dell’ancia e la posizione del bocchino. Mi metto in un angolo del mio studio, in modo che le pareti riflettano il suono e possa giudicarne la sostanza: se pieno, limpido, affannato, ricco di armonici o esitante, soffiato, liquido, sghembo. Piano piano, una nota dopo l’altra, cerco di trovare una voce che mi assomigli.
IMG_9109Dal profondo dell’addome, passando per i polmoni e per la gola, il respiro si propaga attraverso il sax, e raggiunge una tonalità, esprime un modo di essere. Se non so stare calmo, le note lunghe sono esitanti, si spengono subito. Allora mi concentro sui dettagli, sui millimetri di ancia e sulla mia posizione, sul fiato, sulla tastiera. Senza che me ne renda conto, per qualche minuto, la malinconia lascia spazio a un re bemolle basso, a un do diesis o a una nota sovracuta, raggiunta arrampicandomi in cima alla scala e poi buttandomi nel vuoto.
Non sono un bravo musicista; non lo sarò mai. Ma avventurarmi in queste terre ignote mi aiuta a tenere a bada i rannuvolamenti dell’anima, e m’insegna che per trovare una voce occorre fatica e ascolto. Soprattutto, bisogna accettare la propria fragilità. Così è pure quando scrivo, quando cioè mi esprimo nel mio campo: in quel caso, trovare una voce è un impegno necessario, al quale sto lavorando da anni, romanzo dopo romanzo. In fondo, se continuo a scrivere, è perché credo che questa sia la mia via d’accesso al mistero del mondo e di me stesso. Nella scrittura, la ricerca di una voce diventa condivisione della voce stessa, perché altri percorrano i paesaggi che ho esplorato nella mia solitudine.
IMG_9104Mi aiuta l’ascolto delle voci altrui. Nella lettura, naturalmente, ma pure nella musica. A volte il suono di un sax mi racconta cose di me stesso per le quali ancora non ho trovato le parole. In una delle sue prime poesie, scritta a ventun anni, Cesare Pavese evoca un’esperienza simile, vissuta durante una passeggiata. Fragorosa sul viale / ecco a un tratto l’orchestra si spegne. / Sull’orchestra in sordina, / canta spietato un saxofono rauco. // Fin la folla si arresta. / Le case indifferenti / gravano il cielo intorno. // Vibra la voce barbara. Il poeta sente che la musica frantuma i suoi pensieri, cancella la stanchezza e lascia l’anima come indifesa. È la mia voce stessa / che echeggia questa notte. / Nell’anima smarrita / canta alto, altissimo la solitudine / una canzone ubriaca della vita. / La stanchezza fuggita, non vivo per un attimo che all’urlo / modulato, esultante. / Tutta l’anima mia / rabbrividisce e trema e s’abbandona / al saxofono rauco. / È una donna in balia / di un amante, una foglia / dentro il vento, un miracolo, / una musica anch’essa.
Il saxofonista Billy Harper narra di aver sognato che stava camminando nella Settima Avenue di Manhattan; con sé aveva un vecchio mangiacassette vuoto. A un certo punto, dal cielo è scesa una gigantesca mano che gli offriva una cassetta. Allora Harper l’ha presa, l’ha inserita nel mangiacassette e ha udito sprigionarsi una melodia bellissima. In quel momento si è svegliato e subito è corso a suonare quella stessa melodia.

Il brano s’intitola If one could only see. Lo trovate nel disco The Roots of the Blues, in cui il pianista Randy Weston (nato nel 1926) suona in duo con lo stesso Billy Harper (nato nel 1943). Il disco è uscito nel 2013: nonostante Weston avesse ottantasette anni e Harper settanta, l’energia che i due sprigionano ha un impeto giovanile e una vitalità senza tempo.
IMG_9103Weston ha uno stile percussivo, intriso di blues in ogni tocco, mentre Harper, che viene dalla scuola texana (è nato a Houston), ha una sonorità rugosa e potente. In lui c’è una dimensione spirituale che ricorda Coltrane e nella quale riecheggiano anche le sue radici gospel. In più, quando Harper trova una nota lunga, ci si aggrappa e la spreme fino all’ultima goccia di sentimento, di significato, di speranza. Certe volte, alla fine della nota lunga, uno si volta a guardare e – come per incanto – non c’è più traccia della malinconia. Oppure, se la malinconia persiste, c’è la consapevolezza di non essere soli. Passando per la musica tutte le nostre malinconie si chiamano e si rispondono, come in un blues, e anche se il dolore rimane, almeno è un dolore condiviso.

PS: La lirica di Pavese fa parte della piccola suite Blues della grande città, scritta nel 1929. La si trova nel volume Le Poesie (Einaudi 1998). Entrambi i brani musicali vengono dal disco Roots of the Blues (Universal 2013), che presenta perlopiù brani composti da Weston, come Blues to Senegal, insieme a If one could only see (composto da Harper) e a qualche standard come Body and soul e Take the A train.

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PPS: L’immagine qui sopra è la copertina dell’album. Le prime due fotografie sono del mio sax; quella posta fra i due video è di Giuseppe Pino, tratta dal volume Sax! (Earbooks 2005). L’immagine qui sotto è un ritratto di Billy Harper, contenuta nel libretto di The Roots of the Blues e scattata da Jules Allen nel 2013.

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Merlità

C’è una poesia di Toti Scialoja che dice: L’uccello nero / salta leggero, / si chiama merlo / senza saperlo. L’altro giorno, tanto per fare conversazione, l’ho recitata a una bambina, suscitando grandi risate. Le ho chiesto per quale motivo ridesse e lei mi ha spiegato che il merlo era buffo, perché non sapeva nemmeno chi era. Allora mi sono informato: E tu lo sai chi sei? La bambina mi ha rivelato il suo nome, poi mi ha detto: Anche tu sai chi sei, no? Certo, le ho risposto, io sono il merlo.
fullsizerenderCi sono giornate così, da merlo. Saltelliamo leggeri (o più spesso arranchiamo pesanti) senza sapere bene chi siamo veramente. A volte, risalire a sé stessi è un’impresa. Nella maggior parte dei casi, cerco di avvicinarmi alla mia identità per mezzo del lavoro, ma talvolta è il lavoro stesso a privarmi di consistenza. Per farla breve, il mio mestiere è scegliere parole da presentare a chi vuole ascoltarmi. È chiaro allora che si crea un divario fra le mie parole e il mio “io”. Che le mie storie siano i miei saltelli? Che siano proprio loro a nascondermi il mio essere merlo?
copia-di-fullsizerenderBene, mi rendo conto che questi ragionamenti possano sembrare sintomo incipiente di schizofrenia. Provo a spiegarmi con un esempio. Il critico musicale Alain Gerber, nel suo Balades en jazz (Gallimard 2007), racconta di un incontro con il grande sassofonista Stan Getz (1927-1991). Siamo nel famoso locale “Chat qui pêche” di Parigi, un sabato pomeriggio. È un’ora senza incanto: nel seminterrato il giorno arriva come un filo di luce grigiastra, e fra le pareti ristagna ancora il fumo della notte precedente. Il sax di Stan Getz pende inerte dal suo braccio, mentre lui è assente, quasi stordito. Gerber è imbarazzato: poco prima ha visto Getz comportarsi in modo ridicolo, protestando per delle sciocchezze, scoppiando a piangere come un bambino. Aveva gridato, era diventato tutto rosso. Gerber riflette con amarezza: Quando l’avevo incontrato nei dischi in cui era di poco più vecchio di me, una dozzina di anni prima, l’avevo preso per un re di questo mondo. Confondiamo sempre i musicisti con ciò che non sono: in particolare, li confondiamo facilmente con la loro musica. Davanti ai miei occhi, il gigante si era trasformato in un bambino viziato. Odioso, irascibile e precario. Gerber non vuole rinunciare alle illusioni di gioventù, alla semenza ancora verde di un amore puro. Con uno slancio disperato, si mette allora a canticchiare Hershey bar, una di quelle melodie che avevano incoronato Stan Getz nei miei sogni, in passato. Il musicista si gira, lo guarda, fa un sorriso un po’ di gomma e si porta il sax alle labbra.

Quando suona, accade una sorta di prodigio, come se Stan Getz conoscesse da sempre Alain Gerber: le sue frasi leggevano in me come in un libro aperto. Il critico riflette: mai un concerto fu tanto privato come quello. Nello stesso tempo si rende conto di essere davanti a un enigma: qualcosa che possiedo senza comprenderlo. Ha l’impressione di aver colto un riflesso di paradiso: comme un reflet d’un paradis où l’on ne saurait pas son nom. Il paradiso allora significa scordarsi il proprio nome? In questo caso il merlo di Scialoja sarebbe sulla via giusta… ma non ne sono convinto. Getz era un uomo pieno di limiti, infantile, schiavo della droga; tuttavia, mediante il suo strumento, aveva il dono di creare una bellezza straordinaria. Qual è il vero Stan Getz, fra i due che si sono manifestati quel sabato pomeriggio in un seminterrato parigino? Non riesco a rispondere: per me lo sono entrambi. Forse non sono necessari i limiti, perché sorga la bellezza; ma di fatto mi pare che nel nostro mondo accada sempre così: la voce più pura nasce dall’imperfezione, e non c’è melodia sublime che non celi nel profondo una ferita.
Perciò, nel mio piccolo, cerco di stare lontano dalla pericolosa suddivisione fra le mie parole e il mio cosiddetto “io autentico”. So che anche quando invento storie dissemino qualcosa di me; e quando parlo delle mie faccende qui sul blog, non sempre riesco a trasmettere l’essenza del mio pensiero. Anzi, ogni tanto parto per dire una cosa e alla fine mi accorgo di averne detta un’altra. Chissà, magari capiterà anche stavolta…
image1Un tempo, nella scrittura, ero un perfezionista: come se tutto dipendesse dal mio scegliere le parole giuste. In parte lo sono ancora. Ma cerco di imparare ad accogliere gli imprevisti; e forse è anche per questa ragione che ho deciso di suonare il sax (ne ho parlato qui). Non ho nemmeno un centesimo della grazia di Stan Getz, naturalmente. Quando suono non mi trovo sul mio terreno – come accade invece quando uso le parole – e di continuo devo fare i conti con la differenza fra ciò che vorrei e ciò che sono. Ma non è così anche quando scrivo, in un certo senso? Per quanto possa pianificare e costruire, c’è un nucleo segreto al quale non accederò mai. In altre parole, anche quando il merlo scopre di essere merlo, non saprà mai fino in fondo in che cosa consiste la sua “merlità”. È una sofferenza? Direi di sì, è una continua incertezza; ma sapere tutto, forse, sarebbe ancora peggio. Ogni gesto creativo, ogni atto di comunicazione è in gran parte misterioso. Come cantava Gianmaria Testa: …e non sapremo mai / da che segrete stanze / scaturisca il canto / e da quali lontananze, paure, rabbia / tenerezza / o rimpianto / e da quale nostalgia / prenda voce e parta / questa lunga scia / che ancora adesso / e imprevedibilmente / ci porta via.

PS: La poesia di Scialoja viene da Amato topino caro (Bompiani 1971); si trova pure nella raccolta Versi del senso perso (Einaudi 2007). La canzone di Testa è presa dall’album Extra-muros, pubblicato nel 1996 (Tôt ou tard) e poi ancora nel 2005 (Harmonia mundi). L’incisione di Hershey bar è avvenuta a New York il 17 maggio 1950; insieme a Getz ci sono Al Haig al pianoforte, Tommy Potter al basso e Roy Haynes alla batteria; il brano si trova in The complete Roost sessions (Definitive Classics 2008). Non so a quale epoca risalga l’aneddoto di Gerber (nel libro non lo specifica), ma credo che sia negli anni Sessanta. I merli sono quelli del gioco Il mio primo frutteto (Erster Obstgarten, Haba 2009). La fotografia di Stan Getz è di Giuseppe Pino, tratta dal volume Sax! (Earbooks 2005).

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La luna sottoterra

Pensando al carnevale mi ricordo, come se fosse un sogno, di una notte stravolta, rumorosa, e della luna che suonava il sax nel buio di un sottopassaggio. Certo, non era facile trovarla. Le ore correvano piene di grida, scoppi, risate, voli di coriandoli. La città era chiusa in una gabbia. La folla premeva da tutte le parti: maschere, pazzoidi, agenti della sicurezza. Ma dentro quel caos, ad ascoltare bene, c’era il filo di una musica. Bastava seguirlo. Allontanarsi dalla ressa. Superati i lampioni e un cortile deserto, ecco le scale del sottopassaggio. Laggiù, nella penombra, c’era la luna che suonava il sax. E sapete una cosa? Quella luna ero io.
IMG_0034Non è una metafora o roba del genere. Ero proprio io. Nel terzo episodio della web-serie Notte noir c’è una scena in cui il protagonista, durante il carnevale, incontra un ragazzo mascherato da mezzaluna, che si è rintanato a suonare sottoterra. L’episodio, come gli altri sette, è stato girato da Fabio Pellegrinelli; insieme a Marco Pagani, ho scritto la sceneggiatura. Ma poiché la serie è stata prodotta con un forte spirito di gruppo, ognuno dava una mano come poteva. Perciò, pur non avendo nulla dell’attore, mi sono ritrovato un ruolo da comparsa: indossata una luna di cartapesta, ho suonato il sax per qualche secondo nel gelo di una notte di febbraio.
Era il 2014. Scrivere in pochi mesi una serie per il web, ambientata nella Svizzera italiana, è stata un’esperienza preziosa. Con Marco Pagani ci siamo messi giorno dopo giorno al computer, accanto a un camino acceso, e abbiamo provato a far parlare i personaggi. In seguito, ho imparato molte cose anche dalle visite sul set: regista, tecnici e operatori erano tutti professionisti, e lavoravano a questa web-serie perché credevano nel progetto. Ho ammirato la fantasia con cui hanno inventato soluzioni creative impensabili: potete immaginare i mille problemi di una troupe che, nei giorni più freddi dell’anno, ha la bizzarra idea di girare un film ambientato durante il carnevale.

Ecco la presentazione “ufficiale” della web-serie:
Bruno Cesconi, un uomo di mezza età, taciturno, un po’ ruvido, ha perso sua moglie Erika in un incidente stradale. Lavora in una cava di granito, nel nord del Canton Ticino, e dopo la morte di Erika, non ce la fa più a stare a casa da solo. Allora diventa volontario di Nez Rouge, l’associazione che fornisce un servizio a chi, per un motivo o per l’altro, la sera non se la sente di guidare la propria automobile. Nel corso di un lungo inverno di pioggia e di neve, Cesconi scarrozza su e giù per la Svizzera italiana un popolo notturno e bizzarro, composto da ubriaconi, ragazzine sognanti, drogati, lavoratori assonnati, individui patetici o inquietanti. Una sera, scopre per caso qualcosa di sorprendente sulla morte di Erika. Da quel momento comincia un’indagine personale che lo porterà a interrogarsi su di sé e sulla propria capacità di amare.

Oggi, di quei giorni, mi ricordo il gran freddo e l’urgenza creativa. Fabio Pellegrinelli, Marco Pagani, Mauro Boscarato, Adriano Schrade, Edoardo Gemma, Ilaria Antonietti, Davide Briccola, il protagonista Franco Ravera, Emiliano Brioschi, Sara Bertelà e tutti gli altri attori, i ragazzi della Rec, ognuno ha lavorato per dare forma e sostanza a un frammento di realtà notturna. Una piccola storia, a tratti ironica a tratti dolorosa, un racconto noir ma anche una fantasticheria stralunata. La serie ha poi ottenuto premi e riconoscimenti, è stata proiettata al cinema e alla tivù, ma io più che riguardarla preferisco ricordarmela come l’ho vissuta.
Da allora, per me, attraversare un sottopassaggio non è più un gesto scontato. Niente è impossibile. Arriva sempre il momento giusto per tutto: basta aspettare. Anche la luna, quando è bella piena, matura, può cascarti fra le braccia…

PS: La fotografia è stata scattata durante le riprese. Il primo video è la puntata numero uno della serie (le altre sono disponibili qui); l’altro è il backstage. La scena della luna si trova nella puntata numero tre.
La citazione finale di questo articolo proviene da La voce della luna, l’ultimo film di Federico Fellini (girato nel 1990).
Di seguito, per concludere, un’altra fotografia scattata durante le riprese della “scena lunare”: l’occhio attento del regista sorveglia i movimenti delle dita sulla tastiera del sax…
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“Every style is the result of a handicap”

C’è chi me lo chiede, ogni tanto. Perché uno come te, senza talento musicale, si è messo in mente di suonare il sax? Io rispondo che si tratta di un esperimento: uso me stesso come cavia per dimostrare che la musica è qualcosa che tutti abbiamo dentro e che, presto o tardi, troverà una via d’uscita.
image1Da qualche anno prendo lezioni di sax. E sto imparando. Non sarò mai un virtuoso, ma forse un ascoltatore più attento. Inoltre, il fatto di suonare apre nella mia vita spazi di gratuità: un’attività che faccio per il gusto di farla, da solo, per il piacere di sviluppare un suono personale. Senza dover dimostrare niente a nessuno. Be’, naturalmente ho un maestro paziente, che ogni tanto viene a rincorrermi nelle giungle di accordi strani in cui mi smarrisco.
La musica mi aiuta fra l’altro a comporre i dissidi e ad apprezzare la semplicità. Questi per me sono due grandi insegnamenti.
FullSizeRenderQuando suoni con qualcuno devi ascoltarlo, non si scappa. Non puoi essere concentrato sempre e solo sulla tua voce, ma devi prestare attenzione, reagire agli stimoli. Ogni tanto ti succede di sbagliare, capita anche ai più bravi, e devi proseguire lo stesso. Come diceva il pianista Thelonius Monk, bisogna fare gli errori giusti.
Con il tempo e il lavoro, ti accorgi poi che non si tratta di aggiungere, ma di togliere, di rendere più essenziale la propria voce: è la difficile arte della facilità. Per averne un’idea si può guardare un video del dicembre 1957, in cui un gruppo di musicisti accompagna Billie Holiday. Dopo trenta secondi, Billie comincia a cantare “Fine and Mellow”. Poi si alza Ben Webster, per il suo assolo. Subito dopo, intorno al secondo minuto, ecco apparire Lester Young, un po’ all’improvviso, come se il suo intervento non fosse previsto. Fra Lester e Billie c’è un rapporto di amicizia profondo, sebbene negli ultimi anni si siano visti poco; entrambi del resto sono affaticati da alcol, droga, malattie. Moriranno due anni dopo, nel 1959, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altra, dopo un declino rovinoso. Ma nei momenti catturati dalla cinepresa, Lester Young riesce a compiere un piccolo miracolo: soffia nel sax e fa un assolo semplicissimo (a partire dal minuto 1.23). Poche note indietro sul tempo, una linea musicale scarna, commovente, che risponde al sentimento di Billie ed esprime tenerezza, malinconia, partecipazione. Infatti lei alza gli occhi, lo guarda e senza parlare dice tutto: è così, annuisce, è proprio così.

È una scintilla che dura pochi secondi, poi riprende la canzone. Ma in quegli istanti si capisce come la musica possa placare una ferita – specialmente il blues – come uno sguardo possa dire più di lunghi discorsi, più di mille telefonate, lettere, messaggi. IMG_0600Basta una serie di note, limpide come gocce d’acqua, basta un sorriso.
Quanti musicisti hanno imparato ad accettare le loro imperfezioni, anzi, a usarle per essere più autentici, più compiuti. Non parlo soltanto degli schiavi che inventarono il blues o dei jazzisti degli anni Cinquanta minati dalle dipendenze. Penso anche a un virtuoso come Keith Jarrett, che nel 1996 fu travolto da una sindrome da affaticamento cronico. Nel 1999, durante la convalescenza, incise da solo il disco The melody at night with you: niente di straordinario, poche canzoni d’amore suonate in maniera sommessa. Ma proprio per questo, forse, è uno dei dischi di Jarrett che più mi hanno colpito al primo ascolto.

Il mio mestiere non è suonare, ma scrivere.
La musica è un’attività meno intensa, meno sofferta, però a volte mi porta in territori che non avrei mai pensato di attraversare. E allora sbaglio il ritmo, non sento gli accordi, perdo il treno. Poco male. Basta avere pazienza, perché prima o poi le cose si sbloccano. Anche per chi, come me, parte con un forte handicap. Ma diceva proprio Lester Young: Every style is the result of a handicap. Ogni stile è il risultato di una mancanza.

PS: L’incisione di I love you Porgy risale a un concerto del 1986 (quella del disco The melody at night with you non è disponibile su internet).

 

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