Un circo, in lontananza

È quasi buio. Sto camminando attraverso un grande prato, ancora libero dalle costruzioni. A un certo punto, in lontananza, avvisto le luci di un circo. Alla sinistra del tendone, avvolto dai colori, appaiono due grandi gru, impiegate in un cantiere edile. Dietro, si staglia il profilo nitido delle montagne. Più contemplo questa scena, più fatico a riprendere il cammino, nonostante il freddo. Ho l’impressione di avere già vissuto tutto questo: io immobile, in un prato che diventa buio; oltre il buio, la promessa dell’ignoto che si fa scoperta, avventura, meraviglia. Mentre ancora non ci sono arrivato, tuttavia, già sento la tristezza per la durata effimera delle luci e dello stupore. Il circo ripartirà, le due gru costruiranno un palazzo che resterà invece al suo posto, solido, massiccio. E io non sarò mai più sullo stesso prato, con lo stesso freddo, con gli stessi colori che mi aspettano all’orizzonte.
Alla fine mi sono avvicinato. Dentro il tendone era in corso uno spettacolo, perciò a guidarmi è stato il suono dell’orchestra. Ho girato intorno al circo, ho osservato gli autocarri, i recinti per gli animali, gli artisti in attesa di entrare in scena. Una cavallerizza fumava una sigaretta, appoggiandosi a una staccionata. Un clown si stropicciava le mani per tenerle calde. Fin da quando sono bambino ogni anno assisto allo spettacolo del circo Knie, e da sempre mi stupisce l’intreccio fra l’eccezionale e il quotidiano. Nella città grigia di novembre appare questo scintillìo, questa girandola di pagliacci, acrobati, cavalli. Un mondo che sorge di notte, come un incantesimo, e che dopo tre giorni riparte senza lasciare tracce. Dentro l’arena si accendono le fanfare, le risate, gli applausi; intanto fuori piove e un acrobata, avvolto in un manto sfavillante di lustrini, cammina nel fango verso il suo carrozzone.
La famiglia Knie è arrivata all’ottava generazione. Da cento anni porta in giro per tutta la Svizzera la sua carovana di animali e artisti, destreggiandosi per presentare i numeri in tre lingue e per adattarsi alle stagioni. Per me il circo ha un sapore tardo autunnale, ma in altre città dev’essere simile a una fiera estiva. In particolare, ho una predilezione per la figura del pagliaccio colto nella luce di novembre. Mi affascina quel senso di lontananza che sempre si sprigiona dai clown: sono lontani da noi, dalle nostre esperienze, sono esagerati, sono caratteri estremi… eppure, mentre li guardiamo, ci sorpendiamo all’improvviso come in uno specchio. Questa è la forza del circo: è una narrazione primordiale – forse il primo mezzo con cui l’essere umano ha provato a raccontare storie, insieme ai graffiti e alle fiabe – e allo stesso tempo è eternamente provvisorio. Arriva, crea una piccola fantasmagorica città e poi riparte.
Anche gli artisti del circo affondano le radici in una lontananza che, durante lo spettacolo, si tramuta in presente. Quest’anno ho apprezzato la figura di Yann Rossi nei panni del clown bianco. Già suo padre era un pagliaccio rinomato, così come i suoi antenati: nel 1732 i Rossi già si esibivano in Francia, alla corte di Luigi XIV. Anche Davis Vassallo e Francesco Fratellini sono stati molto bravi nel riproporre in maniera moderna e sofisticata alcuni numeri storici, fra cui quello dell’innaffiatore che finisce innaffiato. Fra l’altro, una variante elementare di questa gag ispirò un cortometraggio dei fratelli Lumière, L’arroseur arrosé, che venne proiettato nella prima rappresentazione pubblica di cinematografo, avvenuta il 28 dicembre 1895 al Salon indien du Grand Café, nel boulevard des Capucins a Parigi.
Anche Francesco Fratellini proviene da una dinastia celebre, cominciata con Giuliano Fratellini nel 1745: Francesco è un esponente dell’ottava generazione. Gli appassionati di circo conoscono soprattutto tre membri della quinta generazione: Paul (1877-1940), François (1879-1951) e Albert (1885-1961), fra i maggiori pagliacci in assoluto di tutti i tempi. Fra il 1909 e il 1940 il Trio Fratellini fece ridere tutta l’Europa, resistendo anche durante i tempi più difficili, come la Prima guerra mondiale. François era il clown bianco, Albert l’augusto, mentre Paul mediava fra i due estremi. I tre ispirarono scrittori (Jean Cocteau, Raymond Radiguet), pittori (Pablo Picasso e molti altri) o fotografi (Robert Doisneau). Annie Fratellini, nipote di Albert, fu la prima donna a vestire i panni dell’augusto; nel 1974 fondò con suo marito Pierre Étaix l’École Nationale du Cirque, poi Académie Fratellini. La coppia è presente nel film I clowns di Federico Fellini (dove appare anche Gustavo, un altro membro della famiglia). Nel 1955, a settant’anni, Albert raccontò in un libro la sua vita e quella dei suoi fratelli, augurandosi che il nome Fratellini restasse «il simbolo della gioia che s’infrange, come una tempesta, sui gradini del circo». Da quanto ho potuto vedere, la tempesta infuria ancora… e dalle onde, dalla schiuma nasce la poesia. Come ebbe a dire lo scrittore Henry Miller, «il clown ci insegna a ridere di noi stessi, ed è un ridere che nasce dalle lacrime». È un gesto potente, catartico. Perciò, sempre secondo Miller, «il clown è un poeta in azione. È lui stesso la storia che interpreta.»PS: Per chi abita non lontano dalla Svizzera italiana, suggerisco di visitare la mostra Remo Rossi e il circo. L’arte della meraviglia. Omaggio a Rolf Knie, aperta fino al 28 marzo 2020 nella sede della Fondazione Rossi a Locarno. Alcune opere sono visibili anche nella Casa Ossola a Orselina e nel Ristorante Teatro Dimitri a Verscio.
L’esposizione presenta numerosi schizzi e disegni dell’artista, dai quali scaturirono le sue opere scultoree (di cui alcune fra le più celebri sono state raccolte per l’occasione). Tra i suoi soggetti sono infatti assai numerosi i clown, gli acrobati e gli animali da circo (per esempio la scultura della foca nella piazza Governo di Bellinzona). Inoltre si possono ammirare anche alcuni dipinti e una scultura di Rolf Knie, nato nel 1949, esponente della sesta generazione, il quale fu clown, cavallerizzo e acrobata prima di diventare pittore e scultore.

PPS: La frase di Albert Fratellini proviene dal suo libro Nous, les Fratellini, edito per la prima volta nel 1958 e ripubblicato nel 2009 dalle Éditions Cartouches di Parigi. Le parole di Henry Miller sono tratte dalla postfazione al suo racconto The smile at the foot of the ladder (1958), tradotto in italiano da Valerio Riva (Henry Miller, Il sorriso ai piedi della scala, Feltrinelli 1963; 1980).

PPPS: Per conoscere altri dettagli sul circo Knie, e per mille altri approfondimenti legati al mondo del circo, consiglio di visitare il sito Solo Circo X Sempre, aggiornato e gestito con cura da Andrea Eglin.

PPPPS: Le prime tre immagini dell’articolo ritraggono il circo Knie. Poi c’è un ritratto di Albert Fratellini e una foto dello storico Trio Fratellini. Infine, Remo Rossi fotografato accanto alla scultura Acrobati su impalcatura (1960 circa). Anche la scultura qui sotto, intitolata Gli acrobati, è di Remo Rossi.

 

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Ross Ice Shelf

“Viaggi immaginari” è una serie di reportage da luoghi che non ho mai visto, scelti a caso sulla mappa del mondo. A farmi da guida l’antico gioco Hanafuda, che scandisce le stagioni dell’anno. Ogni mese le carte mi accompagnano nella scrittura di un racconto di viaggio e di un haiku.

Luglio
Hanafuda: Lespedeza / Cinghiale
Luogo: Ross Ice Shelf, a circa 400 km dalla McMurdo Station, Antartide
Coordinate: 80°38’49.3″S 171°01’35.5″E
(Latitudine -80.647028; longitudine 171.026528)
Fra il 1785 e il 1796 il botanico ed esploratore francese André Michaux viaggiò in diverse regioni del Nordamerica. Nel 1803 pubblicò il volume Flora boreali-americana. Fra le altre cose, Michaux descrive una nuova specie di legume che chiama “lespedeza”. In una nota a piè di pagina spiega di avere dato al vegetale quel nome in onore di D. Lespedez, gubernator Floridæ, erga me peregrinatorem officiosissimus (“D. Lespedez, governatore della Florida, che ha dimostrato grande cortesia verso di me durante i miei viaggi”).  La pianta è ancora oggi conosciuta con quel nome… peccato però che il governatore si chiamasse in realtà Vicente Manuel de Céspedes y Velasco. Com’è potuto accadere quel passaggio da “Céspedez” a “Lespedez”, con quell’errore destinato a restare nella storia della botanica? Comunque sia, c’è qualcosa di festoso in quel nome: lespedeza. Non è solo un legume, ma una burla, una parola che non doveva nascere e che invece è nata. Mi ripeto questa parola – lespedeza, lespedeza – mentre guido su una strada montuosa del Centro Italia, diretto verso un piccolo circo girovago.
Il luogo dov’è accampato il circo è circondato da querce e castagni. Verso sera le luci si accendono e gli spettatori si avvicinano all’ingresso (saranno al massimo una ventina). Mentre mi metto in fila, immagino che altri spettatori, silenziosi, sguscino fuori dal bosco: volpi, cinghiali, tassi… per una volta le bestie guarderanno gli uomini. Forse sorrideranno, si chiederanno quando arrivano i pagliacci ed esclameranno: ehi, ma quell’acrobata è matto! Non voglio vedere, borbotterà il cinghiale, io chiudo gli occhi. Sono quasi certo che la volpe riuscirà a procurarsi un cartoccio di popcorn.
Intanto comincia lo spettacolo, incantevole come la parola “lespedeza”. Dopo il numero dei clown appare un acrobata con un abito di lamé argentato. Al centro della pista, solo nel suo scintillìo, sembra uno spicchio di luna. Mi fa pensare all’acrobata creato dallo scultore Remo Rossi: un’opera che racchiude in sé l’incanto della leggerezza e la maestà della forza. Misteriosamente, nonostante gli angoli squadrati, l’equilibrista di bronzo sembra morbido e sinuoso, proprio come una mezzaluna. Davanti ai miei occhi, nel piccolo circo, l’acrobata lunare si arrampica lungo una fune, cammina sopra una corda, balza sopra un lunghissimo palo, volteggia nel silenzio attonito del pubblico. Lui è concentrato, tranquillo… siamo noi, in basso, ad avere le vertigini.
Chiudo gli occhi e ripenso al mio viaggio in Antartide. Anche in quella circostanza, ero pieno di vertigine. Nel buio, circondato da milioni di chilometri di ghiaccio, fermo in un luogo imprecisato della Ross Ice Shelf, ho sentito che il mondo era immenso mentre io solo un pugno di ossa, muscoli e sangue, un respiro fragile nell’aria gelida. La Barriera o il Tavolato di Shelf è un’enorme distesa dove non si vede niente nemmeno d’estate, nel candore abbacinante. Ma in quel momento, d’inverno, rincattucciato nel mio riparo provvisorio, sperando che il vento non strappasse via, mi sono chiesto che cosa mi avesse portato laggiù.
Che cosa muove gli esseri umani a viaggiare, sempre, in ogni epoca, con il corpo o con l’immaginazione? Fin dall’inizio dei tempi ogni volta che qualcuno tracciava un confine, un altro lo superava. Nel corso dei secoli ogni angolo della Terra è stato delimitato, recintato, trasformato in proprietà pubblica o privata. Qui finisce il mio paese, là comincia il tuo. Ma a ben vedere, nessun luogo ci appartiene. Per capirlo, basta farsi un giretto da soli in Antartide. Alcune nazioni vorrebbero tracciare confini anche qui, ovviamente, ma intanto il vento soffia a cento chilometri all’ora, la visibilità è inferiore ai dieci metri e la temperatura percepita scende sotto i -75°C. Quando tutto ciò che ti separa dal nulla è una piccola tenda, capisci quanto sia folle l’ambizione umana.
Ero un punto nel vuoto. Un’increspatura nel buio. Non ero mai stato tanto lontano da tutto. Il bar più vicino si trovava a più di quattrocento chilometri. E mi era ancora andata bene, in un continente con una superficie di quattordici milioni di chilometri (quasi tutti ricoperti di ghiaccio perenne). Se avessi camminato più o meno diritto in direzione dell’Oceano Antartico avrei potuto raggiungere il Gallagher’s Pub alla McMurdo Station (che in inverno è abitata da più o meno trecento persone). Il problema, naturalmente, era che da quelle parti il concetto di “direzione” è assai astratto.
Naturalmente, visto che ne sto scrivendo, alla fine in qualche modo ho raggiunto Il Gallagher’s Pub, chiamato così in ricordo di Charles “Chuck” Gallagher, il padre del proprietario. È un luogo caldo e accogliente. Appena arrivato, dopo avere riacquistato l’uso dei cinque sensi – li avevo persi praticamente tutti –, ho brindato al calore e all’umanità con una tequila messicana. Dopo un po’ mi sono liberato del sentimento di opprimente solitudine e anche del gelo che mi era entrato nelle ossa. Ma la vertigine invece no, quella non mi ha lasciato. Quando ci penso, oggi, qui, mi sento ancora un acrobata sospeso sulla fune, mentre intorno i pianeti e le stelle ruotano nell’oscurità.

HAIKU

Un vecchio clown
nel buio suona il violino.
Notte di luglio.

 

PS: Questo è il settimo “viaggio immaginario”. Ecco le puntate di gennaiofebbraiomarzo,  aprilemaggio e giugno.

PPS: In base a un trattato firmato da 46 paesi e risalente al 1959, l’Antartide non appartiene a nessuna nazione. Sono vietate sia le attività di sfruttamento economico, sia quelle militari.

PPPS: L’immagine della lespedeza è presa da internet, così come quella dell’acrobata di Remo Rossi (quest’ultima, scattata da Chiara Zocchetti, proviene dal sito del “Corriere del Ticino”). La scultura si trova nel “Giardino del clown” a Verscio, nella Svizzera italiana.

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