E toseed tumasăd-t

Tra i Tuareg del Niger ogni ragazzo, al momento della pubertà, deve dimostrare il suo valore affrontando il rischio della solitudine nel deserto. Il giovane si allontana da solo, in groppa al suo cammello, per seguire le tracce di un altro cammello che è stato appositamente liberato tre giorni prima. Il suo compito è seguirne le tracce, ritrovarlo e riportarlo all’accampamento. La seconda parte della prova è ancora più difficile. Prima di potere indossare il turbante che vela il viso, segno di maturità, il ragazzo dovrà passare sette giorni da solo chiuso in una tenda. Per conto mio, credo che non riuscirei a ritrovare un cammello nel deserto; ma ho dei dubbi anche sulla mia capacità di affrontare l’isolamento della tenda.
I Tuareg conoscono tutti i pericoli della solitudine. Per la prima volta, da quando ogni mese torno alla mia anonima piazzetta, anch’io percepisco la minaccia dell’abbandono, la violenza della vita che brucia ogni cosa, come una tempesta di sabbia, e che si lascia indietro i suoi relitti. Non è un giorno afoso, ma il sole picchia. La fontana, al centro della piazza, è un’offerta di refrigerio. Si avvicinano vecchi che inumidiscono un fazzoletto e se lo portano alle labbra, ragazze che riempiono bottiglie di plastica, un cagnolino che ficca il muso nel canaletto di scolo. Mi siedo nella parte in ombra dell’unica panchina libera. Scatto due fotografie con il telefono, prendo un appunto sul taccuino e poi sfoglio il libro che mi sono portato dietro: Barbara Fiore, Tuareg (Quodlibet 2011).
Anche la piazzetta è un deserto. Forse non nell’accezione comune, ma di sicuro in senso etimologico: il latino deserere significa “abbandonare” (composto da de + serere, ‘legare’). L’umanità che approda qui in un pomeriggio d’agosto è per certi versi derelitta: pensionati con i calzoni lunghi e un cappello a proteggere la pelle bianca; un uomo in canottiera, seduto su una panchina esposta al sole; un ubriacone che tiene le birre al fresco nella fontana; una ragazzina magrissima che si siede, guarda a lungo il telefono e poi se ne va. Anch’io, con il mio libro e il mio taccuino, sento che i nodi si stanno sciogliendo e che dentro di me qualcosa rimane allo scoperto, sotto un sole che non perdona.
Un autobus rallenta davanti alla fermata, dove non aspetta nessuno. Nell’aria spiccano i colori delle aiuole e il verde profondo degli alberi. A qualche centinaio di metri c’è un Mc Donald’s, da cui giungono zaffate di odori: olio fritto, carne, insieme a qualcosa di dolciastro e imprecisato, a metà fra il ketchup e la ciambella glassata. Il perimetro rotondo della piazzetta aumenta l’impressione di essere fuori dal tempo. Ogni gesto pare una replica. Un bambino incespica verso la fontana, passa un uomo in bicicletta, i vecchietti si alzano e si siedono a turno sulla loro panchina, come se eseguissero movimenti stabiliti in precedenza: le prove generali di uno spettacolo destinato a non andare mai in scena.
Giorno dopo giorno l’estate si trascina in questo frammento di deserto, in cui ognuno fa quello che può per sopravvivere. Le lunghe ore luminose portano verso una serata calda, infinita, e domani tutto ricomincerà. Qualche vecchietto non sarà al suo posto, ma ne arriveranno altri, insieme ad altri ubriaconi, altri cani ansimanti, altre signore in abito lungo color fucsia. Qualcuno si accorgerà della differenza? Chi tiene nota di chi viene e di chi va? Dove si deposita questa vita minuscola, fatta di attese, di chiacchiere, di sguardi persi nel vuoto?
I pensionati stanno parlando di donne. Uno di loro esprime l’opinione che siano figlie del diavolo. Racconta una vicenda intricata di un suo conoscente, più volte divorziato e ora sposato con una brasiliana di trent’anni più giovane. Le donne sono più furbe degli uomini, esclama, ma io sono più furbo di loro: da cinquant’anni me le giro e rigiro! Alla sua destra, un uomo più anziano e più pallido si limita a guardarlo con la coda dell’occhio, sotto il suo cappello, e mormora a fior di labbra: Come no. Anche i pettegolezzi, tra il fruscio del traffico e quello della fontana, sembrano appartenere a un mondo remoto, fuori dal confine circolare.
Lîtni ägg Äouenzeg, un cantore tuareg nato nel 1856, compose nel 1886 un poema per un’amica che abitava nella valle d’Âoulien. Dalla lontananza di questa valle, mentre cavalca un cammello bianco, immagina di sentire il tormento dell’amore che cala su di lui e che lo consuma, bruciante come il vento d’estate. Nella piazzetta invece il vento porta odore di patatine fritte; e perciò, forse, questo deserto è ancora più insidioso. Ma come ogni deserto, potrebbe rivelare anche una promessa. Se uno sa resistere alle banalità sulle donne, alla crudeltà del tempo, all’angoscia della solitudine, forse alla fine otterrà – se non di essere più felice – almeno di conoscere meglio sé stesso.
Nel mio taccuino ho copiato un proverbio tuareg, scritto con i caratteri tifinagh (un antico alfabeto geometrico, usato da migliaia di anni dalle popolazioni nomadi). Provo lentamente a tracciarlo anche sul legno della panchina. Si pronuncia in questo modo: E toseed tumasăd-t. Significa: Diventa il luogo in cui sei arrivato. Ecco, per sopravvivere al deserto, forse bisogna essere parte del deserto, assecondarne i ritmi, la lentezza. Nel mio piccolo, provo a diventare parte di questa piazzetta fuori dal mondo. E provo a resistere.

PS: Le informazioni sulle prove dei giovani tuareg provengono dal libro di Barbara Fiori che ho citato sopra. Il canto di Lîtni ägg Äouenzeg è tratto da Chants touaregs recueillis et traduits par Charles de Foucauld (Albin Michel 1997; in origine pubblicati da Charles de Foucauld in due tomi, con il titolo Poésies touarègues, nel 1925 e nel 1930). Il proverbio è tratto da Mohamad Ag Erless, Provèrbes et dictons touaregs (Géorama 2014). In realtà i caratteri tifinagh non prevedevano l’uso di vocali, ma oggi si tende a introdurle perché l’alfabeto possa venire impiegato con più scioltezza. Su questo argomento, consiglio di leggere Dominique Casajus, L’alphabet touareg. Historie d’un vieil alphabet africain (CNRS 2015).

PPS: La piazzetta si trova a Bellinzona, nel Canton Ticino (Svizzera), tra via Raggi e via Borromini, dietro la fermata dell’’autobus “Semine”. Per leggere le altre puntate della serie, cliccate qui: gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno, luglio.

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Oettinger

L’uomo con la camicia variopinta se ne sta da solo. Intorno a lui, nella piazzetta senza nome a sud di Bellinzona, si formano crocchi, si scambiano pareri sull’imminente temporale. L’uomo con la camicia variopinta ogni tanto si avvicina a un gruppo, ma senza interloquire con nessuno. Ha un paio di occhiali scuri e i capelli lisciati indietro con il gel. In mano stringe una lattina da mezzo litro di birra Oettinger. Quando arrivo alla piazzetta, all’incrocio tra via Raggi e via Borromini, noto che c’è fermento. Pare che pochi minuti prima un ubriaco abbia dato in escandescenze alla fermata dell’autobus. Il conducente l’ha tenuto a bada come poteva, poi l’ubriaco si è disteso sulla strada. Mentre i vecchietti sulla panchina commentano l’accaduto, passa un’ambulanza con le sirene spiegate. Dove lo porteranno?, domanda uno. Lo fanno dormire, assicura quello seduto al centro della panchina, lo fanno dormire finché starà bene. Un terzo è scettico: Con questo caldo? Ma quello seduto al centro assicura che dove lo porteranno ci sarà l’aria condizionata.
Nel frattempo l’uomo con la camicia variopinta si accosta alla fontana e si lava le mani, fissando nel vuoto. I pensionati continuano a chiacchierare. Uno di loro indossa una maglietta rossa con la scritta Giovane da cent’anni. Quello al centro della panchina, che sembra il più anziano, fa una battuta. Un vecchietto magro, a torso nudo, scoppia a ridere e picchia il piede per terra. Parole sante, ripete, parole sante.
Mi siedo sulla mia solita panchina e apro un libro che mi hanno regalato qualche tempo fa: Tom Chatfield, Come sopravvivere nell’era digitale (Guanda 2013). Non so se considerare il dono un’implicita esortazione a imparare come funzionano le nuove tecnologie (o almeno a sbarcare su WhatsApp o Instagram). La natura della tecnologia digitale – spiega l’autore nell’introduzione – è proteiforme quanto la nostra e può assumere molti ruoli nella nostra vita: un aiuto, un amico, un seduttore, un conforto, una prigione. In ultima analisi, però, tutti i suoi mutevoli schemi sono anche specchi in cui abbiamo l’opportunità di vedere noi stessi e gli altri come mai prima d’ora. Mi stupisce che manchi un paragone che mi pare evidente: la realtà digitale può essere anche una piazza, dove parlare con amici e sconosciuti o dove rimanere in disparte con in mano una Oettinger. Mi sembra un po’ esagerato il come mai prima d’ora; in fondo anche la mia piazzetta, nel suo piccolo, consente di vedere noi stessi e gli altri. Ma è chiaro che l’immensità del fenomeno può far girare la testa: Ormai ci sono più pagine sul web, annota Chatfield, che stelle nella nostra galassia. Capisco che l’autore lo definisca un gorgo vertiginoso, e a volte profondamente inquietante. Ma lo stesso si potrebbe dire di me o di qualunque altra persona che in questo pomeriggio di luglio si trova qui, intorno a questa fontana a forma di barile. Se la tecnologia è inquietante, lo è nella misura in cui gli esseri umani sono e resteranno sempre creature enigmatiche.
Sarà per il caldo, sarà per il nervosismo dovuto all’episodio dell’ubriaco, ma fra due vecchietti scoppia una lite. I toni si fanno roventi. Uno minaccia di andare a casa e di tornare con un coltello, l’altro gli risponde che in cantina conserva il fucile militare con dodici colpi. Il primo se ne va, furibondo. L’altro resta per qualche minuto, ma è di malumore. Alla fine salta sul suo motorino e si allontana, pronunciando a mezza voce un saluto collettivo al quale non risponde nessuno. Dall’altra parte ci sono tre persone che s’ignorano a vicenda: il primo sta in piedi, con la borsa a tracolla; il secondo siede con le gambe accavallate; il terzo, all’angolo della panchina, fin dal mio arrivo sta scrutando lo schermo del cellulare, senza mai alzare gli occhi. Fra di loro passa come uno spettro l’uomo con la camicia variopinta. Raggiunge una panchina vuota, si siede, allunga un braccio sullo schienale e si accende una sigaretta.
Oltre la metà degli abitanti della Terra sono contattabili dal resto del mondo, in maniera quasi permanente, attraverso qualche forma di connessione digitale “live”. Penso per contrasto alle forme di comunicazione più antiche e indecifrabili. Le scritte sulla panchina di legno (incise da chi, rivolte a chi, lette da chi?); il cicaleccio dei pensionati, memoria storica ma labile di un quartiere periferico; l’andirivieni delle formiche sulla corteccia degli alberi. Annoto sul taccuino le parole dei vecchietti e i segni sulla panchina. Poi provo a scattare una fotografia della corteccia ma, sebbene ci sia un gran viavai, nell’immagine mi sembra di non scorgere nemmeno una singola formica.
Una donna cammina lentamente, carica di borse della spesa. Nel cielo si addensano nuvoloni scuri e uno dei pensionati si rallegra di non essere venuto in bicicletta. Quello seduto al centro è scettico: Anche ieri doveva venire il temporale e poi non è venuto. Le nuvole creano una cappa, non si respira. Per l’uva, dice quello seduto a sinistra, questo caldo qui ci vorrebbe a settembre, mica adesso. Intanto, l’uomo con la camicia variopinta ha finito la sua birra e si è spostato accanto a me. A lungo osserva le automobili che passano lungo la via, mentre io torno a leggere. Eppure, è chiaro più che mai che nella nostra vita abbiamo bisogno anche di un po’ di tempo per pensare senza distrazioni, interruzioni o reazioni immediate, sia pure da parte delle persone di cui ci importa di più. Sono già le sei. È sempre più caldo. Guardo la fontana e poi in alto, verso le nuvole. Penso che in fin dei conti potrei andare anch’io a comprarmi una lattina di Oettinger, prima del temporale.

PS: Ogni mese torno nell’anonima piazzetta. Mi siedo, osservo, ascolto. Poi cerco di annotare tutto quello che succede. Ecco le puntate precedenti: gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno.

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Piazzetta tropicale

Ormai è quasi un richiamo istintivo: verso la fine del mese, qualcosa mi attira verso l’anonima piazzetta rotonda che ho trasformato in un mandala, in un micro-territorio di esplorazione. Con il passare del tempo mi accorgo che non si tratta solo di un esercizio di pazienza o di scrittura, quanto di un allenamento nell’arte dell’attenzione. Tutto è minuscolo, non si verificano grandi eventi. Solo una manciata di chiacchiere, qualche screzio fra innamorati o fra bevitori di birra, grida e giochi di bambini, un eterno pigolio di passerotti. Eppure, in qualche modo bizzarro, questi fatti impercettibili sono l’ossatura della quotidianità, della vita implacabile che ci attraversa e ci consuma in ogni istante.
È un pomeriggio soffocante. L’estate arroventa l’asfalto e Bellinzona sembra una città fantasma. Passano due ragazzi a torso nudo, poi un vecchio che si copre la testa con un giornale. Su una bicicletta elettrica sfreccia una ragazza bionda, veloce, ventilata, come un miraggio. Mi avvicino alla fermata dell’autobus. Mi accorgo che hanno tolto tutti i manifesti e i volantini, o forse il sole li ha bruciati via, così come ha bruciato l’erba di una delle aiuole. Nell’altra invece i fiori crescono rigogliosi: il viola e il verde si mescolano al giallo dell’autopostale e restituiscono un soffio di vita a quest’ora esausta.
Avvicinandomi, scorgo da dietro le quattro teste dei vecchietti in fila sulla panchina, come sentinelle che non abbandonano il forte. Stanno parlando di due argomenti che s’intrecciano in maniera apparentemente casuale: 1) L’arte d’imboscarsi sul lavoro nei mesi estivi, con un catalogo di fannulloni storici paragonati ai fannulloni di oggi, che al confronto sono pallidi tentativi di emulazione; 2) il clima torrido: secondo i meteorologi sopra la città c’è (ma il vecchietto usa il verbo staziona) un anticiclone che viene dai mari del sud e che suscita (il vecchietto dice determina) un clima tropicale.
Mi sono portato nella borsa vari libri, per affidarmi poi all’ispirazione del momento. Dopo aver sentito i vecchietti, apro L’uomo dei Caraibi (edizioni Cepim 1977): la speranza è che le tavole di Hugo Pratt mi aiutino a percepire l’atmosfera tropicale della piazzetta. Naturalmente, manca la vastità dell’oceano; in compenso, c’è la vasca circolare nella quale si bagnano i passeri e i merli. Ai bordi della piazza approda un uomo scarmigliato, con in mano una lattina di birra. Viene raggiunto da un conoscente. I due discutono a lungo della possibilità di acquistare dei francobolli alla Posta, che dista poco più di cento metri. Alla fine decidono che fa troppo caldo, e si abbandonano alla dolce immobilità caraibica, interrotta appena dal suono lancinante di un motorino che s’immette rumorosamente nella via principale (i vecchietti scuotono il capo; uno, con l’aria di chi se ne intende, spiega che il motore è di sicuro truccato).
Due bambini, muniti di una bottiglia di plastica, s’ingegnano per arrampicarsi: Ti faccio scaletta, dice il più grande. Vogliono arrivare al rubinetto e riempire la bottiglia. L’operazione è complessa e richiede più di un tentativo. Nel frattempo gli uccelli, scacciati dalla loro vasca da bagno con idromassaggio, protestano a gran voce. Il sole gira intorno alla piazza, una panchina resta scoperta, un’altra viene protetta dall’ombra (quella dei vecchietti è sempre all’ombra, per una sorta di diritto meteorologico acquisito).
Leggendo Pratt immagino il suono delle onde del mare, i lunghi viaggi, le attese infinite. Se chiudo gli occhi, sento invece l’intersezione tra i mondi sonori della piazzetta: il festival degli uccelli, le parole dei pensionati in fila sulla panchina, il ringhio dei motorini e il lento sbuffare dell’autobus. Il mese scorso ho provato a partecipare anch’io, imitando il canto di una cinciallegra. Stavolta invece mi limito a fare da comparsa, appoggiandomi allo schienale della panchina, allungando le gambe, lasciandomi avvolgere dal caldo, dalle chiacchiere, dagli uccelli, dall’acqua, dall’enormità di questo piccolo frammento tropicale made in Switzerland.

PS: Per chi si fosse perso qualche puntata, sono già stato alla piazzetta (che si trova tra via Raggi e via Borromini, dietro la fermata dell’autobus “Semine”) in gennaio, febbraio, marzo, aprile e maggio.

PPS: E per chi non potesse passare di persona, ecco trenta secondi di piazzetta…

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Plazuela

Ma quel Gheddafi ne ha ammazzata di gente! Il vecchio, seduto su una panchina all’ombra, scuote il capo. Con i dittatori va sempre a finire così, gli risponde un altro che ha vissuto per anni in Sudamerica e certe cose le conosce. Intorno alla piazzetta s’intrecciano vari argomenti di conversazione: i dittatori, Valentino Rossi, la famiglia (mio nipote fa l’ingegnere e c’ha una paga da lavapiatti!), i tempi che cambiano, le banche (“la vostra banca”, mi hanno detto, ma “vostra” cosa? Tua sarà, mia no di certo!), un pitone che è fuggito da un appartamento e che si aggira da qualche parte per la città. E poi la crisi, l’eterna crisi. Cinquanta, cinquantacinque anni fa in Svizzera si stava divinamente bene, non solo bene, osserva un vecchietto. Un altro precisa: Si sta bene ancora oggi. E un terzo mette il suggello: Sì, ma i tempi cambiano.
Intanto, sono le cinque della sera. È il giorno della mia ricognizione mensile nello slargo circolare fra via Raggi e via Borromini, dietro la fermata del bus Semine a Bellinzona. Ogni mese, mi siedo per un paio d’ore su una panchina con un libro e un taccuino (ecco la prima, la seconda, la terza e la quarta puntata della serie).
Le cinque della sera è un orario pericoloso. Nelle poesie di Federico García Lorca è l’ora in cui i toreri vengono ammazzati. Ho con me i Canti gitani e andalusi e m’immergo nell’atmosfera solennemente funesta di La cogida y la muerte (“La cornata e la morte”). A las cinco de la tarde, alle cinque della sera… il verso si ripete come in una cantilena. A las cinco de la tarde. / A las cinco de las tarde. / ¡Ay qué terribles cinco de la tarde! / ¡Eran las cinco en todos los relojes! / ¡Eran las cinco en sombra de la tarde! (“Ah, terribili cinque della sera! / Eran le cinque a tutti gli orologi! / Eran le cinque all’ombra della sera!”). Anche qui sono le cinque a tutti gli orologi (anzi, su tutti i cellulari); in compenso non ci sono toreri e l’aria è luminosa. Il cielo appare profondo, complesso, mentre i boschi sulle montagne sono di un verde intenso, già quasi estivo. Mi si avvicina Enver, emigrato in Svizzera dal Kosovo nel 1978, e mi chiede se possa offrirmi qualcosa da bere, magari un sorso di birra. Poi deplora lo stato della fontana al centro della piazzetta, con l’acqua che esce a singhiozzo e il fondo invaso dalle alghe. Colpa del Municipio! Ci vuole cura, ripete, ci vuole cura nelle cose.
Intorno alla piazzetta si muove un mondo lento, un po’ stordito da questo caldo venuto con il favonio. Due uomini con la camicia bianca camminano avanti e indietro, conversando a bassa voce. Una sfilata di carrozzine blocca il passo a un monopattino. Una coppia si ferma alla fontana. Lui riempie una bottiglia di plastica. Lei dice: Non ho mai fatto una passeggiata così, davvero, non mi è mai capitato. Dopo di loro, un bambino si arrampica sulla fontana per arrivare con le labbra all’esile filo d’acqua concesso dal Municipio.
Fra il 1921 e il 1924 García Lorca, ispirandosi a un ritornello popolare infantile, scrisse la Balada de la placeta (“Ballata della piazzetta”). La poesia è un dialogo fra i bambini e il poeta: essi lo chiamano, gli pongono domande, e il poeta risponde di avere nel cuore un doblar de campanas / perdidas en la niebla (“Un rintocco di campane / perdute nella nebbia”). Poi gli chiedono perché se ne vada tanto lontano dalla piazzetta; il poeta risponde che va in cerca di maghi e di principesse. Los Niños: / ¿Por qué te vas tan lejos / de la plazuela? // Yo: / ¡Voy en busca de magos / y de princesas! Il dialogo prosegue. Il poeta spiega ai bambini che a mostrargli il cammino sono la fuente y el arroyo / de la canción añeja (“la fonte e il ruscello / della canzone antica”). Alla fine rivela che il suo è un percorso verso l’anima dell’infanzia, allo stesso tempo giocosa e misteriosamente saggia: Se ha llenado de luces / mi corazon de seda, / de campanas perdidas, / de lirios y de abejas, / y yo me iré muy lejos, / más allá de esas sierras, / más allá de los mares, / cerca de las estrellas, / para pedirle a Cristo / Señor que me devuelva / mi alma antigua de niño, / madura de leyendas, / con el gorro de plumas / y el sable de madera (“S’è riempito di luci / il mio cuore di seta, / di campane perdute, / di iris e di api, / e io me n’andrò molto lontano, / più in là di quei monti, / più in là dei mari, / vicino alle stelle, / per chiedere a Cristo / Signore che mi ridia / la mia anima antica di bimbo, / matura di leggende, / con il berretto di piume / e la sciabola di legno”). Non so se vorrei riavere la mi alma antigua de niño. Voltarsi indietro a cercare il passato può essere pericoloso. Ma in qualche modo sento che quell’alma de niño non è mai scomparsa, e che se avessi una sciabola di legno, di nuovo, diventerei all’istante un pirata.


A una certa ora la piazzetta si svuota, e intorno alle panchine si posa un nugolo di passerotti. Più in là, sull’aiuola, un merlo beccuzza un verme dal terreno. Dopo averlo inghiottito emette qualche nota, non so se di trionfo o di soddisfazione. Dal momento che mi ritrovo in tasca un richiamo per cinciallegre, intono anch’io qualche fischio. Chissà, penso, magari merli e cinciallegre possono andare d’accordo. Il merlo però alza la testa di scatto, perplesso. Sembra quasi offeso dal mio tentativo di cinciallegrare. Faccio per avvicinarmi, ma quello svolazza via con un certo sdegno. Allora mi siedo su una panchina e provo ancora a cantare, unendomi al coro degli uccelli, ai motori, alle chiacchiere dei vecchietti, alle grida dei bambini, al fruscio precario ma tenace della fontana al centro de la plazuela.

PS: Federico García Lorca nacque nel 1898 nei dintorni di Granada e venne fucilato dalla Guardia civile franchista nel 1936. La mia versione di Canti gitani e andalusi (Guanda 2005), con testo originale a fronte, è a cura di Oreste Macrì.

PPS: Il richiamo per cinciallegre è un regalo di compleanno. Non sono ancora riuscito a trovare un volatile che voglia discutere con me, ma io non demordo e continuo a trillare.

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Macadam

A volte basta poco per scivolare nella giungla. Ti alzi il mattino, bevi un caffè, esci per andare al lavoro. Ti trovi in coda insieme ad altre automobili, nel pulsare della pioggia, con l’acqua che riga i vetri e con i segnali che spiccano nell’aria grigia. Superi un cartellone che annuncia – o minaccia – una festa delle fragole, un altro che promette sconti per l’acquisto di tosaerba e mobili da giardino. Il verde delle montagne appare più cupo, percorso da veli di nuvole. Sul ciglio della strada, un vecchio in impermeabile aspetta alle strisce pedonali. Ti fermi per lasciarlo passare, lui ti guarda e rivela uno sguardo azzurro chiaro, fermo come un cielo d’estate. Subito ricomincia il flusso del traffico. Ma per un secondo, dentro quegli occhi, hai visto uno squarcio di fuga, una possibilità di evasione.
Quello sguardo incrociato per caso mi fa venire in mente un brano di Paolo Conte. Parla di un vecchio sparring partner, un uomo che s’intuisce segnato dalle ferite della vita e, per tanti aspetti, poco affidabile. All’inizio della canzone, una donna lo giudica un macaco senza storia, poiché gli manca la memoria / in fondo ai guanti bui. Nel ritmo avvolgente, nell’eleganza sinuosa delle frasi musicali si cela tutto il segreto di questo misterioso sparring partner: Ma il suo sguardo è una veranda… / tempo al tempo e lo vedrai / che si addentra nella giungla…

Sono occasioni che vanno colte all’istante. Collego l’iPod agli altoparlanti e ascolto Sparring partner, mentre intorno le strade, i palazzi, i fari delle altre macchine sfumano in un principio di giungla, e non ho visto mai / una calma più tigrata / più segreta di così. Alla fine si tratta di inoltrarsi nell’ignoto, anche se in maniera un po’ sgangherata: prendi il primo pullman, via, tutto il resto è già poesia.
Ciò che mi ha sempre affascinato, in questo e in altri brani di Conte, è la capacità d’impastare il quotidiano con l’immaginario esotico. Faccio un esempio. Il macadam (con l’accento sull’ultima “a”) è un tipo di pavimentazione stradale fatto di pietrisco compresso. Creato dall’ingegnere scozzese John McAdam nel 1820 e diffuso in tutta Europa fino al XX secolo, venne poi sostituito dal catrame, che è più resistente; ma ancora oggi viene impiegato per le strade di campagna poco trafficate o per i vialetti nei giardini pubblici. Senza dubbio, tuttavia, l’aspetto più interessante del macadam è proprio il nome, con quella risonanza che pare uscita da un romanzo di avventura. Infatti, nella canzone di Conte, il vecchio sparring partner stava lì nel suo sorriso / a guardar passare i tram… / Vecchia pista da elefanti / stesa sopra al macadàm.
Ci vuole poco, a volte, perché una strada senza sorprese si tramuti in una pista da elefanti. Naturalmente occorre qualcosa, una miccia che muova l’immaginazione. Un vecchio con gli occhi azzurri, intravisto alle strisce pedonali? Non solo: ieri mattina ho avuto anche la fortuna d’incrociare un pachiderma (per giunta di colore giallo). Ho impiegato qualche secondo per accorgermene: davanti a me c’era un grosso autocarro di una ditta di trasporti che ha per marchio proprio un elefante. Dietro l’oscillare dei tergicristalli, si è manifestato all’improvviso come un simbolo, un richiamo di vita selvaggia.
È un’illusione? Sarebbe meglio restare ben ancorati nel presente, nelle telefonate di lavoro, nelle cose da fare? Non so se questo indugio in ciò che non esiste sia del tutto positivo. Ma per me sarebbe difficile rinunciare a questo mondo alternativo, che appare in filigrana dietro il mondo reale. La sfida è trovare un’intersezione fra l’universo dei tosaerba e del traffico e quello degli elefanti e degli sparring partner.
In un certo senso, si tratta di cucire addosso alle circostanze un vestito che le renda diverse da ciò che sono. Un qualsiasi uomo anziano con gli occhi azzurri diventa un inquietante sparring partner, al tempo stesso macaco senza storia e meravigliosa veranda. Di sicuro questa traslazione fantastica deforma la consistenza reale delle cose; però almeno rileva che, dietro la normale trafila dell’esistenza, c’è un nocciolo che resta inspiegabile. Se il sentiero (anzi, la pista da elefanti) della nostra vita è tutto sommato prevedibile, uguale a tante altre vite, ogni tanto succede uno scarto, una frizione minuscola che suscita domande e desideri. Dice una fulminea poesia di Cesare Viviani: Perdersi in una volta dell’animo, / nel groviglio di storie / altrui, di tutti, di ognuno. Questa è la vera giungla.
Tornato a casa, esco sul balcone e mi trovo davanti ancora lo stesso grigio, la stessa pioggia. Mi porto fuori un pompelmo, lo appoggio sulla ringhiera. Di colpo, la sostanza luminosa del frutto irradia il suo splendore nel parcheggio. Il Citrus paradisi (questo il nome scientifico) apre uno spiraglio di esotismo. Non c’è nemmeno bisogno di mangiarlo; basta guardarlo, annusarlo, pronunciarne il nome: pompelmo, dall’olandese pompelmoes (pompel, “grosso”, e limoes, “limone”), a sua volta derivato dal tamil pampalimasu.
Pompelmo e macadam: che altro serve per smarrirsi nella giungla?

PS: Il brano Sparring partner venne pubblicato nell’album Paolo Conte (CGD 1984). La versione che ho ascoltato in automobile, e che ho proposto qui, è stata incisa dal vivo all’Arena di Verona nel 2005 e si trova nel disco Live Arena di Verona (Warner 2005). La lirica di Cesare Viviani è tratta da Osare dire (Einaudi 2016). Il dipinto qui sopra è di Henry Rousseau (1844-1910): s’intitola Tigre nella giungla in tempesta, risale al 1891 ed è esposto alla National Gallery di Londra. Il pompelmo proviene dalla Florida. Normalmente il frutto è giallo come un elefante, ma questa è una variante rosa, oggi molto diffusa e comparsa per la prima volta in seguito a una mutazione spontanea avvenuta in Texas nel 1929.

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