Tranne il bianco

#Rubruk2022 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli

Guglielmo di Rubruk partì nel 1253 per una lunga spedizione in Asia. Il suo Itinerarium, redatto in latino, è fra i più bei resoconti di viaggio che siano mai stati scritti. Basta leggerne poche frasi per trovarsi nel cuore dell’ignoto, oggi come ieri, desiderosi di conoscere ciò che è diverso da noi.

Rubruk
Divagazioni intorno ai viaggi di Guglielmo di Rubruk

Quarto episodio.

10) «Quel mattino avevo le dita dei piedi congelate, e non potei più camminare a piedi nudi. (Il freddo in quelle regioni è tremendo. Da quando comincia, il gelo non cessa più fino a maggio; e anche in maggio c’era ancora il ghiaccio ogni mattina, ma si scioglieva per effetto del sole, mentre in inverno non si scioglie mai, comunque tiri il vento.)»

Manca poco a Natale e noi siamo ospiti in una casa di montagna. Un luogo discreto, senza vette irraggiungibili e rocce colossali. Una montagna come molte altre, corrucciata, discosta. L’aria è fredda, ma dall’inizio dell’inverno è la prima volta che vediamo la neve. Arriva di notte, mentre tutti dormono, e all’alba si annuncia al mondo con un grande silenzio. Le finestre, con gli angoli un poco appannati, raccontano un altro paesaggio: non più case e alberi, ma forme impalpabili che sembrano fatte soltanto di luce e di respiro. Beviamo il caffè nero (senza zucchero) davanti alla finestra più grande. Entrambi stiamo pensando a Guglielmo di Rubruck. Nel dicembre del 1253 il grosso e infaticabile monaco era giunto all’accampamento di un importante capo tartaro. Com’è consuetudine dei francescani calzava dei sandali a piedi nudi. I tartari, stupiti, gli chiesero se non avesse bisogno delle dita dei piedi, visto che le avrebbe sicuramente perse. Da uomo saggio qual era, Guglielmo accettò d’indossare delle calzature di pelliccia. In seguito, il frate annotò nei suoi appunti il freddo implacabile della steppa. Era il primo Natale passato in viaggio, lontanissimo dall’Europa e da tutto ciò che conosceva. Eppure, come sempre, Guglielmo aveva la capacità di sentirsi a casa in ogni circostanza. E noi, che all’alba guardiamo il prato e il bosco da una casa calda, piena di persone amiche? Non c’è bisogno di dirci niente. Sappiamo di essere qui, ma sappiamo anche di essere là fuori, intirizziti nella neve ovattata, mentre aspettiamo i tartari. La figura di Guglielmo, quel puntino scuro in mezzo ai campi, per un attimo diventa l’unico riferimento. Lentamente ci avviciniamo, finché la sua immagine sbiadisce sotto le ciglia, scompare tutto tranne il bianco.

11) «Il mio compagno talvolta aveva una fame tale che mi diceva con le lacrime agli occhi: “Mi sembra di non aver mai mangiato in vita mia”».

– Ma la cena?
– Dai, ci sarà qualcosa di aperto.
Non è presto, ma neppure così tardi. Abbiamo appena concluso una lettura serale fuori dal centro urbano, appena sotto le montagne, e ci siamo fermati a chiacchierare. Ora camminiamo soli, nel buio, per raggiungere la nostra auto.
– Mah, sono meno ottimista di te.
– Male che vada andiamo in città.
– In città dove?
– Che ne so, tentiamo alla Valtellinese.
– Che roba è?
– Ci andavo quando lavoravo fino a tardi.
– Fanno pizze?
– Uova strapazzate, forse.
L’autostrada è ampia come uno sbadiglio. Sui lati sfilano le ombre degli alberi. Ogni tanto compare la luce di un gruppetto di case, un magazzino isolato, una strada persa fra i campi. Una ventina di chilometri ci separa dalla città e dalla cena.
– Chiamo la Valtellinese?
– Ma no, saranno aperti.
All’entrata della città, un locale a luci rosse (e verdi e blu e gialle e bianche) squarcia l’oscurità con la sua insegna: dancing. Noi superiamo due semafori e un capannone per la vendita d’automobili. Quando arriviamo alla Valtellinese, non c’è nessun segno di vita.
– Non l’ho ma vista chiusa a quest’ora!
– Ci sarà qualcos’altro, dai, siamo in città.
– Kebab?
– Ma sì.
– Mia moglie prende sempre il kebab vicino al teatro.
A un angolo di strada, un bar-discoteca serve cocktail colorati e fa vibrare le gambe con immensi woofer. I fari rosa puntano sulle poche persone che stanno ballando. Si chiama Upper Class, e noi siamo troppo down (e affamati) per fermarci a pasteggiare con due olive. Più in là c’è un altro bar dall’aria dimessa.
– Guarda. Qui ci andavo da ragazzo.
– “Il Castigamatti”?
– Un postaccio. C’è uno strazio di karaoke.
Una voce acuta, fra le altre, canta: «cercavo in te la tenerezza che non ho / la comprensione che non so / trovare in questo mondo stupido». E continua risuonare mentre ci specchiamo nella porta chiusa del Kostantîniyye Döner Kebap & Pizzeria.
– E adesso?
– È mezzanotte.
– Un nuovo giorno.
– Ma la fame sta invecchiando.
– Non ci sono altri locali?
– Qui vicino c’è il Chiquito, ma non è un posto raccomandabile.
– E noi siamo raccomandabili?
– Sì, hai ragione anche tu.
Il Chiquito è una cantina. Impossibile capire se sia aperto o chiuso. Mentre ci avviciniamo, una figura esce da un angolo nascosto. Ha i capelli quasi bianchi, ma il volto giovane e gli occhi attenti. Sorride con ironia. Ci accorgiamo che in fondo alla scala, dalla porta socchiusa del Chiquito, filtra una sottile linea di luce. C’è pure una nuova insegna, che appare incomprensibile: татаруудын цөл. La vernice sembra fresca, come se l’avessero appesa oggi stesso.
– Siete arrivati, finalmente.

12) «Quando vidi la corte di Baatu rimasi sgomento, perché già solo le dimore di sua spettanza sembrano come una grande città distesa in lunghezza».

È già trascorso un anno. Ancora confondiamo la steppa e le autostrade. Che cosa cerchiamo, seguendo la scia di questo cocciuto viaggiatore di otto secoli fa? Nella nostra piccola vita abbiamo già visto metropoli immense, che si srotolano senza finire mai e contengono milioni di individui. Perché allora immaginare la corte di Baatu ci offre un’emozione così forte, diversa? Dalla radio accesa esce il suono di un violino che taglia lo spazio fra di noi, lo fa a pezzi, come un diamante sul vetro. «Sono stanco», dice uno. «A volte, eh, non sempre». L’altro guarda il cielo oltre il parabrezza, cercando una nuvola o qualcosa che somigli a una nuvola. «Lo so». Bastano due sillabe per ribadire l’alleanza. Meglio che le parole restino nell’abitacolo, perché il mondo risponderebbe: ma come! hai tutto quello che serve per essere felici… Il punto è che forse la felicità non c’entra. E nemmeno la stanchezza. Custodiamo tutti del buio più buio: c’è chi è bravo a dimenticarsene, ma c’è chi non riesce ad arginare l’abisso. C’è poco da fare, se non attraversare insieme la corte di Baatu, distesa in tutta la sua lunghezza. E si può scrivere, aspettando le parole dell’altro. Così, mentre passano gli anni e le stagioni, ogni frase fiorisce dal buio, nel folto dei pensieri e delle angosce. Anche il gesto di mettere una virgola, voltare una frase, cancellare di nuovo: forse anche soltanto questo esprime una speranza. Altrimenti, se le cose dovessero mettersi davvero male, si può sempre tirare un dado, preferibilmente a venti facce. «Hai un dado in tasca». «Sì, come lo sai?» «Lo so perché ne ho uno anch’io». «È vero». «Al mio tre, allora. Uno. Due. Tre». «Bah, 7. Tu?». «5. Siamo spacciati».

PS: Ecco i collegamenti al primo, al secondo e al terzo episodio.

PPS: Le frasi in grassetto sono tratte dall’Itinerarium di Guglielmo, secondo l’edizione stabilita da Paolo Chiesa in G. di Rubruk, Viaggio in Mongolia, Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2011. Spesso abbiamo usato la versione italiana dello stesso Chiesa; qualche volta abbiamo invece tradotto noi stessi dal testo latino.

PPPS: Negli anni fra il 1237 e il 1242 un’orda di guerrieri mongoli avanzò verso l’Europa. I Tartari, come venivano chiamati, si spinsero in Russia, Polonia, Boemia, Ungheria, devastando città e villaggi. L’esercito arrivò fino all’Adriatico e si ritirò soltanto alla morte del comandante Ögedei Khan. Qualche anno dopo, nel 1253, il re di Francia Luigi IX decise d’inviare un ambasciatore verso le steppe, per tentare qualche relazione con i Mongoli. Il sovrano si affidò a un frate fiammingo, Guglielmo di Rubruk, che viaggiò per due anni nei territori dell’Asia Centrale fino a Karakorum, dove risiedeva il Gran Khan Möngke. Guglielmo, capace di percorrere grandi distanze in poco tempo (più di dodicimila chilometri in totale) era colto, robusto e dotato di buon senso. Sapeva parlare con i re e con i poveri, con un monaco buddista o con uno sciamano, con un soldato o con un prigioniero. Era aperto e curioso nei confronti delle lingue, delle usanze, delle abitudini dei popoli stranieri. Il suo Itinerarium è uno dei più bei libri di viaggio medievali (e anche oltre).

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Hi there!

#Rubruk2022 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli

Guglielmo di Rubruk partì nel 1253 per una lunga spedizione in Asia. Il suo Itinerarium, redatto in latino, è fra i più bei resoconti di viaggio che siano mai stati scritti. Basta leggerne poche frasi per trovarsi nel cuore dell’ignoto, oggi come ieri, desiderosi di conoscere ciò che è diverso da noi.

Rubruk
Divagazioni intorno ai viaggi di Guglielmo di Rubruk

Terzo episodio.

7) «Quella sera l’uomo che ci faceva da guida ci diede da bere del comos; al primo sorso mi misi tutto a sudare per il disgusto e la sorpresa, perché non ne avevo mai bevuto. Tuttavia mi sembrò che avesse un buon sapore, ed effettivamente ce l’ha».

Guglielmo beve, ed è come se bevesse l’universo. Nella sua espressione c’è tutto quello che si può cercare: le tenebre dell’ignoto, lo scontro, la luce della scoperta. Come quando fra le montagne, in mezzo a creste e pendii, si giunge a un pianalto inatteso. Guglielmo, con la fronte perlata di sudore, sorride alla guida. Poi si gira verso di noi e scuote la testa, desolato, scoprendoci in bilico sul bicchiere, titubanti e anzi angosciati. Forse più sudati di lui. Abbozza una smorfia ironica: sa bene che non siamo all’altezza, nulla di nuovo, ma bere da un bicchiere, accidenti!
Stretti fra l’imbarazzo e il desiderio di essere altrove, ci torna in mente il ricordo di un altro mondo. Siamo sempre noi due, a Zurigo, e stiamo entrando in un caffè che si vuole internazionale e sfoggia un marchio riconoscibile (l’abbiamo già visto mille volte). Ci avviciniamo al banco luminoso e il commesso ci dice: «Hi there!». Manco a farlo di proposito restiamo interdetti fra l’inglese ostentato del ragazzo con grembiule e la lista infinita di bevande. Volevamo prenderci due ristretti, ma ci troviamo a scegliere fra Vanilla or Caramel Macchiato, Flat White, Chai Tea Latte, Oat Cappuccino (Vegan), Matcha Tea Latte, Espresso 1x 2x 3x, White or Black Macchiato, Cold Brew, Premium Hazelnut Chocolate, Filterkaffee, Café Latte, White Chocolate Mocha, Iced Americano, Java Chip e altre cose che non abbiamo più tempo di leggere, perché dietro sbuffano e il ragazzo ci dice ancora qualcosa in inglese.
Allora uno di noi, di colpo sicuro, dice: «Two Comos, thank you».
E l’altro aggiunge: «Large, please».
Il comos, o kumis, è una bevanda ottenuta a partire dal latte di giumenta. Di certo il frate di origini fiamminghe avrebbe preferito della birra… ma non importa. La memoria evade dal passato. Nell’eterno presente del viaggio, Guglielmo si specchia nelle parole dei tartari, nei loro occhi sottili, nei gusti, negli odori. È fatto così. Non si limita a bere il comos per necessità: finisce per trovarlo buono.
«Okay!» risponde il commesso.
Si volta, traffica fra le bevande, ci porge due bicchieri di carta. Noi ci guardiamo. Non abbiamo nessuna idea di che cosa ci abbia servito. Ma Guglielmo ancora ci osserva – fra le luci del bar moderno, con il suo corpaccio robusto, il saio stazzonato – e quindi, dopo avere elemosinato una cannuccia, non possiamo fare altro che bere il mistero fino all’ultimo sorso.

8) «Camminammo per tre giorni senza incontrare nessuno. Eravamo sfiniti, e così pure i nostri buoi, e non sapevamo in che direzione avremmo potuto trovare dei Tartari; quando improvvisamente ci vennero incontro due cavalli, che accogliemmo con grande gioia. La guida e l’interprete montarono in sella e andarono in esplorazione, per vedere da che parte trovare qualcuno. Quando, il quarto giorno, incontrammo finalmente degli uomini, la nostra felicità fu come quella di naufraghi che arrivano in porto. Lì prendemmo cavalli e buoi, e procedemmo di bivacco in bivacco finché non giungemmo, il 31 luglio, all’accampamento di Sartach».

Alla periferia di noi stessi. Come può il mondo esistere? Il semaforo è giallo, lampeggia, nelle case le tende non si scostano, si appannano gli occhiali. Poi due cavalli ci chiamano per nome.

9) «Muovemmo dunque diritto verso oriente in direzione di Baatu. Il terzo giorno giungemmo all’Etilia; quando vidi il fiume mi chiesi stupito da dove arrivasse tutta quell’acqua che scendeva da nord».

Camminiamo sotto la pioggia, in silenzio. Indossiamo degli stivali di gomma scura e siamo infagottati dentro giacche dai colori squillanti. Uno di noi, sulla testa, porta una specie di cappello da cowboy; l’altro un affare curioso, che potrebbe essere a tutti gli effetti un paralume. La strada sale. Non c’è nessuno. Chi uscirebbe del resto in un giorno come questo? L’acqua scroscia nelle grondaie, gocciola dagli alberi, s’attorciglia sui tetti. E come se niente fosse succede qualcosa. Solo che quando ce ne accorgiamo non c’è già più. Certo non un fatto storico, ma nemmeno un dettaglio particolarmente importante per la nostra vita. Eppure accade. In quell’istante, senza bisogno di parlarci, siamo entrambi invasi dalla meraviglia. Una cosa quasi sciocca: siamo stupiti da come scende la pioggia e da come scricchiolano gli stivali. Dalle sfumature di verde nei prati. Dal profilo incerto delle montagne, poco più in là del nostro naso bagnato.
«Se volete mangiare con noi, vi conviene rientrare e asciugarvi», ci chiamano da una finestra.
Siamo abituati a leggere tante cose, a fissare degli schermi più o meno luminosi dove continuano a muoversi immagini che pretendono di essere nuove e originali. Sappiamo bene quanto sia importante leggere con cura e spegnere gli schermi appena possibile. Ma è la nostra vita. Qualche volta ci addentriamo perfino in quelle prigioni senza sbarre che sono i social network, dove si grida il bisogno di conforto e di ascolto, in mezzo al flusso d’insulti, vanterie, moralismo. È la nostra vita.
La dimenticanza è sempre in agguato. Il rischio di sprofondare nella noia, nell’ansia, nella disperazione. Dopotutto, forse, quell’istante di stupore non era così banale. La salvezza viene anche dal camminare dentro una pozzanghera (tanto abbiamo gli stivali) e da quella nitida, fugace sensazione: i prati sono prati, le case sono case, la strada sale poi scende e resta una strada. E l’acqua è l’acqua.
«Ah, e salendo, controllate che il passeggino sotto la tettoia non si sia bagnato!».

PS: Potete leggere qui il primo episodio e qui il secondo.

PPS: Le frasi in grassetto sono tratte dall’Itinerarium di Guglielmo, secondo l’edizione stabilita da Paolo Chiesa in G. di Rubruk, Viaggio in Mongolia, Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2011. Spesso abbiamo usato la versione italiana dello stesso Chiesa; qualche volta abbiamo invece tradotto noi stessi dal testo latino.

PPPS: Negli anni fra il 1237 e il 1242 un’orda di guerrieri mongoli avanzò verso l’Europa. I Tartari, come venivano chiamati, si spinsero in Russia, Polonia, Boemia, Ungheria, devastando città e villaggi. L’esercito arrivò fino all’Adriatico e si ritirò soltanto alla morte del comandante Ögedei Khan. Qualche anno dopo, nel 1253, il re di Francia Luigi IX decise d’inviare un ambasciatore verso le steppe, per tentare qualche relazione con i Mongoli. Il sovrano si affidò a un frate fiammingo, Guglielmo di Rubruk, che viaggiò per due anni nei territori dell’Asia Centrale fino a Karakorum, dove risiedeva il Gran Khan Möngke. Guglielmo, capace di percorrere grandi distanze in poco tempo (più di dodicimila chilometri in totale) era colto, robusto e dotato di buon senso. Sapeva parlare con i re e con i poveri, con un monaco buddista o con uno sciamano, con un soldato o con un prigioniero. Era aperto e curioso nei confronti delle lingue, delle usanze, delle abitudini dei popoli stranieri. Il suo Itinerarium è uno dei più bei libri di viaggio medievali (e anche oltre).

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Appunti sulla resistenza

Propongo anche qui un articolo apparso sabato 21 marzo 2020 sul quotidiano svizzero “La Regione” (lo potete leggere nel sito del giornale). Non ho modificato il testo, ma ho aggiunto qualche fiore primaverile.

***

Quando esco a fare la spesa, nelle strade vedo facce tirate e sguardi che misurano le distanze. Abbiamo paura, è normale. Una certa ansia è inevitabile e perfino utile. Mi chiedo tuttavia: come fare perché il panico non abbia l’ultima parola? Più che limitarci a esclamare #iorestoacasa, dobbiamo forse aiutarci a dare un senso a questo limite, a questa immobilità. Non basta sognare il futuro – #andràtuttobene – ma possiamo cercare forme di bellezza anche dentro le circostanze avverse.
Dopo che hanno chiuso le scuole elementari, le mie figlie hanno cominciato a giocare alla scuola. Ognuna delle due impersonava il ruolo di una maestra. Entrambe avevano una classe di una ventina di allievi, a cui si rivolgevano con domande, richieste, rimproveri. Hanno invaso ogni spazio con esercizi, compiti, comunicazioni ai genitori, pagelle, quaderni, carta, colla, matite. Le loro maestre (quelle vere) hanno inviato dei compiti (veri), ma tutto si mescola nel gioco e la mia casa è piena di alunni immaginari: me li ritrovo sul divano, in sala da pranzo, nel mio studio. Prima di andare in bagno, ormai, dico alle bambine: se ci sono allievi immaginari qui dentro, per favore cacciateli fuori! Fra l’altro, proprio in questi giorni avremmo dovuto traslocare, ma naturalmente non è possibile. Siamo ancora qui, viviamo un’altra primavera dentro queste mura a cui avevamo già detto addio.
A volte le mie figlie scorgono dall’altra parte del giardino una loro coetanea. Si scambiano qualche parola con imbarazzo, nonostante abbiano passato intere giornate a giocare insieme. Non sono abituate alla distanza. A me sembra triste vederle così, ma dopo un po’ le bambine cominciano a scambiarsi informazioni. «Quante figlie avevi tu?» chiede l’una indicando le bambole dell’altra. «Sette» risponde l’interpellata, e precisa che «erano tutte appena nate». Io mi complimento per il parto settigemellare e mi abituo all’idea di essere nonno. Ecco una forma di resistenza: affidarsi all’immaginazione per combattere l’angoscia.
Certo, il dolore non si cancella, anche perché la pandemia non è uguale per tutti. C’è chi deve spostarsi ogni giorno per lavorare, chi è senza casa, chi è separato dai suoi famigliari, chi non riesce più a tirare avanti. Non siamo in grado di colmare tutte le sofferenze, ma possiamo fare del nostro meglio per infonderci coraggio. Come scrittore, non capisco se sia meglio offrire la mia testimonianza o il mio silenzio. Se mi avventuro nei social network vengo inondato da un flusso di notizie, teorie, discussioni, litigi, appelli, racconti, drammatizzazioni e sdrammatizzazioni… Questo mi spaventa. Perché proprio io dovrei aggiungere altre parole?
Il romanziere Andrea Pomella, descrivendo sé stesso mentre in questi giorni fa ginnastica insieme a suo figlio, annota che gli è «sembrato di sentire la sua voce da grande che tenta di ricordare. Allora – aggiunge – ho pensato che non voglio perdermi niente, nemmeno queste giornate messe in fila sul davanzale come bottiglie vuote ad asciugare». Anch’io tento come tutti d’infondere vita a queste giornate-bottiglie. Perciò scrivo questo articolo, leggo, riordino la casa, cucino, suono il sax, mi cimento con lo studio dell’arabo (o almeno ci provo…), ogni tanto lavoro alla radio e mi collego con i miei studenti liceali per le videolezioni. L’altro ieri abbiamo letto insieme Vittorio Sereni, e in particolare un testo risalente agli anni Quaranta. Prigioniero degli americani in Algeria, il poeta scopre che è difficile pensare ad altro «poiché questo è accaduto: che i fatti si sono sostituiti alle immagini; che quattro o cinque sentimenti elementari si sono sovrapposti all’immaginazione».
Guardando sullo schermo le facce degli allievi, ho indovinato nei loro sguardi la stessa difficoltà a pensare ad altro. Tuttavia, insieme alla fatica di restare sempre in casa, ho intravisto anche la consapevolezza che non sia inutile, in queste circostanze, parlare di poesia. Sereni racconta che nel campo di prigionia c’era chi scriveva, come lui. Ma subito dopo dice che la sua fiducia è soprattutto «per l’ignoto che tornerà a casa senza preziosi quaderni nel sacco perché osa ancora credere alla pazienza e alla memoria». Ecco un’altra forma di resistenza: credere alla pazienza e alla memoria.
Proseguendo la lezione, ci siamo imbattuti in un perfetto endecasillabo: «Così, distanti, ci veniamo incontro». Un verso composto da Sereni più di settant’anni fa, in una situazione diversa, ci ha raggiunti come un dono (qualcuno ha detto che potrebbe diventare un hashtag: #cosìdistanticiveniamoincontro). Ho deciso che lo prenderò come un’indicazione di rotta. La disponibilità all’incontro, all’incontro vero, può aiutarci a lottare contro la sofferenza, le ingiustizie, la paura, la fatica.
«Così, distanti, ci veniamo incontro.»

PS: Grazie al quotidiano “La Regione” e in particolare a Lorenzo Erroi, che mi ha esortato a scrivere questo articolo nonostante la mia iniziale reticenza. Grazie anche ad Andrea Pomella: la sua immagine di questi giorni come bottiglie vuote mi ha spinto a riflettere sulla mia quotidianità.

PPS: Ho scattato queste fotografie nelle scorse settimane (fino all’inizio di marzo). La prima immagine, invece, ritrae una genziana primaticcia cresciuta nel giugno 2019 sull’altopiano della Greina, a circa 2300 metri sul livello del mare. Ho sempre amato le genziane primaticce (Gentiana verna) perché in luoghi aspri e remoti annunciano lo scioglimento delle nevi. Il loro blu profondo, misterioso, esprime la lontananza e forse anche la promessa di una stagione più serena.

PPPS: Dal sito del liceo, ecco un frammento di video in cui – rispondendo a una domanda sulle lezioni in diretta video – cito anche il verso di Vittorio Sereni.

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Santa Fe

 “Viaggi immaginari” è una serie di reportage da luoghi che non ho mai visto, scelti a caso sulla mappa del mondo. A farmi da guida l’antico gioco Hanafuda, che scandisce le stagioni dell’anno. Ogni mese le carte mi accompagnano nella scrittura di un racconto di viaggio e di un haiku.

Settembre
Hanafuda: Crisantemo / Coppa di saké
Luogo: Santa Fe, Nuovo Messico, Stati Uniti d’America
Coordinate: 35°41’46.2″N; 106°10’21.7″W
(Latitudine 35.69616; longitudine -106.17269)
Esco a fare una passeggiata. Sul fianco di una collina mi soffermo a guardare la città dall’alto. È tardi, fra un’ora sarà buio. Riprendo a camminare, seguo un tornante e di nuovo mi giro a contemplare la città. Stavolta però mi trovo davanti il verde smagliante di una siepe. Mi viene in mente che, oltre quella siepe, si distendono le strade, le piazze, i quartieri residenziali, il fiume… ma che importa? Sono nella classica situazione leopardiana. Nel pensiero posso fingere interminati spazi e infiniti silenzi di là dalla siepe, posso giungere fin dove mi porta il desiderio. Mi accorgo però di avere trascurato un dettaglio. Di là dalla siepe c’è una terrazza. E sulla terrazza, approfittando dell’ultimo sole, un uomo e una donna stanno chiacchierando. Devono essere davanti alla porta della cucina, perché sullo sfondo sento una voce infantile che ripassa le moltiplicazioni.
– Cinque per uno cinque, cinque per due dieci, cinque per tre quindici…
La voce dell’uomo è più grave. – Lo so che fanno tutti così. Ma a me piace spendere i soldi che ho. Cioè, se voglio una macchina la compro.
– Ma se non puoi comprarla? – interviene la donna.
– Allora ne compro un’altra. Ma sarà la mia macchina.
– Anche se la prendi in leasing è tua. È la stessa cosa.
L’uomo fa un sospiro. – Io spendo solo i soldi che ho.
– Sette per tre ventuno – dice intanto il bambino (o la bambina). – Sette per quattro ventotto, sette per cinque trenta, no, trentacinque, sette per sei quarantadue, sette per sette quarantanove…
Mi allontano. Non ho visto niente, non ho immaginato niente. Ma forse ascoltare è ancora meglio. Ascoltare e capire quando è il momento buono per scrivere. Un tempo, in Giappone, durante le feste di settembre era usanza riunirsi in riva ai ruscelli e ai canali per comporre versi sullo splendore dei crisantemi. Per gioco si facevano galleggiare le coppe di saké sull’acqua corrente e tutti cercavano di scrivere un poema prima che la coppa arrivasse davanti a loro. Anch’io voglio scrivere in questo modo. Non bevendo saké (o non sempre), ma tentando di raccontare una cosa solo al momento giusto, quando mi sembra necessario condividerla.
Confesso che non mi sento del tutto pronto a parlarvi del mio viaggio nel Santa Fe National Park. Ancora non ho capito bene che cosa mi sia accaduto. Però sento che qualcosa devo dire prima che finisca settembre.
Era una giornata di sole. Non faceva troppo caldo, ma tutto era secco, e il vento sollevava sbuffi di polvere. Faticavo a orientarmi, perché il paesaggio era uniforme: rocce, piccoli arbusti che sembravano pini, qualche picco in lontananza. Forse quello a nordovest era il Cerro Micho. Speravo che potesse fungere da punto di riferimento: secondo i miei calcoli dovevo essere a una decina di chilometri dal Rio Grande, dove avrei trovato l’acqua.
Dopo un paio d’ore di cammino mi sentivo in un mio personale film western. Non ero più un Andrea qualunque, ma un personaggio: il bandito a cui hanno rubato cavallo e borraccia. L’uomo solo che deve passare dalle zone più impervie, covando la nostalgia di una voce amica, di un whisky, di un profumo femminile. Il desperado braccato dai cacciatori di taglie. In fondo il suo desiderio è fuggire in un luogo lontano e mettere su un ranch, ma sa che non sarà facile. No, non sarà per niente facile.
Il bandido, roso dalla sete, punta verso il Rio Grande. Potrebbe cambiare direzione e tornare verso Agua Fria, dove forse troverebbe un riparo per la notte. Ma è troppo rischioso. Non devo farmi prendere. Non mi resta altro che la mia libertà. È una vita sporca, misera, solitaria. Ma è la mia vita. Non me la lascerò strappare via dal primo sceriffo in cerca di gloria.
A pochi passi dal Rio Grande una voce mi coglie di sorpresa.
– Ehi, gringo, stai cercando qualcuno?
Mi volto, lentamente. Sono pronto a combattere.
Ecco. Questo è il mio delirante viaggio di settembre. È tutto vero? È tutto falso? This is the West, sir. When the legend becomes fact, print the legend. Nel west, se la leggenda incontra la storia, vince sempre la leggenda.

HAIKU

Viene la notte –
In fondo all’orto ridono
i fiori d’oro.

 

PS: Questo è il nono  “viaggio immaginario”. Ecco le puntate di gennaiofebbraiomarzo, aprilemaggiogiugnoluglio e agosto.

PPS: La frase «This is the West, sir. When the legend becomes fact, print the legend» proviene dal film The man who shot Liberty Valance, girato da John Ford nel 1962. È un giornalista a pronunciarla, per sottolineare come sui giornali trovi posto il mito del Far West anche quando esso non corrisponde ai fatti. Nella prima parte dell’articolo, cito qualche parola della poesia L’infinito, scritta nel 1819 da Giacomo Leopardi.

PPPS: Colpiti da questa serie di viaggi immaginari, alcuni lettori del blog di viaggi Rolling Pandas hanno voluto approfondire la conoscenza con me. L’intervista si trova qui. Ringrazio Alice e tutti i responsabili del sito Rolling Pandas, che offre la possibilità di organizzare viaggi in tutto il mondo.

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Myself when I am real

Dicono i saggi che l’uomo non abbandona mai l’infanzia. Tutti cresciamo e presto o tardi diventiamo adulti; ma niente si cancella, in questo mondo. Che ne è di quegli anni di giochi, di spensieratezza, d’improvvisi turbamenti?
C’è un momento preciso in cui formuliamo il nostro primo pensiero da adulti. Può capitare a dodici anni, a quindici, certe volte bisogna aspettare i trenta (e anche oltre…). Secondo un’antica leggenda araba, quando per la prima volta pensiamo come un adulto l’infanzia vola via sotto forma di un piccolo uccello colorato. L’uccello se ne va a cercare altri come lui, altre infanzie alate. E finalmente arriva in uno dei luoghi dove abbiamo vissuto da bambini, e dove riecheggiano le grida, i pianti e le risate della nostra giovinezza.
Quando passeggio nel giardino di Villa dei Cedri, a Bellinzona, ho l’impressione che la mia infanzia si trovi proprio lì, sulle fronde degli alberi. Chiudo gli occhi e ascolto il canto degli uccelli. Uno di quei trilli è diverso dagli altri. È un segnale, un richiamo dal profondo della memoria. Se arrivo all’imbrunire, quando il parco è vuoto, gli alberi sembrano venirmi incontro, abbracciarmi. Lecci austeri, magnolie, faggi meditabondi, frassini, palme, querce silenziose, e poi le conifere, che invece sono più ciarliere, i cedri, i cipressi, gli abeti di Douglas, le sequoie.

 

In me nasce allora il desiderio di scrivere, perché le cose rimangano. Non si tratta d’immaginare romanzi ma di esprimere la quotidianità, gli eventi minimi che apparentemente si perdono nel flusso dei giorni. Ho provato a scrivere in questo modo nella raccolta Succede sempre qualcosa (Casagrande 2018), che riunisce reportage, divagazioni, storie di viaggio e anche racconti di pura invenzione. I vari pezzi sono allineati seguendo il corso delle stagioni, nel tentativo di rappresentare alcune parti di me stesso che – se non mi fermo a riflettere – rischiano di sfuggirmi, di sbiadire senza che me ne accorga. La scrittura inoltre mi aiuta, qualche volta almeno, a tenere a bada parti di me più pericolose, che mi spingono all’isolamento, alla malinconia, alla durezza.
C’è una canzone che mi ha ispirato nel comporre Succede sempre qualcosa. È anche un buon riassunto dei miei pensieri durante le passeggiate nel parco, con la mia infanzia che mi svolazza intorno. Il brano s’intitola Myself when I am real e venne suonato al pianoforte da Charles Mingus il 30 luglio 1967. Il pezzo proviene da Mingus plays piano (Impulse 1963), un album anomalo nella carriera di Mingus (1922-79), che fu un grande bassista e compositore. Se aveva già occasionalmente suonato il piano, questa infatti è lunica circostanza in cui possiamo ascoltarlo al pianoforte, da solo, per un intero disco.
Il sottotitolo dell’album, Spontaneous Compositions and Improvisations, indica bene lo stato di assoluta libertà con cui Mingus si mise al pianoforte. Myself when I am real è il brano di apertura (anche se venne suonato alla fine della seduta d’incisione). Più che un brano, sembra un album completo: non solo per la lunghezza (sette minuti e mezzo), ma soprattutto per la varietà di atmosfere. Mingus era un musicista passionale, impetuoso, un uomo senza peli sulla lingua che nel 1971 intitolò la sua autobiografia Beneath the underdog, in italiano Peggio di un bastardo. Ma in questo brano esplora con delicatezza il suo inconscio. Nel flusso dell’improvvisazione mostra differenti aspetti del suo carattere: la forza, il dolore, la rabbia insieme alla felicità e alla tenerezza. Fin dall’inizio si sente una dualità: un motivo a percussione convive con una melodia più eterea e sognante. Nel corso dell’improvvisazione ci sono momenti meditativi (intorno a 1.30) e improvvisi cambi di rotta, come quando a 1.40 entra in scena un ritmo di valzer, mescolato a sonorità spagnoleggianti (1.47). In generale si susseguono passaggi più duri, melodie serene, rallentamenti introspettivi (4.50) e nodi di tensione (6.08). A 6.40 c’è spazio per un’ultima variazione fra impeto e dolcezza, prima dei leggeri tocchi finali, che sembrano una confessione intima bisbigliata all’ascoltatore.

Mingus era un uomo dalla personalità complessa. Spesso si ha l’impressione che ci siano due o più Mingus in perenne dialogo e conflitto. Nessuno lo chiamava Charles o Charlie: era Ming per i musicisti e Mingus per tutti gli altri, compresa sua moglie. La sua autobiografia comincia così: «In other worlds I am three». Infatti nell’album Ah Um (Columbia 1959) c’è un brano intitolato Self-Portrait in Three Colors. Sempre nell’autobiografia, si riferisce a sé stesso con l’espressione «my boy» e poi «my man». Significativo anche il titolo dell’album Mingus Mingus Mingus Mingus Mingus (Impulse 1963).
Senza aspirare a tanta mingusiana molteplicità, posso dire di avere anch’io il mio daffare a gestire i vari Andrea che vogliono prendere la parola o che, più spesso, chiedono un po’ di silenzio. Proprio per questo mi è stato utile comporre Succede sempre qualcosa. Le varie modalità di racconto hanno in comune l’urgenza di una ricerca, di una tensione all’unità dei vari frammenti. L’unità non procede mai per esclusione, ma per una progressiva accoglienza della mia identità multipla. Scrivo romanzi polizieschi e racconti brevi, reportage e divagazioni letterarie; ho la mia età ma cerco di non perdere di vista l’uccello variopinto dell’infanzia. Il fatto di riunire e pubblicare questi trentasei pezzi, scritti nel corso degli ultimi anni, mi ha portato più domande che risposte. Ma questo è normale.
Camminando nel parco di Villa dei Cedri ripenso a me stesso quando sono reale, e mi sembra che il piano di Mingus accompagni la mia passeggiata. L’antropologo francese Pierre Sansot scrisse che «un parco va scoperto passo dopo passo, seguendo il filo dei mattini e delle sere, nel corso delle differenti stagioni. Non è la stessa cosa entrare nel parco seguendo questo o quel sentiero. Inoltre, e soprattutto, siamo in presenza di un viaggio interiore, che ci cambierà nel profondo del nostro essere.»
A qualunque età, questo tipo di viaggio è sempre da ricominciare.

PS: Nei prossimi giorni sono previste tre presentazioni di Succede sempre qualcosa. Saranno occasioni per dialogare sia con i lettori, sia con gli autori Marco Rossari, Mario Chiodetti e Yari Bernasconi. E anche, naturalmente, con i vari Andrea che popolano il libro…
MILANO: domenica 18 novembre, Bookcity, Mare Culturale Urbano (via Giuseppe Gabetti 15), ore 14. Con Marco Rossari.
VARESE: sabato 24 novembre, Galleria Ghiggini 1822 (via Albuzzi 17), ore 17.30. Con Mario Chiodetti.
LUGANO: domenica 25 novembre, LAC, Hall, ore 11. Con Yari Bernasconi.

PPS: Qui sotto, un breve filmato che presenta l’idea su cui è costruito Succede sempre qualcosa.

PPPS: Ecco l’inizio di Peggio di un bastardo, nella traduzione di Stefano Torossi per Marcos y Marcos (1996; a cura di Claudio Galuzzi).
«In altre parole: io sono tre. Il primo sta sempre nel mezzo, senza preoccupazioni ed emozioni; osserva aspettando l’occasione di esprimere quello che vede agli altri due. Il secondo è come un animale spaventato che attacca per paura di essere attaccato. E poi c’è una persona piena d’amore e di gentilezza, che permette agli altri di penetrare nella cella sacra del tempio del suo essere. E si fa insultare, e si fida di tutti, e firma contratti senza leggerli, e si lascia convincere a lavorare sottocosto o gratis. Poi, quando si accorge di quello che gli hanno fatto, gli viene voglia di uccidere e distruggere tutto quello che gli sta intorno, compreso se stesso, per punirsi di essere stato tanto stupido. Ma non ce la fa: e così si rinchiude in sé stesso.»

PPPPS: La citazione di Sansot proviene dal volume Jardins public (Éditions Payot & Rivages 1993; 2003).

 

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