Sono quattro e mezzo del mattino e sto guidando alla periferia della mia città. L’autostrada è deserta. Penso che mancano pochi giorni a Natale e mi dico: dovrai ricordarti di scrivere qualcosa per il tuo blog. È un periodo in cui le parole arrivano con fatica. Non è un problema d’ispirazione. Anzi, nella mia mente è tutto pronto, tutto predisposto al viaggio. Le indicazioni sono chiare, come i segnali stradali e i semafori che cambiano colore apposta per me in questo mattino di metà dicembre. Forse è fin troppo facile? Per raccontare una storia bisogna perdersi in qualche zona di buio, altrimenti non c’è gusto (né per chi scrive, né per chi legge). Ma dentro il buio, a quali segnali affidarsi? Non voglio altre frecce, progetti, direzioni pianificate a tavolino. A rispondermi, sopra il chiacchiericcio dei lampioni, è una luna magnifica, rotonda come una O di meraviglia. L’enigma della luna è la risposta a ogni pagina bianca. Perché tante stelle, perché la luna, si chiedeva Leopardi e mille poeti prima di lui, a partire da quando l’essere umano ebbe coscienza di essere tale. La risposta è nella domanda: la luna serve a chiedersi la ragione della luna stessa. Così come il Natale, comunque lo si voglia intendere, pone una domanda sulle ragioni della luce. Perché l’inverno diminuisce? Perché la speranza, ancora, nonostante tutto? La domanda è inesauribile per tutti. Lo era per i nostri progenitori, lo è per chi festeggiava il Dies natalis solis invicti e per chi celebra il Natale cristiano. Chi crede non esaurisce il mistero della Ragione del mondo che si fa neonato, chi non crede non abbandona lo stupore di fronte alla promessa di un’altra primavera, di un’altra estate che è già qui, dentro questo nero di notte e di asfalto.
Tutto questo per spiegare il motivo per cui quest’anno non ho preparato niente sul Natale, tranne queste due parole improvvisate nel pomeriggio della vigilia. Quest’anno in compenso Yari Bernasconi & Andrea Fazioli hanno scritto una piccola storia natalizia: lo trovate qui. I due avevano perpetrato una faccenda simile già l’anno scorso, con una plaquette intitolata Manca poco a Natale (Gabriele Capelli), da cui estraggo un frammento che pongo come suggello e come augurio.
E poi ricordati, se puoi, di questa nebbia silenziosa, che avanza fra gli usci e le finestre, appanna i vetri ancora addormentati dietro verdi persiane: non si è accorta di te, che sei già sveglio ma con occhi diversi, fissi sul vecchio triciclo, la ruggine delle ruote e dei freni. Anche questo può essere Natale: un Natale che tace e che non sibila.
Alle lettrici e ai lettori di questo blog giunga l’augurio di buon Natale, sia da parte mia sia da parte di Yari Bernasconi & Andrea Fazioli. A presto!
PS: Sempre di YB & AF, in febbraio uscirà un volumetto per Gabriele Capelli. S’intitola Non importa dove ed è una piccola rassegna di cartoline.
PPS: Il racconto Guglielmo nella steppa fa parte del progetto “Un Natale di storie a Mendrisio”. Trovate tutte le informazioni su tale progetto (e sul libro che lo accompagna) a questo indirizzo.
PPPS: Nella rubrica “Colpo critico”, una volta al mese pubblico sul settimanale “Azione” un articolo dedicato ai giochi da tavolo e di ruolo. È appena uscito uno speciale natalizio, che trovate qui.
PPPPS: Le parole escono a fatica, ma piano piano si compongono. Se tutto va bene, nel mese di gennaio o febbraio dovrei concludere due lavori che mi tengono impegnato da anni. Poi forse tornerò a dedicarmi a questo blog con maggiore assiduità.
Siamo io e lui. Come sempre. Io pedalo controvento, ai margini dei campi, mentre lui scivola al mio fianco, leggero, leggerissimo, come io non sarò mai. Io tendo i muscoli, sudo, respiro l’aria fredda con la bocca. E lui? L’Andrea d’ombra è un pensiero di sfuggita, una rapina. Fugace come il dito di un illusionista. La terra è chiusa nell’inverno, con il promemoria di qualche ciuffo d’erba color verde sciupato. Ma l’Andrea d’ombra non sente la terra, la sfiora appena.
Vedi, le crepe fra le zolle somigliano alle mie domande. Sciocchezze, bisbiglia l’Andrea d’ombra. Un anno è andato, bene o male. C’è stato il male, sì. La fine di questo e di quello, e le persone in fuga e gli strappi e le ferite della morte, un colpo alla volta. E guerre. E sangue. Non fermarti, mormora l’Andrea d’ombra. Hai avuto anche la felicità, la resistenza. Se lo dici tu. Ma sì, occhi sgranati, castagne d’India in un cortile, pane, alberi, cuscini sprimacciati, l’incanto e le parole… Ma che stai dicendo? Non ti fidi. Come potrei? Sei ombra, senza ferite. Non è vero: custodisco le tue. E so che tutto quello che ti serve, ora, è questa strada di campagna, con l’asfalto un poco sconnesso, questo indugio del sole nel tardo pomeriggio.
Come ogni vigilia di Natale, io e l’Andrea d’ombra facciamo il punto della situazione. Come sempre mi lamento per i progetti incompiuti, per le pagine scritte che non sono come vorrei. E per fortuna, dice lui. Poi mi chiede: non sei contento di quel libretto? Quale libretto? Ma sì: Manca poco a Natale, appena pubblicato da Gabriele Capelli. Ma quello non è opera mia, rispondo. Come no? Dice: illustrato da Antoine Déprez, scritto da Yari Bernasconi & Andrea Fazioli. Appunto. Yari Bernasconi & Andrea Fazioli sono un’entità indipendente, diversa sia da Yari Bernasconi, sia da Andrea Fazioli, sia dallo Yari d’ombra, sia dall’Andrea d’ombra. E non dimenticare Yari Bernasconi & Andrea Fazioli d’ombra. Sì, hai ragione. Anche la & può essere una & d’ombra. Insomma, siamo una mezza dozzina. Solo gli autori. Ma se aggiungi anche i personaggi… Basta, basta, ho capito. Ogni libro nasconde una folla. E anche una follia… Così, mentre la bicicletta sfreccia, io e l’Andrea d’ombra passiamo il tempo fra battibecchi e pessimi giochi di parole. Cose minuscole. In una poesia del libretto ci sono queste parole: «“Anche le cose più comuni / sono straordinarie” diceva mio nonno / con gli occhi, camminando». Il Natale è anche questo, semplicemente: un gesto d’attenzione. La vastità mutata in piccolezza, l’intuizione che le cose banali covano in sé la meraviglia. Il prodigio è il mondo che ogni mattina si presenta come nuovo, nonostante tutto. «Quello che ci rende possibile continuare a vivere è il costante inizio», scrisse Romano Guardini. Il «nuovo» si presenta ogni giorno «con ogni compito e incontro; con ogni dolore e ogni gioia». Spesso noi «intendiamo per nuovo quanto ci eccita. Solo di rado siamo pronti ad avvertire il nuovo in quel che è piccolo e sommesso». Anche la letteratura è un fermento di cose banali che diventano necessarie, che rivelano sé stesse (e noi che scriviamo, che leggiamo). In una lirica di Manca poco a Natale appare un personaggio – idealmente un ragazzino – che affida il dopopranzo natalizio all’immaginazione.
E quando inizia a voltare le pagine oltre il brusio del pranzo e dei parenti, dal suo angolo discosto, l’orizzonte perde i contorni. Come gli gnomi, adesso, cavalca i cinghiali e soccorre le volpi, siede guardingo con i gufi sull’orlo della notte, attendendo l’oscurità di quelle valli boscose che cercano un nome.
Il desiderio di un Natale «piccolo e sommesso» ha guidato Yari Bernasconi & Andrea Fazioli nella stesura dei testi lirici che compongono il libretto. E questo è anche l’augurio mio (e di tutta la mezza dozzina di autori) per questo Natale: che sia piccolo e silenzioso, ma promettente. Come una serie di tracce sulla neve che portano a un rifugio, a un calore. Buon Natale!
PS: Il libretto Manca poco a Natale è stato stampato in edizione limitata a 500 esemplari, di cui circa 330 in commercio. Non so se sia ancora disponibile. Per informazioni, potete scrivere a gabrielecapellieditore@gmail.com.
PPS: Le parole di Romano Guardini sono tratte da Nähe des Herrn. Betrachtungen über Advent, Weihnachten, Jahreswende und Epiphanie, TOPOS-Taschenbuch, Matthias Grünewald Verlag, Mainz, 1992, traduzione italiana di Giulio Colombi in Natale e Capodanno, Morcelliana, Brescia 1995.
Circa duemilasettecento anni fa un soldato greco si trovò a combattere contro i Sai, un popolo della Tracia. Questo soldato si chiamava Archiloco ed era nato a Paro, nell’arcipelago delle Cicladi, ma poi si era trasferito a nord, nell’isola di Taso. Qualcuno dice che suo padre fosse un nobile e sua madre una schiava. Altri raccontano che in gioventù, mentre viaggiava di notte con una vacca da vendere al mercato, Archiloco si sarebbe imbattuto in un gruppo di fanciulle che tornavano dai campi. Dopo qualche battuta scherzosa le fanciulle si dileguarono, e con loro anche la vacca. Invece del bovino il ragazzo avrebbe trovato uno strumento musicale: una lira deposta sull’erba. Che pensare? Di certo le ragazze erano le Muse e la lira un invito a diventare poeta. Archiloco dunque affinò la pratica delle armi insieme a quella delle parole. Non era incline a descrivere la guerra in maniera epica, ma preferiva mettere l’accento sui dettagli della vita quotidiana: «La lancia mi dà il pane, mi dà il vino la lancia, / questo vino che bevo appoggiato alla lancia».
Un giorno, lottando contro i Sai, Archiloco se la vide brutta. Nel trambusto fu costretto a nascondersi e poi a fuggire. Per non rischiare di venire catturato, abbandonò il suo scudo. Alla fine riuscì a salvarsi e lo scudo, probabilmente, venne rubato da uno dei Sai. Non era un’azione di cui vantarsi. Allora come oggi, il destino degli eroi era quello di morire di morte eroica. Le donne spartane invitavano i loro figli a tornare o con lo scudo (e quindi vittoriosi) o sopra lo scudo (e quindi morti), ma in nessun caso senza scudo. La parola ῥίψασπις, che significa “persona che getta lo scudo e fugge dalla battaglia” non era certo un complimento. Eppure fu lo stesso Archiloco a raccontare la sua avventura in quattro versi che divennero celebri.
Sono due distici elegiaci, formati da un esametro e un pentametro, entrambi dattilici (qui potete ascoltare come suonano). All’inizio del primo distico nomina subito lo scudo (Ἄσπίδι), mentre all’inizio del secondo nomina nomina sé stesso (αὐτὸν). In questo modo mette in evidenza l’antitesi fra lo scudo (perso) e la vita (salvata). Nella traduzione ho cercato di rendere questa opposizione, creando un contrasto fra il primo e il terzo verso. Ho messo inoltre in evidenza l’io poetico che, in spregio alla retorica guerresca, preferisce scampare a una morte gloriosa.
Ho lasciato lo scudo fra i cespugli, a malincuore, un’arma senza macchia. Se ne vanta un soldato dei Sai, ma io ho salvato la vita. E che m’importa dello scudo? Vada in malora! Ne prenderò un altro e non sarà peggiore.
Gli studiosi divergono sul significato di questi versi. In genere si pensa che Archiloco abbia voluto sottolineare l’importanza della salvezza, che vale più del codice d’onore militare. Alcuni tuttavia sottolineano la rabbia per avere perso lo scudo e, nell’ultimo verso, mettono in risalto la volontà di rivalsa. In ogni caso, dopo Archiloco, altri poeti ripresero il tema dello scudo abbandonato (Alceo e Anacreonte fra i greci, Orazio fra i latini).
Oggi è il mio compleanno. Non so bene perché proprio oggi abbia ripensato a questo classico, che dormiva negli archivi polverosi della mia mente. Comunque ho notato due cose. Primo: è vero che abbandonando lo scudo si fugge dal nemico, ma nello stesso tempo si è più esposti. Secondo: imparare a combattere senza scudo può essere il segreto per togliersi d’impiccio. Mi è capitato di abbandonare numerosi scudi, lo confesso. Ma non ho avuto l’impressione di fuggire: anzi, senza schermi la mia percezione si è affinata. Ho scoperto che l’unico modo per essere davvero nel mondo, per essere qui e ora, è accettare di essere vunerabili. Non amo voltarmi indietro a guardare i cespugli del passato, ma il giorno del proprio compleanno come si fa a evitarlo? Quante armature complete e corazze di piastra ho tentato d’indossare in tutti questi anni. E quanta fatica per capire come fronteggiare i nemici senza protezione: bisogna allenare l’arte della parata e della schivata, bisogna tenere le orecchie e gli occhi aperti, sopportare le ferite e, quando necessario, fuggire. Ci vuole coraggio. Chi l’ha mai detto che si debba vincere combattendo fra gli eserciti che invadono le pianure? Certe battaglie vanno risolte in montagna, nel silenzio, con l’arma della pazienza. Quando sono lassù mi rendo conto di essere il peggior nemico di me stesso. Come raggiungere la salvezza? Non certo grazie al mio sforzo, che mi porterebbe ad appesantirmi con gli scudi e le piastre di ferro. È facile accorgermi del male che abita dentro di me. Più difficile è avvistare il bene, che si presenta all’improvviso, in maniera gratuita e sorprendente. Arriva sempre dagli altri, dagli incontri, dagli scambi. Non si può costringere in una definizione. È un momento di grazia.
PS: A proposito di grazia. Di solito il giorno del mio compleanno condivido con i lettori di questo blog un racconto inedito. Quest’anno propongo una breve storia intitolata proprio Grazia e scritta l’anno scorso per Rete 2, il canale culturale della radio svizzera (RSI). Il progetto “I nuovi sillabari”, a cura di Sandra Sain, è un omaggio a Goffredo Parise: 20 autrici e autori svizzeri di lingua italiana hanno immaginato un testo ispirato a una singola parola, come fece Parise nei suoi Sillabari. A me è toccata la parola “grazia”
PPS: Tradizionalmente, riepilogo anche alcune pubblicazioni uscite nell’ultimo anno. Per prima cosa segnalo Le strade oscure, pubblicato da Guanda. Qui sotto vedete il “booktrailer”. Poi sono uscite alcune traduzioni in tedesco: In Zürich auf dem Mond per Limmatverlag (A Zurigo sulla luna, scritto con Yari Bernasconi e pubblicato da Capelli nel 2021); Tod in den Bergen per Btb Verlag – Randomhouse (Gli Svizzeri muoiono felici, Guanda 2018), Wachtmeister Studers Ferien per Atlantis Verlag (Le vacanze di Studer, scritto con Friedrich Glauser, Casagrande 2020); Damals im Tessin per Atlantis Verlag (L’uomo senza casa, Guanda 2018, già tradotto da Btb con il titolo di Am Grund des Sees nel 2009). Una traduzione in lettone: Kalnu Klusumus per Latvijas Mediji (La sparizione, Guanda 2010). In allegato al “Corriere della Sera” è uscita una riedizione de L’arte del fallimento, nella collana “Noir. Il lato oscuro delle cose”, a cura di Carlo Lucarelli.
Per quanto riguarda i progetti in corso, mi limito a dire che sto lavorando a un saggio-romanzo e a un paio di racconti per delle antologie; inoltre sto riordinando le prose brevi che ho scritto nel corso degli anni. Sto lavorando anche insieme a Yari Bernasconi: abbiamo diversi progetti in cantiere. Infine, è uscito il film di Fabio Pellegrinelli La tentazione di esistere, prodotto da Rough Cat. Con Marco Pagani e lo stesso Pellegrinelli ho scritto il copione e la sceneggiatura. Qui sotto potete vedere il trailer.
PPPS: Per questo articolo ho tradotto due frammenti di Archiloco rispolverando il mio greco antico (un po’ rugginoso, ormai). Il primo, quello che parla della lancia, è pure un distico elegiaco. Ecco il testo originale: Ἐν δορὶ μέν μοι μᾶζα μεμαγμένη, ἐν δορὶ δ’οἶνος / Ἰσμαρικὸς, πίνω δ’ἐν δορὶ κεκλιμένος. Su Archiloco ho consultato i seguenti volumi: Archiloco, Frammenti, con un saggio di Bruno Gentili, traduzione e cura di Nicoletta Russello, Rizzoli, Milano 1993; AAVV, Lirici greci dell’età arcaica, a cura di Enzo Mandruzzato, Rizzoli, Milano 1994; Massimiliano Ornaghi, La lira, la vacca e le donne insolenti, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2009; Maria Chiara Martinelli, Gli strumenti del poeta: elementi di metrica greca, Cappelli, Bologna 1997. È curiosa, fra le varie traduzioni del frammento sullo scudo, quella che fece Giuseppe Fraccaroli all’inizio del XX secolo, cercando di ricreare nei versi italiani gli accenti della metrica latina. Si trova in G. Fraccaroli, I lirici greci: elegia e giambo, vol. 1, Bocca, Torino 1910.
Povero scudo! non so – chi de’ Sai se n’adorni: alla macchia, splendido arnese, io l’ho – proprio dovuto buttar… Ci ho guadagnato, però, – la pelle. E che al diavolo vada quello scudo! N’avrò – presto uno ancora miglior!
PPPPS: La prima fotografia è di dominio pubblico: è il ritratto di un guerriero accovacciato con uno scudo e risale al 560 a. C. (Archiloco visse intorno al 650 a. C, ma non ho trovato scudi di quell’epoca). La seconda ritrae una Genziana primaticcia (Gentiana verna), uno dei primi fiori a sbocciare dopo l’inverno; cresce fino a tremilacinquecento metri di quota e pure oltre. L’ho fotografata sull’altopiano della Greina, in Svizzera, fra il canton Ticino e il canton Grigioni. Credo che anche questa genziana, come il poeta soldato Archiloco, conosca bene l’arte della sopravvivenza.
Mi capita a volte di pensare ad animali che non esistono. Per anni ho buttato giù appunti su queste bestie immaginarie. Mi sono appassionato all’argomento, ho letto bestiari medievali e bestiari moderni. Piano piano ho scritto delle prose, poi molte le ho abbandonate, altre le ho corrette e riviste, altre ancora le ho perse e ritrovate. Alcune sono finite nel romanzo Le strade oscure (Guanda).
Da sempre gli scrittori affidano agli animali le parole che non riescono a dire. Nelle mie ricerche sono partito da antichi testi cinesi ed ebraici e dalla stessa Bibbia, che contiene molti animali fantastici. Poi mi sono soffermato sul Fisiologo, che è il bestiario occidentale più antico, composto in greco ad Alessandria nel II secolo. Nella loro ingenuità, i vecchi bestiari possono suscitare commozione. «C’è un uccello chiamato upupa – dice il Fisiologo. – I figli, quando vedono i genitori invecchiati, strappano le loro vecchie ali e leccano i loro occhi, li riscaldano sotto le loro ali e li covano e questi ridiventano giovani; allora dicono ai loro genitori: “Voi ci avete covati e avete faticato per allevarci; anche noi abbiamo fatto lo stesso con voi”.» Oltre alla tenerezza delle cure, stupisce questa infanzia rinata nell’estrema vecchiezza. Curioso come proprio questo uccello sia stato in seguito, come ebbe a dire Eugenio Montale, «calunniato dai poeti». Foscolo lo rappresenta come un’«immonda» creatura che svolazza fra le tombe e Parini l’annovera fra i «mostri avversi al sole». Montale invece è più vicino al Fisiologo, quando definisce l’upupa un «ilare uccello» e un «nunzio primaverile», celebrandone la vitalità: «per te il tempo s’arresta / non muore più febbraio».
Anche nei migliori bestiari del Novecento gli animali esprimono la drammaticità e la grazia della vita umana. Federigo Tozzi, per esempio, con le sue Bestie (1917) compone una serie di prose brevi dove compare sempre un animale, come clausola misteriosa. Così l’autore racconta il suo ritorno a casa in una notte stellata: «E tutta la bellezza della sera vorrebbe entrare dopo di me; e spinge in qua l’uscio, sì che duro fatica a rinchiuderlo. Perché la gatta miagola e si spenzola dalla grondaia?» Il brano finisce qui, con il fremito dell’animale che rappresenta la segreta tensione dell’uomo. In questo caso sono animali reali, come l’upupa e la gatta, usati però al servizio dell’immaginazione. Ma nei bestiari appaiono anche veri e propri animali immaginari, come le «particelle grammaticali» di Ermanno Cavazzoni: «I laonde, i per cui, i costà appartengono alla categoria degli insetti e ronzano intorno alla testa del poeta sotto ispirazione». Oppure pensiamo al Manuale di zoologia fantastica, in cui Jorge Luis Borges e Margarita Guerrero annotano le caratteristiche di molte creature interessanti, fra le quali il Goofus Bird, «uccello che costruisce il nido a rovescio e vola all’indietro, perché non gli importa del posto dove va, ma di quello dove stava».
Nel romanzo Le strade oscure appaiono animali tratti dai bestiari antichi e da quelli moderni. Ma le prose specificamente dedicate a queste invenzioni, sebbene partano dalle figurazioni medievali, si sviluppano in maniera indipendente. Ecco un esempio.
Avrai sentito parlare del grizzly. È uno degli orsi più grandi che ci siano al mondo. Ho letto di un esemplare che pesava ben 680 chilogrammi. Poi c’è il cosiddetto «orso grolare», che è ancora più grosso ed è un incrocio fra un grizzly e un orso polare. Pochi invece conoscono l’esistenza del grilly. È altrettanto grande e pericoloso, ma non ha denti né unghie. Per dirla tutta non ha nemmeno pelo, grasso, ossa, nervi o muscoli. Il grilly non si può toccare, non si può vedere. È qualcosa che percorre le strade nei pomeriggi assolati dei weekend. Le madri preparano l’insalata di patate, i padri accendono la carbonella. I bambini giocano dentro una piscina azzurra. I nonni o gli zii bevono un bicchiere di bianco. L’uomo che cammina cade facilmente nell’agguato. La stretta poderosa del grilly lo cattura all’improvviso: egli allora pensa a quanto sia lontano dai suoi cari e si perde nella nuvola odorosa di carne, birra, famiglie felici, risate, persone che sanno stare tranquille. L’uomo, tra le zampe della bestia, è disperatamente solo. È possibile sconfiggere un grilly? Sì, ma bisogna essere molto coraggiosi. E anche molto fortunati.
Prima di chiudere vorrei fare un altro esempio, per illustrare la genesi di un altro animale immaginario che si trova nel romanzo. Spesso, quando guardo il cielo, mi capita di vedere draghi. Molte persone riconoscono forme nelle nuvole: uomini, donne, cose, bestie, magari anche creature più oniriche e bizzarre. È quasi inevitabile. Gli animali, del resto, non appaiono soltanto nelle nuvole, ma si nascondono ovunque: ricordo un passo di Moby Dick in cui Melville accenna alle balene intraviste in un profilo di montagna. Da quando lo lessi per la prima volta, anch’io ho avvistato parecchi di questi inafferrabili “cetacei di montagna”. Tornando al cielo, in un primo momento mi venne in mente di scrivere una piccola prosa dedicata alla “nuvola-drago”. Ma mi sembrava troppo banale, troppo ancorata a un semplice esercizio di fantasia. Voglio dire, nella mia vita avevo conosciuto molte nuvole-drago (e ogni estate ne scopro di nuove), ma non mi sembravano un vero e proprio animale immaginario come lo sniek, il buiardo, il segretolo, l’erkraidguyok, la fogliassera, il ciottolicchio, la pulciottera e tutti gli altri che riempivano le pagine del mio taccuino (quelli appena citati, in particolare, sono finiti anche nel romanzo). Alla fine compresi che il drago doveva apparire diverso: non una nuvola che si staglia nel cielo, ma una creatura più profonda, più vasta, più indecifrabile, proprio come il cielo stesso.
Nella vita di tutti noi ci sono molti draghi. Quelli più remoti, che risalgono alle fiabe ascoltate da bambini, quelli impalpabili che cerchiamo nelle costellazioni o nella forma delle nuvole, quelli che incontriamo nei libri, nei dipinti, nelle sculture. Ci sono draghi che s’insinuano di notte nei nostri sogni, altri a cui diamo nomi diversi: dinosauri, serpentoni, mostri, chimere. Ma il drago più grande è il cielo. O meglio, non il vero cielo, ma una creatura che gli si pone davanti, dello stesso colore, della stessa sostanza. È un animale mimetico, in grado di assumere la forma celeste tanto da ingannare chiunque. Per individuarlo bisogna sdraiarsi su un prato, in un pomeriggio estivo, e contemplare a lungo l’azzurro. Allora capiterà di sorprendere un movimento furtivo, un colpo d’ala o uno sbuffo di fumo. Per un attimo sarà come vedere un cielo adagiato contro il cielo. Quando poi il drago volerà via, la profondità sopra di noi sembrerà ancora più vasta, più misteriosa. A che cosa serve, ti chiederai, questo drago tanto difficile da reperire? È semplice: serve a guardare meglio il cielo.
PS: Approfitto di questo articolo che prende spunto da Le strade oscure per annunciare ai lettori di questo blog che il romanzo è stato scelto nella cinquina dei finalisti al Premio Scerbanenco 2022, in seguito alla selezione della giuria e al voto del pubblico; a questo proposito, ringrazio di cuore tutte le persone che hanno votato per il romanzo.
PPS: Avevo già approfondito qui alcuni aspetti della genesi del romanzo. E avevo già parlato degli animali immaginari in un articolo apparso su “Il Libraio”.
PPPS: Ecco un elenco dei testi che ho citato nell’articolo: AAVV, Bestiari tardoantichi e medievali, a cura di Francesco Zambon, Bompiani 2018; Foscolo, “I sepolcri”, in Sepolcri Odi Sonetti, Mondadori 1987; Parini, “La Notte”, in Il Giorno, Mondadori 1986; Ermanno Cavazzoni, Guida agli animali fantastici, Guanda 2011; Jorge Luis Borges e Margarita Guerrero, Manual de zoología fantástica, 1957, Manuale di zoologia fantastica, trad. di Franco Lucentini, nuova edizione a cura di Glauco Felci, Einaudi 1998; Federigo Tozzi, Bestie, in Opere, Mondadori 1987. Non ho citato esplicitamente il passo di Moby Dick (ve lo lascio cercare, se volete, com’è giusto che si faccia con le balene); comunque, se l’avessi fatto, sarebbe stato nella traduzione di Cesare Pavese pubblicata da Adelphi.
LIBRI IMPOSSIBILI (GENNAIO) #libriimpossibili2021 è un progetto ideato e scritto da Yari Bernasconi e Andrea Fazioli
Naomi E. Taro, Notizie da Kokovoko, a cura di Silvio D’Alessio, Ed. Nuove Poetiche, 2020, 129 pagine
Dal risvolto di copertina «[…] non poteva che essere una voce poetica femminile quella di una terra che sta scomparendo, Nuatambu, novella “isola che non c’è” di un mondo che cambia troppo in fretta. […]»
Naomi Elisabeth Taro nasce a Nuatambu (Isole Salomone) nel 1972. Durante l’infanzia, si trasferisce con la famiglia negli Stati Uniti, prima in Texas e poi nello Utah. Laureata in letteratura inglese, vive oggi in Canada con il marito, l’artista plastico Nick Glove. Insegna come libera docente all’Università di Toronto. Esordisce giovanissima, nel 1992, con due plaquette autoprodotte, a cui seguono le raccolte poetiche A Wednesday’s Afternoon (1995), Looking for Queequeg (2000), Diagnostics (2007), Two Winter’s Tales (2014) e Reports from Kokovoko (2018), quest’ultima tradotta in italiano da Silvio D’Alessio nel 2020.
Tre domande all’autrice
YB+AF: Diciotto anni dopo Looking for Queequeg, un altro libro che prende esplicitamente spunto da Moby Dick. Perché? Quale è l’attualità dell’opera di Herman Melville? NT: Non è questione di attualità: Moby Dick attraversa le epoche. E non smetterà di farlo finché ci saranno umani sulla terra. Non è solo un libro, è un universo coeso in cui si può trovare quasi qualunque cosa. Abbiamo tutti un libro feticcio, con cui intratteniamo un rapporto speciale. Per me è Moby Dick. Lo rileggo ogni anno. Che due miei libri siano nati da quelle pagine non ha nulla di programmatico: è semplicemente successo. E non poteva andare diversamente.
YB+AF: Kokovoko è un luogo letterario, un’isola inventata appunto da Melville, che afferma: «Non è segnata in nessuna carta: i posti veri non lo sono mai». Ma nel suo libro si è anche subito trasportati sulla sua isola natale, Nuatambu, che purtroppo sta scomparendo sotto le acque, diventando paradossalmente una sorta di nuova Kokovoko. Quanto incide la geografia delle sue origini nella sua scrittura? NT: Ho trascorso i miei primi anni di vita a Nuatambu. Sono sempre stata legata alle mie origini e all’inizio degli anni Novanta sono tornata ad abitare lì per qualche anno. Già allora la situazione stava diventando drammatica. Ma quando sono tornata di nuovo, nel 2016, mi sono sentita morire. Oggi la superficie è più che dimezzata. La casa dove sono nata è scomparsa, come quella di molti miei parenti. Gli abitanti vengono trasferiti nelle zone più elevate o in altre isole. Il riscaldamento globale, accentuato da cause antropiche, sta segnando il destino delle Isole Salomone. Nuatambu sparirà dalle carte, ma occorre preservare la sua essenza, il suo spirito. I posti veri non sono segnati sulle carte perché la geografia esterna è solo un riflesso di quella interna. Questa geografia interna è la ferita da cui ha origine la mia scrittura.
YB+AF: In Notizie da Kokovoko il racconto della vicenda di Nuatambu s’intreccia con una riflessione più intima. L’io poetico si presenta come «sommerso», mentre la poesia è «canto residuo di balene ventre buio dell’abbandono / sogno popolato di allarmi». NT: Ma l’isola è inscindibile dalla mia intimità. È parte del mio io e lo si nota anche dalla citazione a cui fate riferimento, che di fianco a «sommerso» dice: «animato dalle invisibili profondità delle acque». Ci tengo molto, perché non voglio scrivere poesie memoriali. Voglio scrivere poesie della vita. Quella che resta, che si evolve. La poesia è una voce multipla, percorsa da suoni del passato e del presente. Sogni individuali e collettivi.
(Ringraziamo Silvio D’Alessio per averci messo in contatto con Naomi Taro e per aver tradotto questa breve conversazione).
Due estratti dal libro (clicca qui per leggerli in pdf, in una veste graficamente più curata)
siamo qui con i volti scuri come bandiere / siamo i morti di Nuatambu che tornano a ispezionare il paese di coralli e le navi bianche / e l’uomo con le pinne (al sole è meraviglioso fare snorkeling) incontra gli occhi aperti degli antenati / anch’io dagli abissi ti chiamo / il professore riunisce gli abitanti mostra il destino in slow motion / anch’io dal profondo imploro una voce una tregua nella fuga – quanti anni, professore? quanto manca?
*
la bambina non piange mai quando scende il buio / la sabbia il cielo e i riflessi già trascorsi nell’orizzonte mobile che si spalanca / quante volte ancora il tuo cielo sarà il mio specchio la mia luce la mia fine / se mi senti non cercarmi ma lasciami andare / la plastica delle confezioni del discount vicino alle lattine sembra cuocere al sole
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NB: Per questioni meramente giuridiche (legate ai diritti editoriali dell’opera), non siamo purtroppo autorizzati a pubblicare in questa sede la copertina del libro. Vi invitiamo a cercare il volume nelle librerie o nelle biblioteche.