Pourquoi ici?

#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.

Tutto si fa distante, certe volte. Si comincia a dubitare di un dettaglio e all’improvviso manca il terreno sotto i piedi. Non è necessario che ci siano cause scatenanti evidenti o spettacolari: basta un secondo d’inspiegabile vuoto. Una minuscola goccia di buio.
È quello che mi succede oggi a Paradeplatz. Arriviamo a piedi dalla stazione, come al solito. È pomeriggio, l’una e una manciata di minuti, e ci accoglie un’ampia luce bianca. Accenno una battuta ad Andrea a proposito di un signore spaparacchiato su una panchina. Sembra il sosia perfetto di Bukowski. Sorrido, ma non sono a mio agio.
Quando ci sediamo e prendiamo i taccuini, sento sorgere un certo avvilimento. Restiamo lunghi minuti in silenzio e io non so più per quale motivo siamo lì, in mezzo a gente che sa con esattezza cosa sta facendo, e se non lo sa può vantarsi di non saperlo. Io sono solo confuso e insicuro. Vedo Andrea con la coda dell’occhio e ho l’impressione che anche lui, a dispetto dello sguardo che si posa sulla piazza, sia in realtà altrove. Evito di parlargliene. Rileggo la poesia che abbiamo portato con noi:

Io e il mio io
nello stesso scontro.
Gli dico:
non cedere allo sconforto
no, risponde,
speranza è cavalli bradi
mai calmi
mai stanchi
e nitriscono sempre.

È di un autore siriano, Faraj Bayrakdar. È stato in prigione, per anni e anni non ha potuto scrivere e si è così costruito una biblioteca personale nella memoria. Certo, mi dico ingiustamente, tutto così calzante, così perfetto! Versi che senza mezzi termini ci suggeriscono di non lasciarci addomesticare, di non addormentarci, di non stancarci di fare sentire la nostra voce. Bene, fantastico, continuo a pensare, ma quale voce? Il cavallo nitrisce per natura, è la sua unica voce, non può far altro. Ma noi? Noi possiamo scegliere e questo complica le cose: come dire qualcosa? E poi perché? Sono a Paradeplatz ma potrei essere in qualsiasi altro luogo, perché non trovo alcuno spunto valido e costruttivo. Sono stanco. Cresce il timore che la risposta da dare sia la più ovvia, e cioè che la nostra presenza a Paradeplatz è inutile e abbastanza ridicola, anche se nessuno ce lo dirà mai con queste parole.
Allora mi alzo. Mi viene in mente che stamattina, curiosamente, al posto delle lenti a contatto ho optato per gli occhiali. Mi dirigo in mezzo alla piazza e li tolgo. Oscilla tutto: non colgo i visi dei passanti, lo stile dei vestiti, i dettagli verso cui rivolgo in genere la mia attenzione. Eppure mi accorgo presto che non ci sono soltanto presenze vaghe, ma anche movimenti sinuosi, per lo più illeggibili ma con una loro armonia. Riconosco il blu dei tram, ma chi scende e chi sale è una sorprendente scia colorata che si sfalda, si ricompone, si perde.
In quel mondo incompiuto e solo suggerito, fuori fuoco, mi sento subito meglio. Persino meno solo.

[YB]

*

Eccoci, seduti uno di fianco all’altro. Entrambi con gli occhiali, entrambi con gli occhi cerchiati di sonno. Per ragioni diverse, la notte scorsa abbiamo dormito poco (fra tutti e due, meno di dieci ore). Dormire in Paradeplatz? Per un attimo il pensiero mi sfiora, poi capisco che qui è tutto troppo chiaro, troppo abbagliante. Mi sembra che ci sia più sole del consueto forse per via di questo vento secco e caldo, che spazza il cielo e porta con sé un vago odore di bruciato.
Saranno i freni dei tram, penso, e apro il taccuino. Cerco una pagina nuova. Scrivo: odore freni tram. Ma il candore della pagina mi ferisce gli occhi. Perché tutto questo chiarore? Perché tutti vestono di bianco? Faccio una verifica, dandomi un tempo di trenta secondi: intorno a me conto nove camicie bianche. Mentre cerco di arrivare a dieci, vengo distratto da un’apparizione. Di fronte a noi, maestosamente incede una giovane madre con una carrozzina: roseo il vestito così come le scarpe, lieve il sorriso, sereno lo sguardo. Dopo qualche secondo svanisce nel sole. Nel frattempo, di fianco a Yari si è seduta una coppia: lui e lei, abbracciati stretti, sospesi fra il desiderio di baciarsi perdutamente (un minuto) e fra quello di guardare un video sul cellulare (cinque minuti).
Leggo la poesia di Faraj Bayrakdar. Trovo la parola أمل [ʾamal], “speranza”, e la parola صهيل [ṣahil], “nitrito”: i segni scritti suscitano un’immagine – cavalli bradi, spazio vasto e senza confini – che può rendere prezioso ogni fatto marginale, ogni minuto passato a sbadigliare in Paradeplatz. Certo: la speranza. Il problema è che a volte, nel momento stesso in cui la nomino, la mia povera speranza rientra in sé stessa, perde la vitalità dei cavalli e dei nitriti, resta una parola. Solo un’altra parola da mettere nel taccuino: speranza. Come una farfalla infilzata.
Quale speranza trovo, in questo giorno di fine agosto, per me, per la mia vita e il mio lavoro? E per Yari? E per tutti i passanti con le loro camicie bianche, i loro baci, i loro passeggini? C’è una forma di speranza che possa placare la lotta che ognuno di noi, nascostamente, combatte contro sé stesso? In un’altra lirica, Bayrakdar scrive: «Unitevi, / uccelli delle domande. / Nitrite, / limiti del possibile. / Perché un barlume / nella disperazione / basta / a iniziare l’azzurro / a innescare le risposte.» Di nuovo, al confine di ciò che sembra inevitabile, risuona un nitrito. Ma come negoziare un po’ di azzurro in un giovedì pomeriggio di agosto, con questo vento caldo, la stanchezza, la sfiducia verso ciò che stiamo facendo?
Sulle fiancate dei tram appaiono pubblicità di centri wellness, dolciumi, cibo per animali domestici. Torna la mamma rosavestita, quando ormai pensavo fosse da tempo volata via nel sole. Invece, nel momento in cui prova a partire davvero, qualcosa si frappone fra lei e il suo destino: la porta del tram sta per chiudersi, a carrozzina si piega… immediatamente, e senza che nessuno dischiuda le labbra per dire una parola, due, tre, quattro persone intervengono e aiutano la rosea madre a salire sul tram.

Passa una macchina pulitrice. Si ferma, ne scende un uomo con una divisa arancione. Afferra una scopa di saggina. Poi spazza la sporcizia da sotto la pensilina, spingendola verso l’esterno. Le persone sedute ad aspettare il tram alzano entrambi i piedi, perché l’uomo possa allungare la scopa. Infine, l’uomo si mette al volante della macchina e risucchia ogni cosa: mozziconi di sigarette, lattine vuote, cartacce. Sul fianco della macchina c’è una scritta: Damit es in der Stadt so schön ist wie zuhause. Mi colpisce l’idea che stare qui sia come stare a casa.
Fra i vari libri che Yari e io abbiamo con noi, c’è anche un racconto per bambini tradotto in francese dal norvegese. S’intitola Pourquoi ici?. Nell’ultima pagina, il giovane protagonista sviluppa una riflessione: «Tutto avrebbe potuto essere totalmente diverso se fossi stato altrove. Perché sono nato io, e non qualcun altro? E perché sono precisamente qui? Ma forse io sono la mia casa. In questo caso, non importa dove mi trovi: dappertutto sono a casa mia.» Magari è questo il senso del nostro tornare qui mese dopo mese: con l’esercizio della scrittura tentiamo di abitare una piazza e di trovare una casa.

[AF]

*

Quando arrivo a Berna, piovono risposte illuminanti. Prima sulla vetrina di un negozio: Zuhause ist, wo dein Bett steht. Questa è per te, Andrea. Poi su un quotidiano gratuito, aperto a caso, un articolo a mezza pagina: «Ich esse manchmal WC-Papier». Questa è per tutti quelli che non sanno dove stiamo andando.

[YB]

*

Quando arrivo a Bellinzona, sto quasi dormendo. In realtà, non mi è mai riuscito facile assopirmi durante i viaggi in treno. Stavolta, nel momento in cui prendo sonno, mi rendo conto di essere giunto a destinazione. Un po’ intontito, mi avvio lungo il corridoio. Pourquoi ici?

[AF]

PS: Le poesie di Bayrakdar sono tratte da Specchi dell’assenza (Interlinea  2017; traduzione e cura di Elena Chiti). Hvorfor er jet her?, scritto nel 2014 da Constance Ørbeck-Nilssen e illustrato da Akin Düzakin, è stato tradotto in francese nel 2017 da Aude Pasquier, con il titolo Pourquoi ici?, per le edizioni La Joie de lire.

PPS: Vi segnaliamo le altre puntate della serie. Siamo già stati a Paradeplatz in gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno e luglio.

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La solitudine del formichiere

#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.

Lorenzo ha diciannove anni e vive allo zoo di Zurigo. È uno dei più vecchi formichieri del mondo. Anzi, per essere precisi è un tamandua (Tamandua tetradactyla): è lungo circa un metro dalla punta del naso alla fine della coda, ha una lingua di quaranta centimetri, è di indole solitaria e divora qualche migliaio di formiche al giorno. Un anno fa i responsabili dello zoo ebbero l’idea di farlo socializzare con un gruppo di scimmie leonine (Leontopithecus rosalia). Ma le scimmie, che sono animaletti vivaci, dalla coda lunga e dalla pelle color albicocca, non erano d’accordo. Entrambe le specie sono originarie del Sudamerica, tuttavia questo non basta per fondare un’amicizia. In linea di massima Lorenzo si sarebbe anche adattato alla compagnia, non avendo grandi esigenze se non quella di passeggiare fra i tronchi d’albero aspirando formiche. Le scimmie però adottarono un atteggiamento di chiusura, arrivando a episodi di bullismo e costringendo il vecchio formichiere a rintanarsi nel suo buco. Secondo gli specialisti, probabilmente il maschio riproduttore dei leontopitechi si era sentito attaccato nel suo «Sicherheitsbedürfnis», cioè nel suo bisogno di sicurezza. Immagino che gli stessi specialisti avranno provato a spiegargli che il placido Lorenzo non intendeva mettersi in competizione con nessuno; ma si sa, i maschi riproduttori talvolta sono lenti a comprendere le cose.
Appena scendo dal tram, in una Paradeplatz inondata dal sole, mi sento un tamandua tra le scimmie leonine. Mi guardo intorno e mi accorgo che il luogo è pieno di gente che si sta divertendo, che si è appena divertita o che sta per andare a divertirsi. Ragazzi glabri e abbronzati, fanciulle che schioccano le infradito, famiglie che fanno jogging. Nessuno ciondola senza combinare niente: anche il divertimento, qui, è una cosa seria. Un uomo lucido di sudore si avvicina correndo e quasi mi travolge, mentre un gruppo di turisti consuma un’orgia di selfie. Cerco di rifugiarmi sotto la tettoia, ma tutto è diverso. Le panchine sono semivuote, l’edicola è chiusa e le scale che portano ai bagni sono disseminate di cartelli inquietanti: pavimento scivoloso – scale sdrucciolevoli – superficie viscida – badate a voi!
Passano meno tram. A momenti Paradeplatz diventa quasi silenziosa, percorsa da lontani scampanii che sembrano già un ricordo, come uno di quei sogni sognati il mattino presto, prima di svegliarsi, e subito dimenticati. Poi appaiono cappelli di paglia, tavole per nuotare nel lago, cesti da picnic, palette di plastica per la sabbia. Vedo una sola cravatta ma è rossa a pallini gialli, quindi forse non conta.
Leggiamo una poesia di Anna Achmatova.

No, non sotto un cielo straniero,
non al riparo di ali straniere:
io ero allora col mio popolo,
là dove, per sventura, il mio popolo era.

Esistono cieli che non siano stranieri? Esistono luoghi che possiamo definire “nostri”? Credo di no, e infatti i versi parlano di un popolo, non di un luogo. Ma è difficile per me riconoscermi in questo popolo domenicale, almeno finché non mi rendo conto che ne faccio parte anch’io. Come sempre, c’è chi è più tamandua e chi è più scimmia leonina. Ed è normale che i tamandua ogni tanto si sentano soli.
Yari e io abbiamo pianificato di visitare lo zoo di Zurigo con alcuni amici e famigliari. Ecco dunque che anche il nostro gruppo, mentre si raduna intorno a una panchina ombreggiata, diventa un frammento di popolo: voci, saluti, richiami. All’angolo della panchina, fra l’altro, c’è un uomo che dorme con il capo posato sopra una valigia. È immobile, e resta così per almeno quaranta minuti, mentre noi studiamo gli orari dei tram, acquistiamo i biglietti, telefoniamo agli amici. Quando l’uomo si sveglia e incrocio il suo sguardo un po’ smarrito, all’improvviso, per un attimo, avverto un moto di riconoscimento.
Dopotutto, i tamandua sono più numerosi di quanto credessi.

[AF]

*

Non so quanto si possa considerare permalosa una piazza. Vero è che Paradeplatz, nel momento del bisogno, non si fa problemi a fartela pagare. Succede infatti che quando la domenica decidi di andare allo zoo di Zurigo con Andrea e le rispettive famiglie, raggiungendo a piedi la famosa piazza per uno sguardo furtivo, di passaggio, quasi scherzoso, come a dire «eccola» sorridendo sotto i baffi che non hai (ma sogni di avere), ebbene succede che una voce fuori campo ti chieda con misurata sufficienza: dove pensi di andare? E scopri in breve tempo che i tram diretti allo zoo non esistono. I tram che fino a un giorno prima – e per tutti i mesi che hai frequentato la piazza – portavano fieri sulla loro ampia fronte il capolinea «ZOO» non esistono. I tram che ancora ieri scampanellavano selvaggiamente per farti notare che se c’è qualcuno che deve spostarsi sei tu e solo tu (e anzi datti una mossa) non esistono.
La tabella degli orari sembra una vignetta satirica: da lunedì a sabato una rete fittissima di arrivi e partenze, delle colonne dense di numeri neri come il carbone, come se lo zoo di Zurigo fosse il centro del mondo; e poi sulla destra, placida, una colonna bianca come la rampa del salto con gli sci, una striscia di vuoto cosmico, a rappresentare naturalmente la domenica. Spiegalo tu, a una piazza, che si può anche intraprendere il viaggio combinando le attività, unendo l’utile al dilettevole (come dice chi si vergogna di fare qualcosa di utile e vuole sottolineare a tutti i costi la presenza del dilettevole; o per i più strani il contrario), non avere insomma come Scopo Ultimo di un viaggio a Zurigo l’osservazione di Paradeplatz. Ma niente, tram non ce ne sono, la piazza indispettita guarda altrove, se ne va a «culodritto» direbbe Guccini, e a noi tocca incamminarci con il pranzo al sacco alla ricerca di un altro luogo di partenza, magari un luogo più accogliente, simpatico e meno suscettibile. (Sì, l’ho presa benissimo questa cosa dei tram.)
Certo, incamminarsi in gruppo con un passeggino e qualche sacco, scoprendo qualcosa di nuovo a ogni occhiata, sottolinea una volta di più la nostra estraneità al tessuto urbano zurighese. Se in Paradeplatz non ci sentiamo più del tutto stranieri, bastano pochi metri per ripiombare nei panni dei forestieri. E in fondo, anche la familiarità con Paradeplatz è soprattutto una nostra proiezione. Basta guardare l’architettura e l’utilizzo della piazza, leggere le insegne, ascoltare gli avventori: tutto porta lontano dalla nostra cultura d’origine e dalla nostra lingua madre. Non c’è nulla di più intrigante, beninteso, ma la distanza rimane; e, pur con qualche eccezione, rimarrà. Insomma siamo e resteremo stranieri, a meno che il concetto non risulti obsoleto. Quando penso alla geografia, per esempio, o più precisamente all’appartenenza a un luogo, i miei sentimenti sono molto diversi da quelli che potevano avere i miei avi (che del resto erano ovunque, salvo nei luoghi in cui sono nato e cresciuto).
Credo che Andrea abbia ragione: non ci sono luoghi che possiamo definire “nostri”. L’appartenenza e il radicamento sono da ricercare altrove. Possono essere un popolo, come appunto per l’Achmatova: «io ero allora col mio popolo, / là dove, per sventura, il mio popolo era» (in un testo che apre un ciclo intitolato, simbolicamente, Requiem). Possono essere la nostra lingua o la nostra cultura, come avrei tendenza a credere. Possono essere un ideale o un sogno. In ogni caso, dubito si tratti di qualcosa che potremmo fissare e scolpire nella pietra: più probabile che sia volubile e volatile. Ancorché necessario.
Mi piace sempre ricordare Simone Weil, che ne La prima radice afferma: «Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana. È tra i più difficili da definire. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale, all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice. Partecipazione naturale, cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente. Ad ogni essere umano occorrono radici multiple. Ha bisogno di ricevere quasi tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente».

[YB]

*

Infine, stanchi ma felici, tornammo a casa. Così un tempo finivano i temi scolastici. Ora si tende a evitare quel passato remoto tanto perentorio e, soprattutto, non è sempre chiaro dove sia “casa”. Un altro “pensierino”: Oggi andammo allo zoo. L’animale che più mi piacque…
Yari, quale animale maggiormente ti piacque allo zoo di Zurigo?

[AF]

*

Caro amico di penna,
il gorilla è il mio animale preferito. Mio papà dice che ci sono diversi tipi di gorilla, ma sono sempre pelosi. Sono neri e anche un po’ grigi. Allo zoo di Zurigo c’è un gorilla che è anche più vecchio del mio papà. È nato nel 1977. Quando lo guardi lo capisci che è più vecchio e che ha visto più cose e sa anche molte più cose di te.
Quando lo guardi per tanto tempo forse anche lui ti guarda. Il gorilla ti guarda sempre in modo triste. Forse perché è chiuso in uno zoo o forse perché è solo triste di essere triste. Ma lui lo sa di sicuro perché è vecchio e saggio. Il mio papà mi ha detto che lui invece non lo sa. Quando il gorilla mi guarda divento triste anch’io, ma non so perché. Sono triste senza saperlo.
Scrivimi presto.
La tua amica di penna

[YB]

PS: Un ringraziamento speciale a Martina e Gregorio. Le informazioni sugli animali provengono dalla newsletter e dal sito dello Zoo di Zurigo.

PPS: I versi di Anna Achmatova fungono da epigrafe al ciclo intitolato Requiem, che si può leggere in Poema senza eroe e altre poesie (Einaudi, 1966; traduzione di Carlo Riccio).

PPPS: La canzone di Francesco Guccini Culodritto, dedicata alla figlia Teresa (allora bambina), è nell’album Signora Bovary, uscito nel 1987. Comincia così: «Ma come vorrei avere i tuoi occhi, spalancati sul mondo come carte assorbenti / e le tue risate pulite e piene, quasi senza rimorsi o pentimenti, / ma come vorrei avere da guardare ancora tutto come i libri da sfogliare / e avere ancora tutto, o quasi tutto, da provare»…

PPPPS: La citazione di Simone Weil è in La prima radice (Edizioni di Comunità, 1954, ripubblicato nel 2017; traduzione di Franco Fortini).

PPPPPS: Vi segnaliamo le altre puntate della serie. Siamo già stati a Paradeplatz in gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio e giugno.

 

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A Zurigo, sulla luna

#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.

Di fianco a noi siede un ragazzo olivastro.
Barba scura, maglietta nera e scarpe
da ginnastica. Sull’orecchio un brillante
pacchiano. Fissa il suo telefono, poi aggiusta
nelle orecchie gli auricolari. Solo quando si gira
mi accorgo che i suoi occhi sono più azzurri
del vento, senza macchie, e si spalancano
densi come nubi. La piazza riflessa è diventata
minuscola, ora, noi tutti siamo punti dispersi
che non ritrovo, che si sommano ad altri
nel profondo marino di depositi e secoli.

Finché si alza, ride forte e riparte. Anche lui
torna presto insignificante.

[YB]

*

Quando non ci vedi più, immagini tutto. Le cose che sono, quelle che sono state. Le cose che potrebbero essere. Ho negli occhi il paesaggio della mia infanzia – il deserto, le vie della città vecchia, i minareti – e ho nelle orecchie le voci di questa piazza. Ho nelle narici i suoi odori. La campana del tram risuona anche troppo vicina. Il negozio di tabacchi si protende fino a me, insieme alla bottega del fioraio, alla pasticceria, all’edicola con i giornali freschi di stampa. Raggiungo in fretta il marciapiede, prima che arrivi il prossimo tram. Muovo il bastone davanti ai piedi, esplorando l’asfalto. Percepisco i corpi che si scansano per lasciarmi passare.
Mi siedo. Sono stanco. Il cervello lavora per ricostruire lo spazio, immaginando la distanza fra le persone, i palazzi delle banche, il volto di una madre che spinge una carrozzina. Ma nello stesso tempo, con poca fatica, il cervello immagina mia madre: i suoi denti bianchi quando ride, il velo ciclamino dei giorni di festa, le sue mani che impastano la farina. Mia madre, morta da anni, scivola in mezzo a un gruppo di ragazzi in gita scolastica. Il cielo senza confini non è più remoto del piccione che beccheggia a pochi centimetri dalle mie scarpe. Che cosa scegliere?
Potrei vedermi da vecchio al mio paese. Potrei vedermi all’altro capo del mondo. Potrei vedere una donna bellissima sopra i tacchi che si muove, si ferma, si muove. Potrei vedere le labbra che pronunciano parole in tedesco, in inglese, in spagnolo, in italiano, in altre lingue che non conosco. Una donna chiacchiera in arabo al telefono. Rihla sa’ida, buon viaggio. E io resto sulla panchina, con i pensieri che fuggono. Sento una ragazza che dice a un’altra, in tedesco: hai visto che occhi, quello lì? Guarda come sono chiari! Capisco che stanno parlando di un uomo seduto accanto a me. Non so se sia vecchio, se sia giovane, se sia straniero. Lo sfioro delicatamente sul braccio. Lui si volta, mi guarda.
Occhi blu, silenziosi come il mare sognato, come il cielo ricordato, come il tempo della giovinezza e come i pomeriggi che non finiscono mai. Mormoro due parole di scusa e avverto il suo imbarazzo nell’accorgersi che sono cieco. Lui torna a voltarsi dall’altra parte. L’invisibile azzurro del suo sguardo resta con me, ancora per un po’, nel vasto incrocio di Paradeplatz.

[AF]

*

Indietreggiare può fare bene, ogni tanto. Ritornare sulle proprie idee, mostrarsi timidi, lasciare spazio a qualcun altro. Così, all’angolo di Paradeplatz, invece di avanzare sicuri con i nostri taccuini in direzione della solita panchina, indietreggiamo un passo dopo l’altro, fino a ritrovarci all’interno di una corte ricca di marmi, bancomat e boutiques. Qualche metro ancora e compare un bar lussuoso agghindato con qualche pallone, bandierine, finte zolle di finta erba e un trionfante calcio balilla a ricordare il comune gaudio (mezzo mal?) dei campionati del mondo in Russia. Giunge l’eco di frasi lontane, pronunciate a mezza voce dentro un cellulare. Intorno domina la perenne staticità delle pietre levigate. L’unico movimento è quello di una fontana che, sul fondo, lascia intravvedere alcune frasi che scorrono. Sono desideri apparentemente inesaudibili, espressi in più lingue: respirer sous l’eau, essere invisibile, auf einem Teppich fliegen, die Zeit anhalten, be wherever I want…

“Siamo quello che siamo”, si sente dire ogni tanto: “prendere o lasciare”. Invece siamo molto più spesso quello che non possiamo diventare e quello non siamo riusciti a fare. Poco male, la poesia che abbiamo portato con noi sembra proprio uscita da quella fontana e dal flusso di parole: è un’ottava dell’Ariosto, tratta dall’Orlando furioso, dall’episodio di Astolfo sulla Luna (alla ricerca del senno di Orlando).

Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desidèri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai.

La Luna: ecco dove finiscono i vani disegni e i vani desidèri che rincorriamo per tutta la vita, e che non di rado ci plasmano e ci trasformano. Non si contano, sono moltissimi, e infatti la più parte ingombran di quel loco. Un loco speciale, lassù. Luminoso nel cielo di notte e appena accennato nel cielo di giorno, quando il colore dell’aria non è troppo intenso.
Indietreggiare fino alla Luna: presto scompare Zurigo, poi la Svizzera e l’Europa, i territori si dissolvono nel blu, l’orologio non scorre, la gravità è relativa, spazio e tempo sono una cosa sola, noi ci siamo e non ci siamo.
«Luna!», dice mia figlia di un anno e mezzo indicando il cielo con il dito fragile e deciso. «Sì, è la Luna», rispondo ogni volta. E insieme spalanchiamo gli occhi.

[YB]

*

Altre cose viste: due ragazze che si scattano un selfie davanti ai bancomat; un cieco che entra da Sprüngli; ventinove fra uomini e donne che camminano con un bastone (compreso il cieco); due scolaresche; un uomo che si soffia il naso nella maglietta; un mozzicone di sigaro cubano in un vaso; una donna con un velo ciclamino; una madre che sprona i figli a camminare gridando, in italiano, «È laggiù la fontanella!»; tredici carrozzine; innumerevoli cravatte; nuvole; bandiere; un elefante a rovescio; due monaci buddisti con l’ombrello; un carretto a pedali che trasporta champagne; due donne che indossano abiti dello stesso colore del cielo; un candelabro; cani; sigarette; ciclisti; un uomo altissimo.

[AF]

PS: Ludovico Ariosto pubblicò per la prima volta il suo poema nel 1516. Abbiamo citato l’ottava 75 del canto XXXIV (Ludovico Ariosto, Orlando furioso, a cura di Lanfranco Caretti, Einaudi, 1966; 2015).PPS: Scoprire che il tempo non scorre, e anzi non esiste in quanto tale, può dare qualche vertigine. Ma come dice Carlo Rovelli, «L’assenza del tempo non significa […] che tutto sia gelato e immoto. Significa che l’incessante accadere che affatica il mondo non è ordinato da una linea del tempo, non è misurato da un gigantesco tic-tac […]. È una sterminata e disordinata rete di eventi quantistici. Il mondo è più come Napoli che come Singapore» (in L’ordine del tempo, Adelphi, 2017).

  

 

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A testa in giù

#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.

«Ci sei domani?» mi domanda qualcuno. «No – gli rispondo – sarò in viaggio.» Non entro nei dettagli: per “viaggio” intendo il mio appuntamento a Paradeplatz con Yari Bernasconi. Seduto in treno, fra Arth-Goldau e Zugo, mi chiedo se sia giusto definire la spedizione in questo modo. Faccio sempre la stessa strada, passando dagli stessi posti. Si può ancora chiamare “viaggio”?
La sera, mentre sono ospite di amici a Zurigo, scoppia un temporale. Il bagliore dei lampi fa irruzione dalle finestre, i tuoni sembrano scuotere le fondamenta. In quell’atmosfera da finimondo, mi arriva un messaggio da Yari: per motivi di forza maggiore, forse domattina non riuscirà ad accompagnarmi a Paradeplatz.
Il mattino dopo Yari mi conferma che non ci sarà. Io prendo il tram a Goldbrunnenplatz e mi dirigo verso il centro. Quando scendo, a Paradeplatz, mi rendo conto di essere solo. Non è una sorpresa – sapevo che Yari non sarebbe venuto – ma fino a questo momento era una cognizione astratta. Ora, invece, l’assenza di Yari diventa qualcosa di tangibile: uno spazio su una panchina, un silenzio, un’irresolutezza che sembra affaticare anche i miei pensieri. Capisco allora che, per creare un viaggio, basta già soltanto questo spaesamento. Mi siedo al solito posto e annoto sul taccuino: piccoli vuoti, piccole coincidenze.
È una definizione di “viaggio”. Non è esaustiva, ma in questo momento è quella che più mi aiuta a comprendere. Viaggiare è quella condizione (fisica o mentale) per cui siamo particolarmente ricettivi ai piccoli vuoti e alle piccole coincidenze.
Ecco per esempio che una donna mi si avvicina e mi chiede: «Are you from Zürich?» Faccio per dire di no, ma lei deve averlo già capito dal mio sguardo: senza aspettare la risposta, mi volta le spalle e si allontana. Un’altra donna mi mette in mano un volantino su una prossima votazione. Lo accetto. Poi seguo la donna nella sua opera di propaganda e scopro che le successive dodici persone da lei interpellate si rifiutano di ascoltarla, o anche solo di prendere il volantino.
Piccoli vuoti.
Attraverso la piazza e mi apposto accanto a un fioraio. Rimango fermo all’ingresso, confuso tra le ortensie, aspettando che passino persone vestite dello stesso colore dei fiori. Poi noto un uomo che, appena sceso dal tram, si mette a parlare da solo, gesticolando e rivolgendosi a un interlocutore immaginario. Proprio in questo momento, mi arriva un messaggio da Yari, con la poesia che avremmo dovuto leggere insieme. Sono alcuni versi di Gianni Rodari, tratti dal Libro dei perché. Mi avvicino all’angolo fra l’edificio dell’UBS e quello di Crédit Suisse. Vedo un elefante che si tiene in equilibrio sulla proboscide. Lo guardo. Mi chiedo: perché?
Piccole coincidenze.
Si chiama Gran elefandret. È una scultura di bronzo, grande 755x370x300 centimetri e ideata da Miquel Barceló nel 2008. Decido di chiamare Yari via FaceTime, per mostrargli il pachiderma, quando vengo distratto da un trambusto alle mie spalle. La signora con i volantini sta discutendo animatamente con l’uomo che parla da solo.
[AF]

*

Esserci o non esserci. Cosa diventa un luogo quando non ci siamo? Ma soprattutto: esiste ancora? L’ideale è avere un emissario clandestino come Andrea, che mi inscatola nel suo cellulare e grazie a FaceTime mi offre una visita virtuale di Paradeplatz. Un giro sulle montagne russe di Paradeplatz (ah no, è Andrea che oscilla mentre cammina, scatta e rallenta, ha visto qualcosa e cerca di rendermi partecipe; credo non si sia accorto che così facendo sono volato dal tetto di un palazzo fino all’asfalto rigato dai binari dei tram, e poi ancora hop a mezz’aria insieme a un passero di passaggio, prima di frenare davanti a un elefante che non capisco se sia capovolto, o lo sono io, o lo siamo tutti).
Dunque i luoghi, stando a quello che ci mostra la tecnologia, continuano a esistere anche quando non ci siamo. Eppure ho la netta impressione che Paradeplatz, in mia assenza, osservandola da dietro chip e microchip, sia qualcosa di diverso. Per cominciare è più fredda e distante. Così come mi è sembrata qualche settimana fa, transitandoci per caso, per altri motivi, diretto da tutt’altra parte, senza taccuino e senza tempo per fermarmi. Quasi disturbato dall’idea di essere lì in quelle condizioni. Infatti, a ben guardare, si è trattato più di un’assenza che di una presenza.
E poi, con la distanza, tornano ad affiorare i pregiudizi. Gli stessi di gennaio, che nel frattempo erano stati assorbiti dalla curiosità. Ora, dalla finestrella dell’ottovolante di FaceTime, vedo soprattutto le banche e le cravatte. L’imperturbabile serietà e l’affettata (e affrettata) cortesia. Paradeplatz rimane un luogo di potere e di soldi. Con Andrea ne esploriamo gli strati, evidenziando l’umanità in viaggio, i tram e il movimento. Ma non possiamo dimenticare la presenza fissa, statica, del potere. «Non ci sono poteri buoni», cantava De André.
Difficile essere completamente d’accordo, ma ancora più difficile dargli torto. Certo è che troppo spesso rimaniamo in disparte, più o meno coscientemente, e le derive del potere trovano scorciatoie e nuovi metodi, si manifestano in modo poco spettacolare, astruso, spingendoci all’autoesclusione. Franco Fortini lo ha detto molti anni fa in alcuni celebri e illuminanti versi: «Gli oppressi / sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli / parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso / credo di non sapere più di chi è la colpa».
Osservare, scavare, studiare. Tentare di dire, nonostante tutto: l’insegnamento di Fortini è anche questo. In fondo, è l’essenza della libertà, ha ragione Gianni Rodari:

Chi ha torto tira dritto
se chi ha ragione resta zitto.
Chi non sa dire la sua ragione,
il primo che passa è suo padrone.

[YB]

*

Il potere è qualcosa che occupa uno spazio, nella mente o nel mondo, e che non lascia più aperture, punti di fuga. È immutabile peso, grigio, antico, refrattario a ogni nascita. Se fosse poggiato sulle zampe, l’elefante di Barceló potrebbe rappresentare la forma del potere. Invece è sottosopra, imprevedibilmente e incredibilmente leggero, tanto che pare uscito da una filastrocca di Rodari. In fondo, ogni rivoluzione non è altro che questo: credere che possa esistere un altro equilibrio. E non è escluso che per scrivere, per tentare di dire, nonostante tutto, occorra mettersi a testa in giù.
[AF]

*

Per guardare il nostro mondo
Allacciamo la cintura,
Rovesciamo il globo tondo
A dispetto delle mura!
D’improvviso volpi, tigri,
Elefanti e canarini
Per gli uomini più pigri
Lascian questi bigliettini:
A chi ancora non lo sa,
Tutta qua sta la realtà:
Zeta, TAL e PEDARAP.

[YB]

PS: La quartina di Gianni Rodari è nel Libro dei perché (Editori Riuniti, 1984).

PPS. Fabrizio De André canta «Non ci sono poteri buoni» in Nella mia ora di libertà (nell’album Storia di un impiegato, 1973).

PPPS. I versi di Franco Fortini vengono da Traducendo Brecht, in Una volta per sempre (Mondadori, 1963). La poesia tra l’altro inizia così: «Un grande temporale / per tutto il pomeriggio si è attorcigliato / sui tetti prima di rompere in lampi, acqua»… Che fosse anche Fortini diretto a Paradeplatz?

PPPPS: Ecco le altre puntate della serie Paradeplatz2018: gennaio, febbraio, marzo, aprile.

 

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Fosforescenze

#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.

Sono tornate le foglie. Anche sugli sparuti alberi di Paradeplatz. Tu cominci a creare delle piccole abitudini, ti sembra addirittura di poterti fidare, conti i dettagli che di volta in volta si ripropongono. Poi la natura si sveglia dal torpore e rimette tutto in moto, spazzando via i tuoi rassicuranti (e per questo transitori) appigli. Naturalmente ci si può nutrire con le spiegazioni più scientifiche: dalle mezze stagioni che non esistono più, ohibò, al miracolo della fotosintesi clorofilliana. Resta però l’impatto visivo, il verde improvviso, la vita che avevi dimenticato. E ancora più forte l’immagine dell’immenso e imperturbabile ingranaggio, quel ciclico vortice che fa di te, nei secoli dei secoli, un nulla insignificante. Anche l’esplosione di vita, insomma, dà le vertigini. Nel mio taccuino, in una breve annotazione di febbraio, avevo scritto: «Pochi alberi bassi e spogli, infilati in una struttura geometrica fredda e calcolata. Li aspetto al varco della primavera». Non sapevo che sarebbero stati loro ad attendermi. Al varco.
La piazza intanto si gode il clima primaverile: colori sgargianti e luminosi, maniche corte, movimento. Un ragazzo fa jogging con una canottiera aderente, in tinta ai pantaloncini e alle scarpe: sfreccia tra i binari dei tram. Anche Andrea si è già alzato con slancio dalla nostra panchina per intrufolarsi nel crocchio di un gruppo turistico. È come se Paradeplatz fosse ringiovanita. O forse sono io a sentirmi più vecchio.
Una signora si avvicina ad Andrea e gli rivolge la parola. Dice di fare attenzione perché ha la stringa slacciata. Lui ringrazia e riannoda. Non si rendono conto che quella stringa era slacciata da gennaio. Conosco bene quelle scarpe: a destra il laccio è sempre stato selvatico, libero. Mentre ora è strozzato in un nodo. Anche le certezze più rocciose, oggi, vengono a cadere.
[YB]

*

Facciamo un passo indietro. Nel 1926, a Zurigo, Erwin Schrödinger scrisse un’equazione differenziale per ciascuna funzione d’onda quantistica. Leggenda vuole che l’ispirazione gli sia venuta mentre contemplava le increspature sulla superficie dell’acqua nella piscina del Dolder. In realtà, a quanto sembra, Schrödinger andava al Dolder soprattutto per guardare le ragazze in costume (ma è pur sempre una faccenda di curve).
Mentre viaggiavo in treno, ho avuto uno scambio di messaggi con alcuni amici a proposito dell’equazione di Schrödinger. Ne avevo sempre sentito parlare, ma non avevo mai capito che cosa fosse. Un amico mi ha spiegato che a livello atomico le componenti della materia non possono essere descritte come ci aspetteremmo: un elettrone non è una pallina con una posizione e una velocità ben definite. Lo stato di un elettrone è rappresentato dalla sua “funzione d’onda”, che descrive una “nube di probabilità” degli stati possibili. Ovviamente, tutto questo vale per gli elettroni, non per i passeggeri dei tram (in nessun punto della sua equazione Schrödinger menziona i tram, né a dire il vero altri mezzi di trasporto). Ma quando si arriva a Paradeplatz in un giorno di aprile, come non sentirsi avvolti da una nube di probabilità?
Perché proprio oggi, e proprio qui, due uomini con la maglietta fosforescente, di due colori diversi, s’imbattono l’uno nell’altro? È un evento eccezionale oppure, calcolando la quantità di uomini fosforescenti che si aggirano a Zurigo, è probabile che simili incontri si verifichino di continuo? L’agglomerarsi di turisti che parlano spagnolo, e il loro fondersi con turisti che parlano inglese, è qualcosa che avviene ogni giorno? O soltanto oggi, per caso? Mi avvicino, mi mescolo al gruppo. Una guida, in inglese, mi raccomanda di avere pazienza: fra poco partiremo. Un’altra guida, parlandomi spagnolo, mi consegna una mappa della città, con un prontuario di frasi utili in inglese, svizzero tedesco, francese e italiano (non si capisce la mancanza dello spagnolo). Indispensabile «I love you» («ich han di gern»; «je t’aime»; «ti amo»). Ma può essere utile anche «I would like» («ich hätti gern»; «je voudrais»; in italiano, misteriosamente: «i molto»).
La guida mi ripete che fra poco partiremo.
Decido di sganciarmi dal gruppo e raggiungo Yari. Mi siedo accanto a lui. Ho una stringa slacciata e l’altra no, giusto per adeguarmi alla nube di probabilità.
Oggi abbiamo portato con noi una poesia di Mariagiorgia Ulbar.

Torno dove termina la strada
dove resta solo il bivio
dove trovo i calcinacci ma anche l’erba
spontanea che ci cresce in mezzo.
Se è malerba non so dirlo
ma i cani contro il male se la mangiano.
Dove finiscono le strade, anche le cose
impacchettate da altri da scartare
c’è una parola piccola su un’insegna
e lì stanno un solco e una crepa
il mio occhio che vede
il mio dito che dentro si infila.

Questo paesaggio estremo, di erba e calcinacci, sembra lontano da Paradeplatz. Oggi però le cose sono ciò che sono e, insieme, ciò che non sono. Circolano le solite cravatte, le solite borse, ma insieme appaiono cappelli di paglia, gonne corte, occhiali da sole. Il meccanismo della piazza funziona come sempre, ma la fragilità primaverile rivela il solco, la crepa che corre fuori e dentro di noi. Anche Paradeplatz, un tempo, era fatta di alberi, prati, cespugli spinosi. Quella piazza fantasma è sempre qui, suscitata dall’immaginazione, nascosta nella nube di probabilità. O forse, semplicemente, evocata dalla nube di pollini.[AF]

*

Parliamo di Schrödinger, della sua equazione e di quel suo esperimento conosciuto con la stupenda dicitura di “Paradosso del gatto” (sembra di rivedere lo Stregatto che è venuto a trovarci a Paradeplatz in febbraio). In realtà, per quanto mi riguarda, mi do solo le arie di uno che parla di Schrödinger. Chi mai potrebbe credere che io abbia veramente qualcosa da dire sulla meccanica quantistica? E infatti il mio massimo contributo alla discussione è una vignetta satirica che trovo grazie a Google.
Le fosforescenze di passaggio, come appoggiate sugli abiti della gente, come convogliate per caso in questo momento di disordine cromatico a cui non sopravvivrebbe non dico uno stilista affermato, ma neppure un apprendista sarto al primo giorno di scuola, ecco che queste fosforescenze si spengono senza preavviso nel più simbolico degli accostamenti: quello della tuta mimetica di un soldato che passa. Forse solo una recluta a giudicare dallo sguardo spaesato, la falcata lunga ma goffa e l’assenza di (obbligatorio) cappellino o basco. Naturalmente una tuta mimetica in mezzo a Paradeplatz è tutto fuorché mimetica. Una sorta di Trova Wally al contrario: vinci se riesci a non vederlo.
In ogni caso, il giovane militare cammina, si ferma, poi ciondola e infine riparte a spron battuto, continuando la sua strana traiettoria fuori dal mio campo visivo.
Sono i miracoli dell’esercito di milizia svizzero e della leva obbligatoria: nell’immaginario collettivo, un’organizzazione strutturata e all’avanguardia, pronta per qualsiasi evenienza (e non sono io a poter dimostrare il contrario); nella vita di tutti i giorni, si palesano invece non di rado sfaccendati neo-maggiorenni in grigioverde che aspettano ordini agli angoli delle strade, nei dintorni di caserme o rifugi antiatomici, poligoni di tiro, zone boschive apparecchiate per esercizi e simili amenità. E verso sera, in treno, se si è fortunati, si condivide il viaggio con intere truppe in libera uscita che tra canti e schiamazzi danno sfogo alla loro ispirazione ingegneristico-architettonica costruendo piramidi con le lattine di birra vuote. Vista la quantità di lattine vuote, non vi è alcuna esagerazione a servirsi del concetto altrimenti abusato di “talento naturale”.
Rimango comunque un poco assorto. L’immagine del militare ha quasi fisicamente rabbuiato i colori che prima riempivano i miei occhi. Ora risaltano i non-colori dei palazzi e della strada pulita, la piatta lucentezza dei binari, le trasparenze delle vetrine. Ricordo anch’io i mesi estivi e autunnali in quella stessa tuta mimetica, a diciannove anni, con un sacco di idee per la testa, ma nemmeno una che riuscisse a suggerirmi il perché (perché fossi lì, a quasi sette ore di treno da casa; perché, dopo gli anni di scuola, dovessi imparare la disciplina, come non esitarono a spiegarci; perché avessi sempre con me un’arma che mi restava sconosciuta, una pistola fredda e scura, estremamente efficace a quanto pare; e insomma, perché e basta). Le mie gambe erano ancora più goffe e lo sguardo senz’altro più perso. Cerco dentro di me alcune immagini di quel tempo non vicino, ma tutto rimane sfocato. Forse mi trovo proprio dove termina la strada, riconosco il bivio, i calcinacci e quell’erba misteriosamente spontanea. Risuona ancora più forte degli altri il verso numero 7 della poesia di Mariagiorgia Ulbar: «Dove finiscono le strade, anche le cose». Già. Anche le cose.
Sono tornato a casa e ora scrivo al mio computer. Ho cercato in cantina la piccola scatola della Posta Svizzera dove ho raccolto gli oggetti legati al servizio militare. L’ho aperta (il mio dito che dentro si infila…) e non c’è quasi più nulla. Ritrovo però il quadernetto dove, durante la cosiddetta “scuola reclute”, avevo appuntato quelle che sicuramente, allora, credevo fossero delle poesie. Le scrivevo prima di dormire, nel letto, sotto la luce della torcia, oppure nelle pause del mezzogiorno. Le rileggo dopo tanti, troppi anni. Sono testi di un’impietosa ingenuità.
Sulla prima pagina scopro una specie di introduzione: «Se devo passare le mie giornate a “sembrare”, qui, su questo foglio bianco, nessuno potrà impedirmi di “essere”». E poi le parole, i versi, ritmati in un approssimativo – quanto ovvio – stile ungarettiano. Solo che a metà ricompare un’immagine. Netta. Sono seduto di fianco alle fontane dove la sera puliamo gli scarponi. È tardi, sono gli sgoccioli della libera uscita. Di fianco a me c’è un compagno che fuma in silenzio. Rivedo tutto: il nero del cielo, la luce soffusa dei dormitori mezzi vuoti, la sigaretta che si rianima a ogni boccata. Ritorno a sentire quel formicolio dietro la nuca, la sensazione di vuoto. Il fumo che danza e richiama «l’oscillare irregolare / del sospiro / che inavvertitamente / ho perso. // Non lo sento, / e la cenere / si porta via il vento».
È strano pensare che oggi potrei scriverne cento o duecento di poesiole così, ma forse mai ritroverò la stessa fiducia nelle parole, di fronte al vuoto.
[YB]

*

Yari scrive. Cioè, fino a qualche minuto fa stava scrivendo. Poi ha salvato il documento e me l’ha inviato. È domenica, e Yari se ne stava a casa davanti al computer, intento a decifrare gli appunti presi durante la nostra visita a Paradeplatz. Con la mente è tornato sotto la pensilina, si è seduto sulla panchina di legno dove termina la strada. Davanti a lui sferragliavano i tram. Poi la piazza reale si è trasformata in un passaggio verso un’altra, più segreta Paradeplatz, un luogo a cui è più difficile tornare. È una radura selvatica, dove cresce l’erba spontanea insieme alla malerba. È il luogo del ricordo, della nostalgia. A volte la luce radente lo trasforma in un prato morbido, colmo di desideri. A volte invece, quando incombe il buio, la radura diventa un intrico di rimpianti, uno spiazzo desolato in cui soffocano i pensieri, i segni, le parole.
Osservando Paradeplatz, all’inizio appare soltanto la piazza esterna. Noi cerchiamo di fissare il mondo nel taccuino: dettagli sui colori, sui rumori, piccole scene che accadono in pochi secondi. Scorgo un ragazzo e una ragazza che si salutano con intensità. Si abbracciano, poi lei dice qualcosa sorridendo, lui torna indietro e l’abbraccia di nuovo. Arriva il tram. La ragazza sale, si siede accanto al finestrino. Il ragazzo, dal basso, le sorride. Lei contraccambia, lo saluta con la mano, mima il gesto di un bacio. A questo punto il tram dovrebbe partire. Ma non parte, perché una donna sta incontrando qualche difficoltà nello spingere una carrozzina con un bimbo in fasce. La ragazza e il ragazzo non sanno che cosa fare. Lei sorride, ancora. Lui sventola le braccia. Quante volte si può ripetere un sorriso? Quante volte si può mimare un bacio? C’è imbarazzo, ma i due tengono duro: persistono a guardarsi negli occhi finché il tram, con un sospiro, si mette in moto verso il capolinea di Morgental.
L’azione di scrutare la Paradeplatz esterna, cercando di captare il suo ritmo, dischiude le vie che portano a quella intima, invisibile. Per questo sostiamo a lungo, prendiamo appunti, scattiamo fotografie. Cominciamo da «pochi alberi bassi e spogli, infilati in una struttura geometrica fredda e calcolata», poi ci spostiamo nel tempo o nello spazio, non importa, ed esploriamo la nube di probabilità. Infine torniamo a casa, ci mettiamo a scrivere. Yari a Berna, io a Bellinzona. È domenica pomeriggio. Senza volerlo, ci ritroviamo nella radura insidiosa dove nascono le storie, le poesie. Abbiamo fiducia che bastino a reggere il deserto? Le parole resisteranno contro il vento che infuria tra i rovi della piazza fantasma?
Non lo sappiamo. Intanto ho già inviato una mail, prima di aggiungere queste ultime righe. Alla sua scrivania, Yari sta già correggendo il testo. Nonostante tutto, Yari scrive.
[AF]

PS: La lirica di Mariagiorgia Ulbar è tratta da Gli eroi sono gli eroi, Marcos y Marcos 2015.PPS: L’immagine con l’equazione di Schrödinger proviene da Ian Stewart, Seventeen Equations that Changed the World (2012). In italiano, con la traduzione di Giorgio P. Panini, Le 17 equazioni che hanno cambiato il mondo (Einaudi 2012).PPPS: Per i dettagli su Schödinger, grazie a Gregorio (e a tutto il gruppo dei neuroni specchio).PPPPS: Ogni mese torniamo a Zurigo e ci sediamo su una panchina di Paradeplatz. Trovate qui le puntate di gennaio, febbraio e marzo.

 

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