Volpi e cinghiali

CARTOLINE (OTTOBRE)

“Cartoline” (#cartoline2020) è un progetto ideato e scritto da Yari Bernasconi e Andrea Fazioli.

CARTOLINA NUMERO 37
Da Roma, Italia


Abbiamo ritrovato questa cartolina di quasi vent’anni fa. Troppo tardi per spedirtela? Fanne quello che vuoi. Per noi è come se fosse ieri: il caldo, i pini sparpagliati come funghi, le rovine. E la folla sotto le arcate del Colosseo. Goethe diceva che «il sole e la luna, non dissimilmente dallo spirito umano, hanno qui tutt’altra funzione che in altri luoghi: qui, dove il loro sguardo è fronteggiato da masse enormi, eppure formalmente perfette». Noi abbiamo trascorso il pomeriggio ad ascoltare bisticci tra fidanzati («dimmelo una volta per tutte»), capricci di bambini («stasera facciamo i conti») e lamentele di ogni tipo («in Germania non si sarebbe mai vista una coda del genere»). Unicuique suum.

CARTOLINA NUMERO 38
Da una città fantasma


Non si sente più nulla. Avanziamo fra i ruderi, seguendo il percorso che offrono i buchi. Superiamo costole di case, finestre spezzate, cocci, vetri, porte abbattute. È un detrito del mondo, una vasta nostalgia senza parole. I rampicanti sgretolano le pietre e le radici dei faggi sfondano le pareti. Gli animali – topi e uccelli di cenere – passano svelti fra le camere. Nell’ombra più scura, un muro si tiene in piedi con fierezza: è coperto di graffiti illeggibili, come tracce di un tatuaggio sul dorso della mano. A poche decine di metri, il centro commerciale è ridotto a un cumulo di calcinacci e frammenti di metallo, mentre di fianco, nell’ufficio postale, restano gli scheletri degli sportelli, due lettere ingiallite, il mare di una vecchia cartolina. Attraversiamo la piazza, invasa dai roveti, e ci affacciamo sulla soglia di un bar. Dietro il bancone luccica una fila di bottiglie. Sulla parete vicino all’entrata, invece, rimane l’autografo di un ciclista: PantaniMarco, una parola sola, avvolta da uno svolazzo inciso con forza da una biro blu. Per un attimo anche noi siamo sul punto di svanire. Poi ci ricordiamo che abbiamo promesso di scriverti, ed eccoti questa cartolina. Nell’ufficio postale abbiamo perfino trovato un francobollo per inviartela.

CARTOLINA NUMERO 39
Da Nižnij Novgorod, Russia


La città è un enigma: più di un milione di abitanti, fabbriche, palazzi di vetro e cemento… Però in certi momenti, all’imbrunire, sembra di percorrere le vie di un villaggio. Il cremlino, con le sue dodici torri, si staglia contro l’ampiezza del Volga, dove scorrono imbarcazioni che giungono da un altro tempo. Il respiro dell’acqua governa i passi e i pensieri. Quando le case di mattoni o di legno si accendono di luci, noi, dall’esterno, immaginiamo le facce e i saluti e i litigi che non sapremo mai. Nell’aria fredda tutto si allontana. Ma quelle risate, quelle tristezze, quel suono di chiacchiere al tavolo della cucina… Noi vogliamo essere le parole degli altri, i loro sguardi. Mentre scende la sera, vogliamo essere la nebbia che risale il fiume, l’odore di manzo bollito, il pianto di un bambino che lentamente si placa.

CARTOLINA NUMERO 40
Da Corvesco, Svizzera


Nelle sere d’autunno a Corvesco i televisori scoppiettano in salotto, gli ultimi pendolari rientrano per la cena, i bambini corrono a lavarsi le mani. Perché torniamo sempre in questa valle fra le montagne? Qualcuno dice che bisogna attraversare ore di noia per poter finalmente riconoscere i dieci minuti in cui le cose cominciano ad accadere. Ma la verità è che qui non ci annoiamo. Riscopriamo ogni volta la cascata del Tresalti. Osserviamo il tramonto che si appoggia sul Monte Basso. Ceniamo al grotto Pepito. E soprattutto, salendo a piedi oltre l’ultima casa, con le luci di Corvesco alle spalle, ci troviamo a fissare quel muro impenetrabile che è il bosco. Certe sere d’autunno – lo sappiamo senza dircelo – ci sentiamo assediati da un nemico ineffabile, che invece di circondarci continua a bussare dall’interno. Così il bosco ci viene incontro, con le sue piste appena distinguibili, i ruscelli, i dirupi, e le volpi e i cinghiali nell’oscurità. Presenze ignote, ma vicine.

PS: Potete leggere qui le prime quattro cartoline. Le successive: qui dalla 5 alla 8, qui dalla 9 alla 12, qui dalla 13 alla 16, qui dalla 17 alla 20, qui dalla 21 alla 24, qui dalla 25 alla 28, qui dalla 29 alla 32 e qui dalla 33 alla 36.

PPS: La citazione di Goethe è tratta da Viaggio in Italia (1813-17), traduzione di Emilio Castellani, Mondadori, 1983.

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Dighori

“Viaggi immaginari” è una serie di reportage da luoghi che non ho mai visto, scelti a caso sulla mappa del mondo. A farmi da guida l’antico gioco Hanafuda, che scandisce le stagioni dell’anno. Ogni mese le carte mi accompagnano nella scrittura di un racconto di viaggio e di un haiku.

Ottobre
Hanafuda: Acero / Cerbiatto
Luogo: Dighori (दिघोरी), Maharashtra 441203, India
Coordinate: 20°47’01.9″N; 79°13’11.7″E
(Latitudine 20.78386; longitudine 79.21991)
Andando in un sentiero di montagna m’imbatto in una coppia sui trent’anni. Stanno discutendo. Lei dice: «Qualcuno te lo deve insegnare, a essere forte, non puoi arrivarci da solo.» Lui tace. Lei aggiunge: «Come fai, se nessuno te lo insegna?» Il sentiero è pianeggiante, in mezzo a un bosco di latifoglie in cui spiccano l’arancione dei ciliegi e il rosso vivace degli aceri montani, luminosi come segnali d’allarme. Li saluto, loro proseguono. Alle mie spalle la voce di lei diventa più acuta. Mi accorgo che sta piangendo.
Che cosa posso fare? Non sono affari miei. Mi viene il pensiero di voltarmi, di chiedere se vada tutto bene. Di certo la prenderebbero come un’offesa. Esito, rallento. Mi fermo. Forse invece una parola detta da uno sconosciuto potrebbe aiutarli. Ma il mondo non funziona così. Il mondo può essere (o dirsi) moderno, aperto, sensibile alle differenze. Tuttavia gli steccati restano invalicabili: chi soffre deve soffrire da solo. Il dolore deve restare chiuso nella coppia, nella famiglia, nella cerchia più ristretta. O al massimo può essere buttato fuori nei social network, come un urlo scomposto. È doveroso, è necessario rispettare lo spazio privato degli altri. Bisogna salutare, cortesemente – e poi tirare diritto.
Dopo qualche secondo mi volto, quasi di nascosto. La coppia è scomparsa. C’è solo il sentiero, con gli alberi spogli, il fruscio del vento. Di colpo avverto il peso della mia solitudine. Sarà irragionevole, forse stupido. Di sicuro inutile. Ma sento un nodo di lacrime che mi stringe alla gola, come un morso, come l’agguato di una belva.
Sto pensando alla mia fragilità. Quante volte la vita ci sorprende inermi? Da bambini e da vecchi succede forse più spesso, ma anche nel pieno dei tempi, quando abbiamo costruito una fortezza – o almeno una baracca per ripararci dalle intemperie – anche allora capita che ci sentiamo perduti. Siamo come una preda. Un cerbiatto che si è attardato a bere, al fiume, e che si accorge di essere lontano, diviso da ogni gruppo, famiglia, compagnia. In quel momento, anche se non la vediamo, sappiamo che la belva si aggira nei dintorni. Il leopardo, con la sua capacità di piombarci addosso all’improvviso. La tigre, con la sua divisa mimetica, con la sua eleganza crudele. La tigre di cui non ti accorgi finché ormai è troppo tardi.
Ho provato questa sensazione nel mio viaggio in India. Avanzavo in un terreno brullo: polvere marrone, macchie di alberi, tratti di boscaglia più fitta. Non ero proprio fuori dal mondo: a un paio chilometri a sud-est c’era il villaggio di Dighori, che conta poco meno di cinquanta abitanti. Nella direzione opposta, camminando per tre chilometri circa, sarei giunto a Dongargaon, popolato da un centinaio di persone.
Questi paesi fanno pensare a una zona remota, in mezzo alla natura. Ed è così, in un certo senso. Ma se avessi raggiunto Dighori, e se avessi trovato un’automobile, in poco più di un’ora e mezzo, magari due contando gli imprevisti, sarei giunto alla città di Nagpur, la capitale d’inverno dello stato del Maharashtra (quella estiva è Mumbai).
Nagpur, con i suoi due milioni e mezzo di abitanti, è la tredicesima città più popolosa dell’India. Gli Inglesi la designarono come punto centrale del loro Impero delle Indie; e in effetti è proprio il centro geografico della penisola indiana, sebbene sia un po’ fuori dalle rotte turistiche. Secondo uno studio di Oxford nel periodo fra il 2019 e il 2035 Nagpur sarà la quinta città con la crescita più rapida al mondo, con un tasso di crescita media dell’8,41%. (Ai primi venti posti della classifica ci sono diciassette città indiane.) È un luogo vivo, pieno di movimento. Proprio in ottobre, ogni anno diventa una meta di pellegrinaggio per i buddisti, che in India sono una religione minoritaria. Nagpur è soprannominata anche il Cuore dell’India, la Capitale delle Arance (ne produce di rinomate) o la Capitale delle Tigri, per la grande quantità di questi animali presenti nelle riserve intorno alla città.
Mentre vagavo tra Dighori e Dongargaon, espressioni come “tasso di crescita” mi sembravano prive di consistenza. Anche “milioni di abitanti” era un concetto sfumato, astratto. Intorno a me non c’era nessuno. La parola “tigre”, invece, appariva nella mia mente come una cosa concreta. Era il tardo pomeriggio, la temperatura era calda, umida. Cercavo di camminare all’ombra degli alberi, per quanto possibile. Dal bosco venivano fruscii, schiocchi di rami. Che ne sarà di me, ho pensato. E adesso che sono tornato a casa, che sono lontano dalle tigri in carne e ossa, il pensiero non mi abbandona. Anche mentre scrivo, al sicuro nel mio studio, la domanda mi ferisce. Che ne sarà di me… che ne sarà di tutti noi?

HAIKU

Sale la nebbia.
Scricchiolano sul viale
passi di corsa.

 

PS: Questo è il decimo  “viaggio immaginario”. Ecco le puntate di gennaiofebbraiomarzo, aprilemaggiogiugnoluglioagosto e settembre.

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L’ultima sigaretta

#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.

L’uomo è irrequieto, si guarda intorno, esce di scena sulla Talacker per ricomparire un attimo dopo sulla Bahnhofstrasse. Si ferma nel triangolo di banchina che sorge come un isolotto fra i binari del tram. Avrà già compiuto settant’anni? La sua barba ricorda più quella di Rasputin che non quella di un hipster, e del resto l’abbigliamento non ha nulla di studiato. Semmai porta con sé un’aria trasandata dai colori spenti e polverosi. Incrocio il suo sguardo più volte, ma non se ne accorge. La sua attenzione è rivolta altrove. Si accende una sigaretta e riparte nervoso davanti al chiosco, attraversa la strada, poi si ferma in un punto preciso, scelto con cura, allinea i piedi, si abbassa leggermente, aggiusta pollice e indice della mano destra portandoli alle labbra, e infine lancia. La sigaretta – fumata solo a metà – vola per mezzo metro, prima di atterrare accanto al binario. Deluso, l’uomo riparte.
Al decimo mese, Paradeplatz sembra essere diventato un approdo. Un momento diverso dagli altri: ci si lascia il mare mosso alle spalle e ci si ferma per qualche ora, ancora coperti di sale, trotterellando qua e là con passo incerto, assorbiti da una quotidianità altrui di cui ogni tanto s’indovina qualcosa, più spesso non si capisce nulla. È ottobre inoltrato, ma la luce del sole insiste esuberante e l’ombra rimane sotto assedio.
Di nuovo l’uomo barbuto. Questa volta arriva dall’angolo fra Tiefenhöfe e Bleicherweg. Il pacchetto che tiene in mano è bianco e rosso. Recita: MAGNUM. Come potrebbe essere altrimenti? Sfila un’altra sigaretta e dopo averla accesa ritorna sulla rampa di lancio. Tre, due, uno. La sigaretta resta miracolosamente in piedi nel binario. L’uomo si ferma per qualche istante, in attesa di un tram che riporti il mozzicone in orizzontale. Ne transitano addirittura due. Dopo il trambusto, la sigaretta è effettivamente affondata all’interno del binario e l’uomo è scomparso. Una figura allegorica, forse.
Guardando il tram che sferraglia noto due dettagli. Il primo è una pubblicità: Erotik Adventskalender. Una conquista epocale: dopo il Bambin Gesù e i Santa Claus, la grande protagonista natalizia 2018 sarà Cleopatràs lussuriosa. Il secondo è un capolinea. Frankental. Il solito capolinea. Questa volta però mi ritornano in mente le parole pronunciate da Andrea in gennaio, durante il primo appuntamento zurighese. «La prossima volta dobbiamo andare a Frankental», aveva detto. Penso a tutti i progetti che abbiamo menzionato durante questi mesi: luoghi da vedere, testi da leggere, persone da incontrare. Ci restano solo due mesi a disposizione ed è improvvisamente chiaro chiarissimo che dovremo selezionare e lasciare cadere molte cose.
Dicembre incombe come una scure. Ma è giusto così, a poco servirebbe posticipare la scadenza. Questi siamo noi: la curiosità e l’entusiasmo che tende a moltiplicare, gli occhi che saltano a un futuro improbabile, in cui noi tendiamo comunque a credere, fino a essere persino colti alla sprovvista davanti al ridimensionamento (se va bene) o al fallimento (se va male). Forse più s’ignora il presente – che significa così spesso razionalizzare, pianificare, consolidare – e meno si deve pensare alla fine. Che però arriva, brutale.
Eccolo ancora, il moderno Rasputin. La sigaretta e il lancio che naturalmente, dopo il precedente exploit, non riesce. Ma fino a quando continuerà? E quando ha iniziato? Devo ricordarmi di andare a vedere quante sigarette stazionano inerti dentro le misteriose cavità del binario. Tre? Cento? Un milione? Sembra la versione 2.0 dell’ultima sigaretta (U.S.) di Zeno. Cerco Andrea, che oggi è particolarmente taciturno. Forse lui saprà dirmi qualcosa di più. Lo guardo e gli chiedo: Che sai tu, che taci?

[YB]

*

Un uomo parla al telefono, in italiano.
«Mi hanno comunicato la notizia ieri alle quattro e la sto ancora digerendo.» Fa una pausa. «È una questione di management, adesso non so che cosa succederà. Ma volevo dirtelo in anteprima… no, non è ancora ufficiale…» L’uomo continua la conversazione mentre sale sul tram numero 13 che, guarda caso, porta a Frankental. Io resto sul marciapiede, consapevole che non saprò mai niente di più su questa notizia confidenziale. Così come non saprò mai quale mistero nasconde l’uomo con i pantaloni rossi e un pupazzo di panda a grandezza naturale sulla spalla. E nemmeno saprò dov’è diretta la bambina che, transitando davanti al chiosco “Frido’s Marroni” canta una versione molto personale di Bella ciao.

 

Come facciamo a capire questo luogo? Gli unici che sembrano veramente a loro agio qui sono i tram, che passano e ripassano davanti a noi, scampanellano, si lanciano lunghi fischi stridenti, come grandi cetacei che parlino un’abissale lingua segreta. Lentamente mi aggiro intorno alla pensilina, registrando un audio con il telefono. Voglio catturare almeno cinque minuti sonori, per riascoltarli a casa, a occhi chiusi, immaginando di essere ancora a Zurigo. Scopro che il fatto di registrare ha quasi un potere ipnotico, come se piano piano perdessi tutti gli altri sensi e diventassi solo udito… finché la voce di Yari interrompe il sogno a orecchie aperte. Mi indica uno strano personaggio che lancia sigarette nei binari del tram. Poi leggiamo la poesia. Stavolta tocca a Mario Luzi e la lirica, tratta dalla raccolta Per il battesimo dei nostri frammenti (1985) parla proprio di Zurigo. (Ecco qui la versione in pdf con la spaziatura originale).

Sbrìgati,
non ebbe altro da dirmi
lei
dai suoi fradici rossori,
mi spinse nell’autunno dei suoi larici,
mi strappò in fretta la tazza
di nebbia e luce
che erano i suoi laghi, altra volta sue pupille.
M’incalzò quel monito
per tutte le sue valli,
giunse fino alle anatre
divenute molte
e nere tra Limmat e Zurchersee
e più verso la foce.
E tu
che mi guardi verso te
precipitare dirocciando
città rivierasca di che mare,
immagine o miraggio…

Che sai tu, che taci?

Fra la natura autunnale (lei) e la città (tu), il poeta precipita e spera di approdare a un chiarimento, a un mare che sciolga gli enigmi. Ma la città si schermisce, mentre le anatre divengono molte / e nere. Ho l’impressione che tutti noi rivolgiamo alla città la stessa domanda. Yari con il suo desiderio di andare a Frankental, io con i miei cinque minuti di puro ascolto, la bambina che canta, Rasputin che lancia sigarette. In una sorta di muto coro, insistiamo nel chiedere: che sai tu, che taci? Che cosa nasconde il cuore del cuore di Zurigo? Che cosa ancora Paradeplatz non ci ha raccontato, in questi dieci mesi di corteggiamento?
A un certo punto, mentre progettiamo il viaggio a Frankental per novembre o dicembre, Yari mi ricorda la leggenda metropolitana secondo cui sotto la Paradeplatz esterna s’intrecciano i cunicoli di una Paradeplatz scavata nella terra. Ci scambiamo un’occhiata. In fondo, che cosa ci costa provare? Apriamo la porta a vetri, ci avviamo lungo le scale. Come per scendere negli inferi bisognava pagare un obolo, per raggiungere il bagno pubblico di Paradeplatz bisogna infilare un franco nell’apposita fessura. Appena entrati cerchiamo una botola, un passaggio segreto. Ma il bagno è lindo, bianco, rispendente di specchi e porcellane. Una porta attira la nostra attenzione, anche solo per il laconico cartello: KEIN EINGANG, non si può entrare. Senza nemmeno consultarci, uno dopo l’altro, proviamo ad abbassare la maniglia. Niente, non si apre.
Mentre stiamo per uscire, scorgo un’altra porta chiusa. Questa si apre. Senza pensarci, oltrepasso la soglia e finisco in uno sgabuzzino. Mi accorgo che nei muri ci sono due buchi che sembrano portare nella profondità della terra. Che sia questo l’accesso? Provo a guardare in basso, ma non si vede niente. Vado a cercare Yari, passando per un’altra porta. Ho un attimo di disorientamento: sono tornato nel bagno… ma non è lo stesso bagno! Prima che la fantasia possa dipingere scenari di scambi dimensionali, capisco che sono finito nel bagno delle donne. Torno precipitosamente sui miei passi e riguadagno la superficie.
Fuori, tutto è come prima. Yari sta scattando qualche fotografia ed entrambi, senza bisogno di dircelo, ci rendiamo conto che siamo al terzultimo mese. Abbiamo passato ore in questa piazza, ma ci sembra che non sia abbastanza, ci sembra di non riuscire a scriverne come vorremmo. Però, a ben pensarci, questa è anche una fortuna. Quando evochiamo un luogo, una persona, un avvenimento, sempre dietro le nostre parole echeggia quell’interrogativo: che sai tu, che taci? E se non ci fosse questa domanda, forse non avremmo più ragioni per scrivere.

[AF]

*

Ne ho contate sette, di sigarette, sul fondo del binario. Ma Rasputin – mentre contavo – attendeva soltanto che mi allontanassi per riprovarci, con commovente tenacia. Perché? Qualcuno chiede perché? Le ragioni sono quelle taciute. Luminose e taciute. Possiamo ignorarle, ma regolano la nostra vita più di quanto immaginiamo. Ci pensavo salendo a due a due gli scalini dei bagni pubblici, l’anticamera del sottosuolo di Paradeplatz. Oggi ci siamo dovuti fermare sulla soglia. Ma KEIN EINGANG è un invito a continuare, a riprovarci. L’inverno bianco incalza, dice una voce amica. Sbrìgati.

[YB]

*

Accanto all’edicola, c’è una pila di copie del settimanale “Die Zeit”. Il titolo principale dice: Wer versteht noch die Welt? (chi capisce ancora il mondo?). Ma non è detto che il mondo vada capito a ogni costo. Forse il problema non è tanto comprendere, quanto essere nel mondo, con il mondo, parte del mondo. Il senso dell’esistenza si rivela nelle dissertazioni filosofiche o si nasconde invece nel lancio di una sigaretta?

[AF]

PS: L’audio di cinque minuti alla fine dura 6.17. Chi volesse può tenerlo come sottofondo mentre legge questo articolo. Segnaliamo comunque che dal minuto 2.50 si sente la bambina che canta Bella ciao.

PPS: La famosa “ultima sigaretta” (U.S.) è quella di Zeno, nel romanzo di Italo Svevo La coscienza di Zeno (1923). La lirica “Sbrìgati” venne pubblicata per la prima volta in L’Almanacco 1984, cronache di vita ticinese n. 3, Salvioni, Bellinzona 1983. In seguito Luzi la inserì in Per il battesimo dei nostri frammenti (Garzanti 1985), uno dei suoi libri più significativi.

PPPS: Vi segnaliamo le altre puntate della serie. Siamo già stati a Paradeplatz in gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugnoluglioagosto e settembre.

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Pispillòria

Qualcuno dice che le parole scritte rimangono, mentre quelle pronunciate si perdono nell’aria. Talvolta mi chiedo se non sia vero il contrario. Quante frasi stanno scolorendo su carte ormai dimenticate? Quanti siti e quanti blog ammuffiscono nelle cantine di internet? Quando parlo a voce alta, invece, ho la sensazione che le parole in qualche modo sopravvivano. E se non proprio le parole stesse, almeno la loro eco. Una parola che esce dalla bocca è viva, come una trota guizzante che salta in un ruscello: è un attimo, ma dai bordi del torrente qualcuno – volpe, orso, pescatore – è già pronto ad acciuffarla.
Mentre camminavo verso la mia piazzetta rotonda, ho incrociato un uomo che parlava al telefono. Aveva la faccia seria, una ruga fra le sopracciglia. Allora ho fatto la foto a un maiale, stava dicendo, perché sai, lì alla fattoria era pieno di grossi maiali. E ha aggiunto: Poi gli ho scritto che… Purtroppo non sono riuscito a cogliere il resto, sebbene abbia teso le orecchie. Di certo l’uomo non saprà mai che le sue parole, così volatili, dette al telefono, sono sopravvissute e sono atterrate qui. Eccole: la parola foto e la parola maiale e la parola fattoria. Io, in compenso, non saprò mai perché quel distinto signore abbia voluto immortalare esemplari robusti di razza suina, né che cosa abbia poi scritto all’interlocutore al quale, si presume, ha inviato l’immagine.
La piazzetta d’ottobre, nel tardo pomeriggio, è affollata. La luce radente ha un colore caldo, come il riflesso di un focolare. Le aiuole risplendono del giallo e del rosso delle foglie, per metà ancora sugli alberi e per metà cadute nell’erba. Mentre i bambini ammucchiano le foglie e se le gettano addosso, i vecchietti si sono divisi in due gruppi, ai bordi opposti della piazza. Qualcuno nota che scarseggiano i posti a sedere ed esclama: Qui ci mancano dei tavolini! In effetti, la piazzetta ricorda un bar: il tempo strascicato, le chiacchiere, gli sfottò. Uno dei pensionati mi vede seduto con il mio libro e si avvicina per scattarmi una foto. Non si arrabbi, mi dice, volevo provare il telefono nuovo. Un amico, dalla panchina, gli grida: Ma poi non metterla su fesbùk! E un altro mi avvisa: Attento che quello la mette su uatsàppe! Il fotografo accenna al distributore, a duecento metri, e mi dice: Volevo solo tenere d’occhio il prezzo della benzina… Poi tenta di fotografare anche i suoi amici, suscitando vivaci proteste.
Sto leggendo Notti delle mille e una notte, di Nagib Mahfuz. L’autore egiziano si lascia ispirare dalla storia del sultano Shahriyàr. In seguito al tradimento di sua moglie, il despota sanguinario aveva preso l’abitudine di passare ogni notte con una fanciulla vergine, uccidendola poi all’alba. Finché la coraggiosa Shahrazàd, ben decisa a sopravvivere, comincia a incantare il sultano inanellando storie su storie e lasciandole in sospeso al sopraggiungere dell’alba. Alla fine, dopo mille e una notte di suspense, il feroce sultano accorda la grazia a Shahrazàd, divenuta nel frattempo madre dei suoi figli. E poi? Da questa domanda parte Mahfuz, immaginando le vicende quotidiane del regno di Shahriyàr. Non basta aver subito il fascino della narrazione; il sultano ha da compiere ancora un lungo cammino verso il pentimento e la saggezza.
Mahfuz evoca mercanti, facchini, navigatori, geni buoni o malvagi, ciabattini, capi della polizia e vagabondi, uomini ricchi e donne misteriose. Quando alzo gli occhi penso a questi personaggi, nati nel Medioevo e ancora vitali, tanto che posso immaginarli qui sulla piazzetta. I pensionati spettegolano su ogni persona che passa, discutono della Roma e della Juve, del canone radiotelevisivo, degli stipendi (troppo alti) percepiti dai municipali e del caldo fuori stagione. Non sono certo le stesse cose di cui si bisbigliava nei caffè del Cairo o di Baghdad… ma se il contenuto diverge, l’arte della chiacchiera è sempre uguale.


Arriva un autobus giallo carico di bambini al rientro da scuola. Per qualche minuto, le voci infantili sovrastano il cicaleccio dei pensionati. Chiudendo gli occhi, mi dico che pure le grida dei bambini riecheggiano uguali da sempre. Mentre i giovani si disperdono, gli anziani riprendono a tessere le loro conversazioni. Intuisco la presenza di una storia dietro ogni nome, dietro ogni ricordo. Proprio qui – nel cerchio della piazzetta o nel libro di Mahfuz (fa poca differenza) – è il luogo dove nascono i racconti.
Pier Paolo Pasolini osservava che ogni racconto delle Mille e una notte comincia con un’“apparizione” del destino, che si manifesta attraverso un’anomalia. Ora, non c’è anomalia che non ne produca un’altra. E così nasce una catena di anomalie. Più tale catena è logica, serrata, essenziale, più il racconto delle Mille e una notte è bello (cioè vitale, esaltante). La catena delle anomalie tende sempre a ritornare alla normalità. La fine di ogni racconto delle Mille e una notte consiste in una “disparizione” del destino, che si insacca nella felice sonnolenza della vita quotidiana. Secondo Pasolini, insomma, il protagonista delle storie è in realtà il destino stesso.
Che cos’è la quotidianità se non un susseguirsi di piccole anomalie? Basta poco perché una cosa accaduta oggi sveli il riflesso di storie più antiche. I personaggi e le vicende passano attraverso i mari e le montagne, e si ritrovano uguali in mezzo a popoli diversi, grazie alla forza prodigiosa della narrazione. È la stessa forza che ha tenuto in vita Shahrazàd per mille e una notte, la stessa che anima le chiacchiere dei vecchietti e che muove le mie dita sulla tastiera del computer.


Quando il sole comincia a calare, rientro a casa. Costeggiando il parco di Villa dei Cedri, accanto a una macchia di bambù, sento una conversazione di uccelli. Mi addentro nel boschetto e raggiungo in silenzio una radura. Intorno a me gli uccelli parlano fitto, mentre da lontano viene la voce di un bambino che chiama suo padre. I pettegolezzi dei pensionati, le grida dei bambini, questo misterioso cinguettio… vorrei capire tutti questi idiomi, vorrei poterli trascrivere e farne personaggi, racconti, catene di anomalie. Ma è destino che, qualche volta, ci siano storie da accogliere senza poterle comprendere del tutto.
Anche il feroce Shahriyàr deve fare i conti con questa consapevolezza. Di fronte alla solitudine, alla notte, alla nostra fragilità di esseri umani, siamo tutti bisognosi di storie. Non tanto perché ci insegnano qualcosa, quanto perché ci fanno compagnia: le narrazioni ci rammentano che siamo circondati da altri esseri umani che come noi gioiscono e soffrono, impastati di paura e di speranza. Shahrazàd mi ha insegnato a credere che la logica umana inganna e ci immerge in un mare di contraddizioni, fa dire Mahfuz al sultano. Ogni volta che giunge la notte, mi ricorda che sono un poveraccio.

PS: Il titolo di questo articolo è una parola in disuso, ma non estinta. Sarei contento se, nel mio piccolo, riuscissi a donarle ancora uno slancio vitale. Ecco la definizione che ne dà il dizionario Treccani.
Pispillòria (s. f.). 1. a. Lungo cinguettio di molti uccelli: invece delle allodole e dei cardellini che facciano pispilloria, si vedono svolazzare dei corvi (Faldella). b. Brusio, cicaleccio confuso di molte persone. 2. estens. Discorso lungo e noioso; anche, pettegolezzo, mormorazione.
Oggi, per me, è stata una giornata ricca di pispillorie.

PPS: Nagib Mahfuz (1911-2006, premio Nobel nel 1988) pubblicò ليالي ألف ليلة (Layālī alf laylah) nel 1982. La traduzione italiana è di Valentina Colombo, per l’editore Feltrinelli, e risale al 1997. Le parole di Pier Paolo Pasolini sono tratte da Nico Naldini, Pasolini, una vita, Einaudi 1989. Pasolini è citato anche da Robert Irwin nel suo The Arabian Nights. A companion (2004), uscito in italiano nel 2009 per Donzelli con il titolo La favolosa storia delle Mille e una notte (traduzione di Fulvia De Luca).

PPPS: Torno ogni mese alla piazzetta anonima tra via Raggi e via Borromini, a Bellinzona (nella Svizzera italiana). Ecco le altre puntate: gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno, luglio, agosto, settembre.

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