La gioia, all’improvviso

È una serata di quasi primavera. Mentre apro il cancello, sento che lei mi sta aspettando. Arriva sempre in questo modo, quasi di nascosto: non bada agli appuntamenti. Del resto è anche colpa mia: non mi aspetto quasi mai di vederla e mi dimentico d’invitarla.
La gioia si manifesta così, nel cigolio di un cardine, nella luce soffusa di marzo, quando mi accorgo che dovrebbe essere buio e invece non lo è. C’è una lieve brezza, il suono di un treno. È un momento fuori dal tempo, sospeso com’è fra lo spegnere il motore dell’automobile e l’aprire la porta d’ingresso. Da una casa vicina si diffonde nell’aria un vago odore di patate arrosto.
Queste epifanie avvengono senza preavviso: a volte nella quotidianità, a volte nel tempo eccezionale di un viaggio. Ogni tanto le due situazioni si sovrappongono: anche tornare in un luogo noto può essere un’avventura, dipende dallo sguardo. La capacità di provare meraviglia non si acquisisce per caso, occorre prima distinguerla dallo stupore superficiale, in questi anni provocato e rafforzato dai social network: le persone e i paesaggi vengono banalizzati nel momento stesso in cui diventano un selfie, un post, un video condiviso e sottoposto al tritasassi dei cuoricini e dei “mi piace”.
Per esercitarmi ad afferrare la meraviglia e la gioia, ho accettato volentieri la proposta di registrare un podcast in dieci puntate. Ecco l’idea: prendere spunto da viaggi impervi e difficili per incrociarli con quelli che contraddistinguono la nostra vita di ogni giorno. Il podcast, prodotto da Rete2, il canale culturale della Radiotelevisione svizzera in lingua italiana (RSI), è nato in occasione dei cento anni del romanzo Il giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne. Ogni puntata si apre con una citazione, spesso un consiglio scritto da grandi viaggiatori del XIX secolo. Per conto mio, ho cercato di rivivere l’epica qui e oggi, nelle ferrovie e nelle strade della Svizzera che percorro fin dalla mia infanzia.
Ecco il link per ascoltare il podcast:

ALL’INCONTRARIO VA (DIECI PUNTATE)

La felicità del viaggio si confonde con la felicità di raccontarlo. Mentre preparavo le puntate, mi sono chiesto spesso che cosa voglia dire questa parola. Felicità. Specialmente nella versione inglese (happiness, happy) sembra diventata poco più di un passatempo, un pretesto per una storia di pochi secondi nei social network di cui sopra.
Penso che esista invece una felicità profonda, che orienta le persone verso l’aspetto migliore degli eventi, delle circostanze, degli incontri che tramano la vita. Non si tratta di un’emozione, con la sua fugacità, quanto del risultato di un allenamento, di una scelta rinnovata di continuo. Pur non allontanando il dolore (e come sarebbe possibile?), questa felicità sopravvive all’urto; anzi, in certi casi arriva perfino ad accogliere il dolore come un ospite, con rispetto se non con letizia. Naturalmente c’è il rischio che l’equilibrio si spezzi o che, al contrario, lo sforzo di mantenere desta la felicità assopisca la capacità di interrogarsi su sé stessi e sul mondo. C’è una felicità fatta di recinti, di armature. Forse una possibilità di salvezza consiste proprio nel saper ricevere la gioia volatile, fatta di brividi, di attimi che passano. Per cogliere questo sentimento la nostra percezione dev’essere attenta, non può soffocare dietro una corazza. Così cresce in noi una consapevolezza, fatta soprattutto di domande, che ci può consentire di essere felici senza ottundere la nostra sensibilità.

Ma questi sono discorsi. Ricordo invece un fatto che sono sicuro di avere vissuto e di avere anche letto in un libro. Non so più né il titolo né l’autore, e la scena che ho vissuto io, in una strada del mio quartiere, tende nella memoria a spostarsi lungo il viale di una città, dove un bambino che indossa un paltò di colore scuro cammina di fianco a un’inferriata. Ha tolto dallo zaino il righello e mentre avanza lo fa passare sulle sbarre, generando un ticchettio. Con meraviglia il bambino si accorge che non si tratta di un rumore: i colpi formano una melodia, con pause e accelerazioni, con passaggi convulsi accanto a momenti più distesi. Ero io quel bambino? Devo esserlo stato, perché il ricordo è preciso. Credo che la conclusione invece venga dal libro, che narrava una scena simile. Nel romanzo il bambino passa il giorno dopo accanto alla stessa inferriata, ma stavolta la musica non accade. Il righello batte allo stesso modo contro le sbarre, eppure tutto ciò che sente il bambino è un banale tactactactactactac, senza alcuna melodia.
In fondo, si tratta di riconoscere una musica. Qualcuno dirà che il primo giorno il bambino si era immaginato tutto, e che aveva ragione l’indomani nell’udire solo un’accozzaglia di rumori. Forse è la nostra mente a trasformare il tactactac in melodia? Può essere. E se anche fosse? Saper trarre una melodia dalle cose è un modo per essere felici. Se nel bambino c’è la predisposizione a trasformare il tactactac in musica, allora questa musica non può venire ignorata come una pura fantasticheria. In qualche modo la musica esiste, si nasconde dietro la facciata ordinaria delle cose.
Capita che non riusciamo a sentire la musica, anzi, a volte non riusciamo nemmeno a considerare la possibilità che essa risuoni da qualche parte. Quando il vuoto ci stringe d’assedio, siamo in grado soltanto di adeguarci a quella modalità: il silenzio sterile, la mancanza d’immaginazione, l’incapacità di pensare a un qualsiasi futuro che non abbia il colore e la consistenza del vuoto stesso. Credo tuttavia che l’inferriata, la lunga inferriata che sono i nostri anni dall’adolescenza alla vecchiaia, custodisca per noi la musica anche nei momenti di assenza. Il canto è nella natura delle cose, nella conformazione stessa del mondo, e perciò non può sparire per sempre.

Voglio concludere proprio parlando di una melodia che ritorna. Qualche settimana fa a Los Angeles fa è morto il sassofonista Wayne Shorter. Nato il 25 agosto del 1933, ha segnato la storia del jazz: la sua visione creativa, sia come compositore sia come improvvisatore si è continuamente rinnovata negli anni. Era un personaggio lunare, misterioso. Io l’ho scoperto per caso da ragazzo, quando mi ritrovai per le mani il disco Beyond the sound barrier: ricordo che mi sforzavo di capire, di decifrare il pensiero del musicista. In seguito ho ascoltato molti brani di Shorter, a partire dai suoi primi dischi. Vorrei condividere qui il brano 12th Century Carol, contenuto nel disco Alegría, uscito proprio vent’anni fa. Si tratta di un brano che aveva rubato alla classe di canto corale e che aveva conservato per quattro decenni, finché non sentì l’esigenza di suonarlo con un arrangiamento particolare: Shorter trasforma quell’antico canto a cappella in qualcosa di nuovo, che non si può definire. Le variazioni melodiche, il groove, l’esplorazione sonora. Mi sembra un ottimo esempio di un incrocio fra qualcosa di conosciuto e qualcosa d’ignoto anche allo stesso musicista.

In origine era una canzone natalizia chiamata Personent hodie e pubblicata nella raccolta finlandese Piae cantiones, risalente al 1582. Questa versione è il rifacimento di un altro canto, intitolato Intonent hodie e trovato in un manoscritto del 1360 nella città di Moosburg, in Baviera. Shorter compose la sua versione in un momento particolare: finalmente, dopo dolorose vicissitudini personali e anni di crisi, aveva ritrovato la serenità.
Tutto ciò che Shorter suonava in fondo era un modo d’interrogare il mondo. Anche le mie riflessioni sul viaggio e la felicità, alla fine, non sono che una domanda. Proprio per questo vorrei concludere con le parole dello stesso Shorter, in un’osservazione pronunciata poco dopo l’uscita di Alegría: «Quando mi intervistano, mi chiedono sempre della musica, musica, musica, musica, musica… e io dico no, no, no. La musica è al secondo posto, al primo c’è l’essere umano. A cosa serve la musica? A cosa serve qualsiasi cosa?»

PS: La frase di Shorter è tratta da Michelle Mercer, Footprints. The life and works of Wayne Shorter, Penguin 2004, tradotto da Chiara Veltri nel 2006 per Stampa Alternativa con il titolo Wayne Shorter. Il filosofo col sax.

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Yabluniv

“Viaggi immaginari” è una serie di reportage da luoghi che non ho mai visto, scelti a caso sulla mappa del mondo. A farmi da guida l’antico gioco Hanafuda, che scandisce le stagioni dell’anno. Ogni mese le carte mi accompagnano nella scrittura di un racconto di viaggio e di un haiku.

Giugno
Hanafuda: Peonia / Farfalla
Luogo: Yabluniv, distretto di Kaniv, Oblast’ di Čerkasy, Ucraina
Coordinate: 49°40’27.8″N; 31°26’21.0″E
(Latitudine 49.67439; longitudine 31.43916)
Un ristorante in campagna, una sera di giugno. I tavoli sono disposti sul prato, con le tovaglie candide, le caraffe di vino rosso. I campi e le colline fuggono all’orizzonte, mentre il sole diventa rosso fuoco prima di scomparire. Sotto la pergola, vicino all’ingresso del ristorante, c’è una tavolata allegra: due o tre famiglie che si godono il fresco, lontano dalla città rovente.
Un bambino sui quattro anni si stacca dal gruppo. È curioso, attento a quanto avviene ai tavoli vicini. Si avventura sul prato e, dopo un paio di minuti, decide di suonare la tromba. Accosta il pugno alla bocca, mimando il suono. Dapprima nessuno gli bada; dopo un po’ alcuni cominciano a osservarlo divertiti, altri infastiditi. I genitori ancora non si sono accorti dell’assolo di tromba. Il figlio è sempre più rapito dalla sua stessa musica, si muove a tempo, si divincola, come in un raptus. Il ritmo si fa più veloce, gli acuti più febbrili. Il bambino si ferma un attimo. «Sto suonando la tromba», dice. Poi riprende l’assolo, come in trance, mescolando varie melodie e terminando con una nota prolungata. Esausto, si lascia cadere supino sul prato, con gli occhi rivolti al cielo. Dal tavolo sua madre gli chiede: «Va tutto bene?» «Sì» risponde il bambino, ansimando. Poi, come tra sé, aggiunge: «Ehi, si vedono le stelle!»
Stavano sbiadendo le ultime stelle anche quando mi sono svegliato dopo una notte all’addiaccio, nel cuore dell’Ucraina. Una nebbiolina che saliva dal basso lasciava presagire che sarebbe stata una giornata calda. Stavo seguendo il crinale di una montagna, lungo l’estrema propaggine di una zona selvaggia ricca di foreste, di orsi e di fiumi tortuosi. Nel pomeriggio mi sarei abbassato fino a raggiungere la città di Yabluniv, della quale sapevo soltanto che aveva due o tremila abitanti e che era conosciuta per il suo museo ebraico. Avevo anche sentito dire che, poco lontano dalla zona urbana, c’era un colossale impianto di pollicultura. Non so perché, ma la cosa mi suscitava una certa inquietudine.
Quel mattino, comunque, ero solo. Forse per questa ragione ero attento ai dettagli: le volute della nebbia, il fruscio dell’erba sotto ai miei piedi, il volo di una farfalla. Quest’ultimo evento, in particolare, ha catturato la mia attenzione. In un certo senso, mi ha fatto venire in mente il bambino che fingeva di suonare la tromba. Avevo la sensazione di trovarmi davanti a un impeto creativo, a un gesto di arte involontaria. Involontaria? Quanto è cosciente una farfalla della sua grazia? Chi crea veramente quella bellezza? Ogni essere umano prova a dare una risposta: Dio, la natura, il caso. Ma di certo la bellezza è innegabile, per tutti. Il battito delle ali, l’irregolarità del volo, l’incanto dei colori, gli abbinamenti cromatici che si rinnovano di fiore in fiore. Che cosa c’è di più naturale di una farfalla ai margini di un sentiero? E nello stesso tempo, che cosa c’è di più meraviglioso?

HAIKU

Viene la sera –
le peonie si addormentano
stanche di sole.

PS: Questo è il sesto “viaggio immaginario”. Ecco le puntate di gennaiofebbraiomarzo,  aprile e maggio.

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Myself when I am real

Dicono i saggi che l’uomo non abbandona mai l’infanzia. Tutti cresciamo e presto o tardi diventiamo adulti; ma niente si cancella, in questo mondo. Che ne è di quegli anni di giochi, di spensieratezza, d’improvvisi turbamenti?
C’è un momento preciso in cui formuliamo il nostro primo pensiero da adulti. Può capitare a dodici anni, a quindici, certe volte bisogna aspettare i trenta (e anche oltre…). Secondo un’antica leggenda araba, quando per la prima volta pensiamo come un adulto l’infanzia vola via sotto forma di un piccolo uccello colorato. L’uccello se ne va a cercare altri come lui, altre infanzie alate. E finalmente arriva in uno dei luoghi dove abbiamo vissuto da bambini, e dove riecheggiano le grida, i pianti e le risate della nostra giovinezza.
Quando passeggio nel giardino di Villa dei Cedri, a Bellinzona, ho l’impressione che la mia infanzia si trovi proprio lì, sulle fronde degli alberi. Chiudo gli occhi e ascolto il canto degli uccelli. Uno di quei trilli è diverso dagli altri. È un segnale, un richiamo dal profondo della memoria. Se arrivo all’imbrunire, quando il parco è vuoto, gli alberi sembrano venirmi incontro, abbracciarmi. Lecci austeri, magnolie, faggi meditabondi, frassini, palme, querce silenziose, e poi le conifere, che invece sono più ciarliere, i cedri, i cipressi, gli abeti di Douglas, le sequoie.

 

In me nasce allora il desiderio di scrivere, perché le cose rimangano. Non si tratta d’immaginare romanzi ma di esprimere la quotidianità, gli eventi minimi che apparentemente si perdono nel flusso dei giorni. Ho provato a scrivere in questo modo nella raccolta Succede sempre qualcosa (Casagrande 2018), che riunisce reportage, divagazioni, storie di viaggio e anche racconti di pura invenzione. I vari pezzi sono allineati seguendo il corso delle stagioni, nel tentativo di rappresentare alcune parti di me stesso che – se non mi fermo a riflettere – rischiano di sfuggirmi, di sbiadire senza che me ne accorga. La scrittura inoltre mi aiuta, qualche volta almeno, a tenere a bada parti di me più pericolose, che mi spingono all’isolamento, alla malinconia, alla durezza.
C’è una canzone che mi ha ispirato nel comporre Succede sempre qualcosa. È anche un buon riassunto dei miei pensieri durante le passeggiate nel parco, con la mia infanzia che mi svolazza intorno. Il brano s’intitola Myself when I am real e venne suonato al pianoforte da Charles Mingus il 30 luglio 1967. Il pezzo proviene da Mingus plays piano (Impulse 1963), un album anomalo nella carriera di Mingus (1922-79), che fu un grande bassista e compositore. Se aveva già occasionalmente suonato il piano, questa infatti è lunica circostanza in cui possiamo ascoltarlo al pianoforte, da solo, per un intero disco.
Il sottotitolo dell’album, Spontaneous Compositions and Improvisations, indica bene lo stato di assoluta libertà con cui Mingus si mise al pianoforte. Myself when I am real è il brano di apertura (anche se venne suonato alla fine della seduta d’incisione). Più che un brano, sembra un album completo: non solo per la lunghezza (sette minuti e mezzo), ma soprattutto per la varietà di atmosfere. Mingus era un musicista passionale, impetuoso, un uomo senza peli sulla lingua che nel 1971 intitolò la sua autobiografia Beneath the underdog, in italiano Peggio di un bastardo. Ma in questo brano esplora con delicatezza il suo inconscio. Nel flusso dell’improvvisazione mostra differenti aspetti del suo carattere: la forza, il dolore, la rabbia insieme alla felicità e alla tenerezza. Fin dall’inizio si sente una dualità: un motivo a percussione convive con una melodia più eterea e sognante. Nel corso dell’improvvisazione ci sono momenti meditativi (intorno a 1.30) e improvvisi cambi di rotta, come quando a 1.40 entra in scena un ritmo di valzer, mescolato a sonorità spagnoleggianti (1.47). In generale si susseguono passaggi più duri, melodie serene, rallentamenti introspettivi (4.50) e nodi di tensione (6.08). A 6.40 c’è spazio per un’ultima variazione fra impeto e dolcezza, prima dei leggeri tocchi finali, che sembrano una confessione intima bisbigliata all’ascoltatore.

Mingus era un uomo dalla personalità complessa. Spesso si ha l’impressione che ci siano due o più Mingus in perenne dialogo e conflitto. Nessuno lo chiamava Charles o Charlie: era Ming per i musicisti e Mingus per tutti gli altri, compresa sua moglie. La sua autobiografia comincia così: «In other worlds I am three». Infatti nell’album Ah Um (Columbia 1959) c’è un brano intitolato Self-Portrait in Three Colors. Sempre nell’autobiografia, si riferisce a sé stesso con l’espressione «my boy» e poi «my man». Significativo anche il titolo dell’album Mingus Mingus Mingus Mingus Mingus (Impulse 1963).
Senza aspirare a tanta mingusiana molteplicità, posso dire di avere anch’io il mio daffare a gestire i vari Andrea che vogliono prendere la parola o che, più spesso, chiedono un po’ di silenzio. Proprio per questo mi è stato utile comporre Succede sempre qualcosa. Le varie modalità di racconto hanno in comune l’urgenza di una ricerca, di una tensione all’unità dei vari frammenti. L’unità non procede mai per esclusione, ma per una progressiva accoglienza della mia identità multipla. Scrivo romanzi polizieschi e racconti brevi, reportage e divagazioni letterarie; ho la mia età ma cerco di non perdere di vista l’uccello variopinto dell’infanzia. Il fatto di riunire e pubblicare questi trentasei pezzi, scritti nel corso degli ultimi anni, mi ha portato più domande che risposte. Ma questo è normale.
Camminando nel parco di Villa dei Cedri ripenso a me stesso quando sono reale, e mi sembra che il piano di Mingus accompagni la mia passeggiata. L’antropologo francese Pierre Sansot scrisse che «un parco va scoperto passo dopo passo, seguendo il filo dei mattini e delle sere, nel corso delle differenti stagioni. Non è la stessa cosa entrare nel parco seguendo questo o quel sentiero. Inoltre, e soprattutto, siamo in presenza di un viaggio interiore, che ci cambierà nel profondo del nostro essere.»
A qualunque età, questo tipo di viaggio è sempre da ricominciare.

PS: Nei prossimi giorni sono previste tre presentazioni di Succede sempre qualcosa. Saranno occasioni per dialogare sia con i lettori, sia con gli autori Marco Rossari, Mario Chiodetti e Yari Bernasconi. E anche, naturalmente, con i vari Andrea che popolano il libro…
MILANO: domenica 18 novembre, Bookcity, Mare Culturale Urbano (via Giuseppe Gabetti 15), ore 14. Con Marco Rossari.
VARESE: sabato 24 novembre, Galleria Ghiggini 1822 (via Albuzzi 17), ore 17.30. Con Mario Chiodetti.
LUGANO: domenica 25 novembre, LAC, Hall, ore 11. Con Yari Bernasconi.

PPS: Qui sotto, un breve filmato che presenta l’idea su cui è costruito Succede sempre qualcosa.

PPPS: Ecco l’inizio di Peggio di un bastardo, nella traduzione di Stefano Torossi per Marcos y Marcos (1996; a cura di Claudio Galuzzi).
«In altre parole: io sono tre. Il primo sta sempre nel mezzo, senza preoccupazioni ed emozioni; osserva aspettando l’occasione di esprimere quello che vede agli altri due. Il secondo è come un animale spaventato che attacca per paura di essere attaccato. E poi c’è una persona piena d’amore e di gentilezza, che permette agli altri di penetrare nella cella sacra del tempio del suo essere. E si fa insultare, e si fida di tutti, e firma contratti senza leggerli, e si lascia convincere a lavorare sottocosto o gratis. Poi, quando si accorge di quello che gli hanno fatto, gli viene voglia di uccidere e distruggere tutto quello che gli sta intorno, compreso se stesso, per punirsi di essere stato tanto stupido. Ma non ce la fa: e così si rinchiude in sé stesso.»

PPPPS: La citazione di Sansot proviene dal volume Jardins public (Éditions Payot & Rivages 1993; 2003).

 

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La Mano Rossa

A Natale ho ricevuto un piccolo rastrello di colore rosso. O forse arancione. In realtà, più che un rastrello, si tratta di un sarchio o di una zappetta. Ma il modo giusto per descriverlo è riconoscere, dietro le dita di ferro, il modello originario della mano umana. Insieme al dono c’era un biglietto con la foto di alcuni profughi: una madre, due bambini, un uomo con la barba. In alto, la parola Betlemme scritta in arabo e in ebraico. Sotto, in grassetto: Still crossing. Più in basso: Everything will be ok, Andrà tutto bene, Tout ira bien, Todo irá bien. Il biglietto non aiuta a capire il rastrello, se non forse come un invito a dissodare la terra, affinché possa attecchire la pace.
Per me la Mano Rossa è simbolo di avventura: ricordo una banda di spietati assassini, nei fumetti di Tex Willer. È anche uno scettro, un bastone magico, un’antenna che capta emozioni. Soprattutto è uno mezzo per favorire la scrittura, sarchiando la terra allo scopo di consentire la circolazione dell’aria e della luce.
Ho tenuto la mano rossa sulla scrivania e, giorno dopo giorno, ho scritto un piccolo diario. Lo potete leggere qui: Diario della Mano Rossa (sono poche pagine). Il mio augurio è che ognuno di noi sappia compiere il gesto primordiale di spezzare la crosta del terreno. Bisogna smuovere le zolle e rompere la durezza dei pregiudizi, delle identità acquisite, perché germoglino incontri, novità, storie inaspettate.
In questo senso, vorrei proporvi di ascoltare Fleurette africaine, un brano inciso il 17 settembre 1962 da Duke Ellington (piano), Charles Mingus (contrabbasso) e Max Roach (batteria). È un incontro inedito (e unico) fra musicisti di generazioni diverse: il grande classico Ellington, nato nel 1899, indiscusso maestro dello swing, l’irregolare Mingus, nato nel 1922 (e già cacciato nel ’53 dall’orchestra di Ellington per avere inseguito il trombonista Juan Tizol con un coltello sul palcoscenico), insieme all’ombroso Max Roach, nato nel 1944 (e passato anche lui dall’orchestra di Ellington nel ’41 per una sostituzione). A quell’epoca Mingus stava lavorando ai suoi più grandi album (Oh Yeah nel ’61, The Black Saint and the Inner Lady nel ’63), mentre Roach aveva pubblicato nel ’60 We Insist! – Freedom Now Suite, una pietra miliare nella protesta contro la segregazione razziale. Tre musicisti, tre percorsi, tre linguaggi… e un brano memorabile.

Fra i musicisti c’è ascolto, c’è grande rispetto, c’è la voglia di mettersi al servizio della musica, ignorando le etichette. Mingus gioca sul vibrato, mentre Roach batte solo sui tom, contribuendo a creare un’atmosfera ipnotica. Al piano Ellington disegna il ritratto di un piccolo fiore che spunta nel folto della giungla, lontano dagli sguardi. La melodia delicata, gli accordi talvolta dissonanti, le contromelodie di Mingus, tutto contribuisce a dispiegare una grazia minuta, apparentemente fragile, ma inestirpabile nella sua gratuità. Anche se non lo vede nessuno, anche se a molti può sembrare inutile, il piccolo fiore – come disse Duke Ellington – cresce ogni giorno più bello.

PS: Il brano
Fleurette africaine, composto dallo stesso Ellington, si trova dall’album Money Jungle (Blue Note 1962). La frase di Ellington proviene dalla sua autobiografia Music is my mistress (1973, tradotta in italiano da Franco Fayenz e Francesco Pacifico nel 2007 per Minimum Fax con il titolo La musica è la mia signora).

PPS: Grazie a Caterina per l’escardilho e per il biglietto.

PPPS: Buon 2018!

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Misterioso

Ero uno studente all’università di Zurigo quando un giorno, girando per le strade del Niederdorf, entrai in un negozio di dischi usati. All’epoca cominciavo a interessarmi di jazz, in maniera disordinata e curiosa. Così fui colpito dal nome di un pianista: Thelonious Monk. Non sapevo niente di lui, e credo proprio che comprai il disco per il nome (e forse per il bizzarro disegno sulla copertina, dove Monk appare con un casco da aviatore). Arrivato a casa, mi sedetti in balcone e ascoltai il disco. Non avevo nessuna competenza musicale, ma il suono di quel pianoforte mi riempì di meraviglia. A colpirmi furono la sua forza e insieme la sua lontananza. Quei trilli, quelle note ribattute, quelle dissonanze. Mi pareva di trovarmi in un altro mondo, somigliante al nostro eppure profondamente misterioso. Le melodie erano facilmente distinguibili, le canzoni avevano perfino qualcosa di antico… ma per me era tutto nuovo.
Misterioso è la parola giusta. Questo infatti è il titolo di uno dei brani più belli composti da Monk, registrato per la prima volta il 2 luglio del 1948 con il vibrafonista Milt Jackson. È un blues in dodici battute eppure, per la sua atmosfera surreale, è diverso da ogni altro blues. Questo a causa della melodia che marcia su e giù per la tastiera a scalini di sesta che sembrano un esercizio per principianti – scrive il critico John Szwed – ma soprattutto a causa dell’assolo di Monk, che lascia stupefatti per il suo rifiuto della logica convenzionale del blues. Le frasi sembrano chiudersi sempre su una nota sbagliata, gli intervalli scelti non sembrano quelli corretti, a un certo punto sembra addirittura restare indietro, suonando ripetutamente intervalli di seconda, dissonanti. Ogni volta che lo riascolto, mi sembra che non abbia perso niente della sua contemporaneità; del resto, anche il tocco di Monk al pianoforte è sempre unico e inconfondibile.


Sono passati cento anni dalla nascita di Thelonious Sphere Monk, avvenuta il 10 ottobre del 1917. (Sì, anche il secondo nome non è male.) Sposato e padre di due figli, Monk ebbe una vita difficile, a causa di una grave sindrome depressiva, intensificata dal consumo di alcol e stupefacenti. La moglie Nellie gli fu sempre vicina, così come altre persone; in particolare Nica, cioè la baronessa Pannonica de Koenigswarter, sua grande amica e protettrice, tanto che lo ospitò per gli ultimi dieci anni di vita (dal 1972 al 1982). A lungo Monk non fu curato nella maniera adeguata, e spesso i critici lo descrivono come un matto, un istintivo, uno che suonava le note sbagliate. Lui invece era profondamente consapevole della sua arte. Anche dopo che si era chiuso nel silenzio, durante gli anni Settanta, continuò a non apprezzare i giudizi dei critici (come quello da me citato sopra…). Nel 1976 gli accadde di sentire una trasmissione radiofonica, nella quale un musicologo dichiarava che Monk era un grande musicista nonostante suonasse le note sbagliate sul piano. Thelonious arrivò al punto da chiamare la radio e lasciare un messaggio, chiedendo che qualcuno dicesse a quel tizio in onda: “Il piano non ha note sbagliate”.
La musica di Monk non è sbagliata. È diversamente giusta. È come un pomeriggio di sole nel tardo autunno, quando a sederti in piazza pare di essere in estate, e ti rimbocchi le maniche e ti viene voglia di una birra, mentre la luce accarezza gli alberi nudi sui viali. In quei momenti ti piace stare in silenzio, fissando l’attenzione su qualcosa di piccolo e immediato: un riflesso sui vetri, il cigolio di un tram, il passaggio di un corvo sopra i tetti delle case. Il calore del pomeriggio è un abbraccio che fa vibrare qualcosa dentro di te, come una voce amica che ti raggiunge al telefono quando non te lo aspettavi. Mi sembra che tutto ciò, in maniera insondabile, sia racchiuso nella musica di Thelonious Monk.
A volte, quando scrivo e non capisco più a che punto sono, metto un disco di Monk. Come narratore, avverto la presenza di una piccola storia in ogni suo brano: ci sono gli imprevisti, i colpi di scena, la tensione dell’attesa e, nel momento giusto, il silenzio. Monk non amava gli effetti spettacolari, proprio perché sapeva bene – come ebbe a dire in un’intervista – che il silenzio è il rumore più forte del mondo. È famoso un suo silenzio in un’incisione di The man I love, registrata la vigilia di Natale del 1954 con Miles Davis alla tromba e con tre membri del Modern Jazz Quartet (Milt Jackson al vibrafono, Percy Heath al basso e Kenny Clarke alla batteria). Il pezzo comincia con il ritmo lento di una ballad, mentre Davis espone il tema; al minuto 1.21 Jackson parte con l’assolo e la band raddoppia il tempo. Quando è il turno di Monk, a 4.51, lui decide di esporre un’altra volta il tema; ma lo fa nel tempo originale, mentre gli altri continuano a doppia velocità. A 5.23, all’improvviso, Monk si ferma. Il basso e la batteria proseguono per nove battute, poi Davis richiama all’ordine il pianista con una frase suonata lontana dal microfono (5.36), quasi per esortarlo a proseguire. Monk allora si lancia in un’improvvisazione, finché a 6.02 Davis interviene con una frase decisa ripetuta quattro volte.

Su questo episodio si sono fatti molti pettegolezzi, anche perché, durante la stessa sessione, Monk aveva già dato qualche segno di stravaganza. Qualcuno dice che il pianista si fosse addormentato, qualcuno che si fosse alzato per danzare (come faceva spesso durante i suoi assoli), altri pensano che fosse andato in bagno o che si fosse smarrito e non sapesse più che cosa suonare. Altri ancora riferiscono di un litigio fra Monk e Davis (ma i due smentirono; e anzi Monk raccontò che quella sera fecero le ore piccole insieme). In realtà, se si ascolta la prima versione del pezzo, pubblicata in seguito, si scopre che Monk aveva fatto la stessa cosa, lasciando semplicemente una pausa più breve. La spiegazione più semplice è quindi che Monk avesse voluto quel silenzio. Inaspettato, certo. E, com’è giusto che sia, misterioso. Quando scrivo, o quando parlo, cerco sempre di ricordarmi che il silenzio è una modalità espressiva; non è soltanto una pausa fra i suoni o le parole, ma ha una sua consistenza e un suo significato.
In tanti hanno provato a definire la musica di Monk. L’autore giapponese Murakami Haruki, per esempio, la descrisse come ostinata e soave, intelligente ed eccentrica e, per una ragione che non capivo bene, nel complesso estremamente precisa. Una musica che aveva un’incredibile forza di persuasione su qualcosa nascosto dentro di noi. Molti provarono a interrogare lo stesso Monk, ma lui era un esperto nel dirottare le domande. Resta memorabile per esempio la sua ultima intervista, che ebbe luogo a Città del Messico in occasione del Festival internazionale del jazz del 1971. Così la racconta Arrigo Arrigoni in Jazz foto di gruppo (Il Saggiatore 2010).

PEARL GONZALES. «Oltre alla musica esiste qualcosa che la interessa?»
MONK. «La vita in generale.»
G. «E cosa fa in questa direzione?»
M. «Continuo a respirare.»
G. «Qual è secondo lei lo scopo della vita?»
M. «Morire.»
G. «Ma tra la nascita e la morte c’è molto da fare.»
M. «Mi avete fatto una domanda e io vi ho dato una risposta.»
Girò i tacchi, lasciando Miss Gonzales interdetta, per sempre.

Quanto a me, vorrei concludere ascoltando un brano che dura meno di un minuto. Il 26 giugno 1957, in un periodo difficile della sua vita, Monk era in studio per registrare con altri sei musicisti. Il giorno prima avevano inciso qualche brano, ma con grande fatica. La sera del 26 Monk si presentò con l’arrangiamento di un inno che aveva imparato da bambino, Abide with me. Monk adorava quella melodia, composta nel 1861 da William Monk (nessuna parentela) con il titolo Eventide. Dopo che il poeta Henry Francis Lythe ebbe scritto la poesia Abide with me sul letto di morte, le parole furono sovrapposte all’inno di William Monk. Di sicuro Thelonious le aveva in mente quando quella sera insistette perché i quattro fiati registrassero l’inno. Così lui tacque mentre Ray Copeland (tromba), Gigi Gryce (sax alto), John Coltrane (sax tenore) e Coleman Hawkins (sax tenore) suonavano Abide with me.

The darkness deepens; Lord with me abide, / When others helpers fail and confort flee, / Help of the helpless, O abide with me. (“Il buio si addensa; Signore, resta con me, / Quando non vale altro soccorso e fugge ogni consolazione, / Aiuto degli indifesi, resta con me”). Proprio questa registrazione, il 22 febbraio del 1982, accompagnò il funerale di Thelonious Monk. Oggi, a cento anni dalla sua nascita, Monk ancora ci insegna a cercare l’originalità vera, che significa fedeltà alla propria voce e disponibilità allo stupore. Come disse lui stesso, a volte suono cose che nemmeno io ho mai sentito.

PS: Le citazioni di Monk (nella foto qui sopra, a sinistra, con Dizzy Gillespie) e le parole di Abide with me provengono da Robin Kelley, Thelonious Monk. Storia di un genio americano, pubblicato nel 2009 e tradotto da Marco Bertoli nel 2012 per Minimum Fax. Il commento di John Szwed è tratto da Jazz! Una guida completa per ascoltare e amare la musica jazz, pubblicato nel 2000 e tradotto nel 2009 da Francesco Martinelli per EDT. La frase di Murakami viene da Ritratti in jazz, scritto nel 1997 e tradotto da Antonella Pastore nel 2013 per Einaudi. L’episodio legato a The man I love è raccontato anche da Franck Bergerot nel numero 699 (ottobre 2017) della rivista francese Jazz Magazine (Le jour où Monk eut un trou). La stessa rivista presenta un dossier per il centenario di Monk, con cento brani essenziali. Una discografia si trova anche nel volume di Kelley.

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