Appunti sulla resistenza

Propongo anche qui un articolo apparso sabato 21 marzo 2020 sul quotidiano svizzero “La Regione” (lo potete leggere nel sito del giornale). Non ho modificato il testo, ma ho aggiunto qualche fiore primaverile.

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Quando esco a fare la spesa, nelle strade vedo facce tirate e sguardi che misurano le distanze. Abbiamo paura, è normale. Una certa ansia è inevitabile e perfino utile. Mi chiedo tuttavia: come fare perché il panico non abbia l’ultima parola? Più che limitarci a esclamare #iorestoacasa, dobbiamo forse aiutarci a dare un senso a questo limite, a questa immobilità. Non basta sognare il futuro – #andràtuttobene – ma possiamo cercare forme di bellezza anche dentro le circostanze avverse.
Dopo che hanno chiuso le scuole elementari, le mie figlie hanno cominciato a giocare alla scuola. Ognuna delle due impersonava il ruolo di una maestra. Entrambe avevano una classe di una ventina di allievi, a cui si rivolgevano con domande, richieste, rimproveri. Hanno invaso ogni spazio con esercizi, compiti, comunicazioni ai genitori, pagelle, quaderni, carta, colla, matite. Le loro maestre (quelle vere) hanno inviato dei compiti (veri), ma tutto si mescola nel gioco e la mia casa è piena di alunni immaginari: me li ritrovo sul divano, in sala da pranzo, nel mio studio. Prima di andare in bagno, ormai, dico alle bambine: se ci sono allievi immaginari qui dentro, per favore cacciateli fuori! Fra l’altro, proprio in questi giorni avremmo dovuto traslocare, ma naturalmente non è possibile. Siamo ancora qui, viviamo un’altra primavera dentro queste mura a cui avevamo già detto addio.
A volte le mie figlie scorgono dall’altra parte del giardino una loro coetanea. Si scambiano qualche parola con imbarazzo, nonostante abbiano passato intere giornate a giocare insieme. Non sono abituate alla distanza. A me sembra triste vederle così, ma dopo un po’ le bambine cominciano a scambiarsi informazioni. «Quante figlie avevi tu?» chiede l’una indicando le bambole dell’altra. «Sette» risponde l’interpellata, e precisa che «erano tutte appena nate». Io mi complimento per il parto settigemellare e mi abituo all’idea di essere nonno. Ecco una forma di resistenza: affidarsi all’immaginazione per combattere l’angoscia.
Certo, il dolore non si cancella, anche perché la pandemia non è uguale per tutti. C’è chi deve spostarsi ogni giorno per lavorare, chi è senza casa, chi è separato dai suoi famigliari, chi non riesce più a tirare avanti. Non siamo in grado di colmare tutte le sofferenze, ma possiamo fare del nostro meglio per infonderci coraggio. Come scrittore, non capisco se sia meglio offrire la mia testimonianza o il mio silenzio. Se mi avventuro nei social network vengo inondato da un flusso di notizie, teorie, discussioni, litigi, appelli, racconti, drammatizzazioni e sdrammatizzazioni… Questo mi spaventa. Perché proprio io dovrei aggiungere altre parole?
Il romanziere Andrea Pomella, descrivendo sé stesso mentre in questi giorni fa ginnastica insieme a suo figlio, annota che gli è «sembrato di sentire la sua voce da grande che tenta di ricordare. Allora – aggiunge – ho pensato che non voglio perdermi niente, nemmeno queste giornate messe in fila sul davanzale come bottiglie vuote ad asciugare». Anch’io tento come tutti d’infondere vita a queste giornate-bottiglie. Perciò scrivo questo articolo, leggo, riordino la casa, cucino, suono il sax, mi cimento con lo studio dell’arabo (o almeno ci provo…), ogni tanto lavoro alla radio e mi collego con i miei studenti liceali per le videolezioni. L’altro ieri abbiamo letto insieme Vittorio Sereni, e in particolare un testo risalente agli anni Quaranta. Prigioniero degli americani in Algeria, il poeta scopre che è difficile pensare ad altro «poiché questo è accaduto: che i fatti si sono sostituiti alle immagini; che quattro o cinque sentimenti elementari si sono sovrapposti all’immaginazione».
Guardando sullo schermo le facce degli allievi, ho indovinato nei loro sguardi la stessa difficoltà a pensare ad altro. Tuttavia, insieme alla fatica di restare sempre in casa, ho intravisto anche la consapevolezza che non sia inutile, in queste circostanze, parlare di poesia. Sereni racconta che nel campo di prigionia c’era chi scriveva, come lui. Ma subito dopo dice che la sua fiducia è soprattutto «per l’ignoto che tornerà a casa senza preziosi quaderni nel sacco perché osa ancora credere alla pazienza e alla memoria». Ecco un’altra forma di resistenza: credere alla pazienza e alla memoria.
Proseguendo la lezione, ci siamo imbattuti in un perfetto endecasillabo: «Così, distanti, ci veniamo incontro». Un verso composto da Sereni più di settant’anni fa, in una situazione diversa, ci ha raggiunti come un dono (qualcuno ha detto che potrebbe diventare un hashtag: #cosìdistanticiveniamoincontro). Ho deciso che lo prenderò come un’indicazione di rotta. La disponibilità all’incontro, all’incontro vero, può aiutarci a lottare contro la sofferenza, le ingiustizie, la paura, la fatica.
«Così, distanti, ci veniamo incontro.»

PS: Grazie al quotidiano “La Regione” e in particolare a Lorenzo Erroi, che mi ha esortato a scrivere questo articolo nonostante la mia iniziale reticenza. Grazie anche ad Andrea Pomella: la sua immagine di questi giorni come bottiglie vuote mi ha spinto a riflettere sulla mia quotidianità.

PPS: Ho scattato queste fotografie nelle scorse settimane (fino all’inizio di marzo). La prima immagine, invece, ritrae una genziana primaticcia cresciuta nel giugno 2019 sull’altopiano della Greina, a circa 2300 metri sul livello del mare. Ho sempre amato le genziane primaticce (Gentiana verna) perché in luoghi aspri e remoti annunciano lo scioglimento delle nevi. Il loro blu profondo, misterioso, esprime la lontananza e forse anche la promessa di una stagione più serena.

PPPS: Dal sito del liceo, ecco un frammento di video in cui – rispondendo a una domanda sulle lezioni in diretta video – cito anche il verso di Vittorio Sereni.

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Di palombari e montagne

Era un giorno d’estate quando Tommi, svegliandosi la mattina, decise di ammazzare qualcuno. La sera non aveva chiuso le gelosie, così prima che suonasse la sveglia un raggio di sole l’aveva già strappato dal sonno. In realtà non fu una vera e propria decisione, ma una vaga idea che si diffuse tra i residui di sogno e il primo pensiero cosciente.
Comincia così il mio romanzo L’uomo senza casapubblicato nel 2008 da Guanda e ristampato poche settimane fa in edizione tascabile (da tempo era esaurito). In questi giorni sono tornato a sfogliare questo libro, per preparare una conferenza che terrò venerdì 2 giugno alle 18 a Malvaglia, nell’Atelier Titta Ratti (proprio a Malvaglia è in parte ambientata la vicenda).
L’uomo senza casa racconta di un paese di montagna sommerso dall’acqua per la costruzione di una diga. In quel villaggio è cresciuto Elia Contini, che tanti anni dopo tenta di sbarcare il lunario inventandosi il mestiere d’investigatore privato nella Svizzera italiana. E nello stesso villaggio è nato anche Tommaso Porta. Tommi è un coetaneo di Contini, un uomo fragile, squilibrato, che negli anni ha covato sempre di più un sentimento di odio e rancore. Piano piano, intorno a quel lago di montagna e a quelle case sommerse, cresce la tensione, la rabbia, la violenza fisica e quella burocratica, altrettanto temibile.
Per l’idea del lago artificiale e delle case sotto l’acqua mi sono ispirato a un ricordo d’infanzia. Quando avevo circa dodici anni, mi capitò di salire con i miei famigliari in valle Malvaglia, dove nacque la mia bisnonna Maria Abate (poi Maria Maggini). La sua famiglia viveva la transumanza stagionale, facendo la spola fra il villaggio principale e i vari maggenghi e alpeggi o “monti”. Il più alto è in una valle laterale, la val Combra, e si chiama Pulgabi.
Salimmo dunque fin lassù e passammo lungo la diga, dove sulla destra c’è la galleria dentro la roccia che sbuca sul sentiero per la val Combra. Mio padre mi spiegò che sotto quella massa di acqua immobile erano seppellite cascine, stalle, campi, muretti e sentieri. E anche un oratorio con porticato. Davanti a quell’oratorio sostavano le donne che salivano ai vari “monti” con la gerla sulle spalle. Camminavano insieme da Malvaglia; all’oratorio, dopo una preghiera, le donne che proseguivano per la valle Malvaglia si separavano da quelle che salivano verso la val Combra. Anche la mia bisnonna ragazzina e con lei sua madre si saranno fermate decine di volte sotto quel porticato. Mio padre mi raccontava che l’oratorio è ancora in piedi, giù in fondo al lago, come un resto spettrale, acquatico, quasi il fantasma di una vita perduta.
Anni dopo, scrivendo L’uomo senza casa, modificai molte cose, cambiai la cronologia degli eventi e immaginai che sotto il lago ci fosse un intero villaggio, con la casa di famiglia di Tommi Porta e anche quella di Elia Contini. Seguendo il filo della storia, mi accorsi che quelle casupole di sasso, sepolte al buio e al freddo della dimenticanza, avevano ancora una storia da raccontare. C’erano vecchi delitti, segreti da non rivelare, nodi da sciogliere. E allora ecco che Contini diventa palombaro, per un tuffo nell’acqua azzurra e soprattutto per un tuffo dentro il tempo, anch’esso azzurro e misterioso, come le montagne che appaiono in lontananza.
La vicenda poliziesca si sviluppa fra omicidi e imbrogli legati alla speculazione edilizia. Sullo sfondo, c’è anche il riciclaggio di denaro di un giro di società off shore. La mia intenzione narrativa era quella d’intrecciare l’aspetto più spettacolare e poliziesco con la risonanza più intima e sommessa della diga, della casa in fondo al lago, del viaggio che ognuno di noi prima o poi deve intraprendere alla ricerca di un luogo da chiamare “casa”.
Elia Contini, il protagonista, è cresciuto in un paese di montagna. Dopo tanti anni torna alla diga di Malvaglia e si ferma a guardare la superficie dell’acqua, pensando a suo padre, alla sua infanzia, al passato che ancora lo avvolge e gli impedisce di andare avanti. Più in là, nel corso del romanzo, Contini e gli altri personaggi verranno sorpresi da una grande nevicata. Le vie di comunicazione sono bloccate. È la nevicata del decennio, che trasforma completamente il paesaggio. E Contini si trova in montagna, nel cuore del bosco, lontano dal sentiero.

Si spazzolò la neve dal corpo, battendo le mani per scaldarsi. Nel mezzo di una notte d’inverno, quando fa davvero buio, il bosco parla a chi lo sta a sentire. Ogni fruscio, ogni scricchiolio di corteccia e ogni tonfo sulla neve raccontano una storia. Prima di rimettersi in viaggio, Contini rimase in ascolto per qualche secondo. Da qualche parte, quella notte, le volpi andavano silenziose in cerca di cibo. I vecchi alberi gemevano sotto il peso della neve e il ghiaccio stringeva l’acqua dei ruscelli. Contini riprese a camminare. Quello era il suo territorio, era il suo bosco. E lui quella notte avrebbe chiuso i conti con il passato.

Ancora oggi, quando cammino in montagna, mi capita di sentirmi preso nella stessa morsa. Non sono coinvolto in vicende di delitti o riciclaggio di denaro, naturalmente, ma sento il medesimo strazio che invade l’animo di Contini. In qualche modo le montagne sono memoria del mio passato, delle cose scomparse. Nel gesto del camminare, nella libertà dei pensieri e nel mutare repentino delle stagioni cerco di trovare la forza per andare avanti, per vedere, per sentire, per vivere le cose vecchie come fossero nuove. Non è forse così? Se uno guarda con attenzione, le cose non sono sempre nuove?
Venerdì prossimo, all’Atelier Titta Ratti, tornerò per una volta a presentare L’uomo senza casa, anni dopo la prima uscita. Sarà come viaggiare nel passato; tuttavia cercherò di non restare ingabbiato, ma di interrogarmi sull’evoluzione della mia scrittura. Intorno saranno esposte le immagini legate al libro d’artista Commistioni, segni e voci in un territorio di Carla Ferriroli. Nel volume sono presenti le incisioni dell’artista insieme ai testi degli scrittori Remo e Sandro Beretta. Carla Ferriroli ha voluto compiere una ricognizione nel territorio d’origine, provando a esaminarlo con uno sguardo differente, tornando in quei luoghi e in quei paesaggi che quando ci si stava dentro apparivano scontati ma che nella lontananza diventano un frammento importante di memoria. È un percorso innovativo ma nello stesso tempo innestato su una consuetudine. Ciò che io potevo fare, partendo dalla mia attività artistica, era di prendere il mio taccuino e guardare e disegnare, muovendo lo sguardo, fattosi più attento, tra montagne e prati e case, nella quiete di giorni silenziosi: una curiosità girovaga, con la matita, la penna o i pastelli in mano.
Spesso, nelle opere che parlano di montagna, è centrale il tema dell’abitare: il desiderio di tornare a casa, oppure quello di riuscire a comprendere le poprie origini. Ho trovato questa domanda anche nel bel romanzo di Paolo Cognetti Le otto montagne (Einaudi 2016). Il protagonista sale su una vetta e, nel quaderno con le firme degli alpinisti, scopre due righe scritte da suo padre l’anno precedente, poco prima di morire: Tornato quassù dopo tanto tempo. Sarebbe bello restarci tutti insieme, senza vedere più nessuno, senza dover scendere a valle. Un messaggio del genere non può che suscitare domande. Tutti chi?, mi chiesi. E io dov’ero quel giorno? Chissà se aveva già cominciato a sentirsi il cuore debole, o che cos’altro gli era successo per scrivere quelle parole. Senza dover più scendere a valle. Era lo stesso sentimento che gli aveva fatto sognare una casa nel posto più alto, impervio e isolato, dove vivere lontano dal mondo.
Venerdì sera, a Malvaglia, cercherò di capire che cosa significhi sognare una casa nella mia scrittura. Insieme alle opere di Carla Ferriroli ci sarà la musica di Stefano Moccetti. A un certo punto, come succede sempre, le parole non basteranno più, e allora per dare un’occhiata a ciò che si nasconde sotto il lago, non resterà che affidarsi alle note della chitarra…

PS: Il video qui sopra è stato registrato al festival di Montreux il 14 luglio 1986. Al concerto parteciparono Michel Petrucciani (piano), Wayne Shorter (sax tenore) e Jim Hall (chitarra). Beautiful love è un duetto fra Petrucciani e Hall, durante il quale due artisti di generazione e di esperienze diverse si trovano mirabilmente e riescono a costruire, nell’immediatezza di un dialogo, qualcosa di nuovo.

PPS: Le parole di Carla Ferriroli, così come l’incisione riprodotta sopra, sono tratte dal libro d’arte Commistioni, al centro di un’esposizione all’Atélier Titta Ratti di Malvaglia fino al 5 giugno 2017. L’immagine della volpe è una cartolina che mi hanno inviato; non so chi sia l’autore.

PPPS: Del romanzo L’uomo senza casa avevo già parlato qui.

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Z

IMG_9567La casa è molto vecchia, con i muri di colore ocra e le imposte verdi. Dietro, comincia subito la montagna. Fra i cespugli e le rocce, una baracca che alloggia cinque grossi conigli. In alto, dove il pendio è più scosceso, la terra è umida: sotto il suolo si nasconde una sorgente. L’operaio portoghese che alleva i conigli sta lavorando per riportarla alla luce. È probabile che all’inizio del Novecento la fonte scorresse fino alla vasca di una fontana presso la casa. Ancora oggi nel quartiere si dice che fosse un’acqua fresca e buonissima, tanto che da lontano venivano al numero 14 di via Nocca, a Ravecchia, per riempire otri e bottiglie.
IMG_9569Il portoghese ogni tanto si arrampica sul pendio e appoggia delle assi contro il terreno, per evitare che la montagna frani sul pollaio. Qualche settimana fa, fermandosi un momento a riposare, ha notato qualcosa di strano in una lastra di pietra. Si è avvicinato e, osservando meglio, ha scoperto che qualcuno aveva inciso una parola. Mettendo il dito nei solchi è riuscito a leggere. Era un nome: FAZIOLI, scritto con la Z al contrario.
IMG_9575Il portoghese, incuriosito, ne ha parlato con il proprietario della casa. Questi si è ricordato che, più o meno cento anni fa, in quella casa viveva il mio bisnonno Benvenuto Fazioli con la sua famiglia. Ho già scritto di lui qui sul blog, raccontando come a quindici anni sia partito da Cremona, balzando su un treno in cerca di avventura. Per un po’ visse a Zurigo, poi si trasferì nel Canton Ticino. Mio nonno Luigi nacque a Bellinzona, proprio in via Nocca, e abitò al numero 14 fino all’adolescenza.
IMG_9563La casa è sempre la stessa, costruita a ridosso della roccia. Le cantine profonde e silenziose si addentrano nella montagna. Muovendo un passo nell’oscurità, ho l’impressione di venire accolto nella caverna senza tempo dove giacciono le cose che sono passate e quelle che devono ancora venire. Le pareti si perdono nel buio. Si percepisce che poco distante, nel cuore della terra, sgorga la sorgente, la stessa sorgente che ancora dipinge di verde l’erba e gli alberi e le montagne. La stessa che ogni anno accoglie la primavera. La sorgente che attraverso segni impercettibili suscita la trasformazione del mondo.
IMG_9571Anche il mio bisnonno, o uno dei suoi figli, volle lasciare un segno. La Z al contrario fa pensare che a scrivere sia stato un ragazzino, oppure un adulto non pratico di ortografia. Anch’io, forse perché sono mancino, ho passato anni a rovesciare la Z. Talvolta mi prende ancora la tentazione di partire da destra e scivolare verso sinistra, per poi scendere in diagonale e scivolare di nuovo a sinistra. Se ci penso, per me la zeta non è mai stata una consonante facile. Non lo è nemmeno oggi. La digito sulla tastiera del computer: Z. Sembra inoffensiva. Semplice. Perfino banale, con quegli angoli acuti e quella vibrazione sonora: Z Z Z. Ma dentro di me, la vivo al rovescio. Così:       .
IMG_9573Cento anni fa, vicino al canale con l’acqua fresca, quel lastrone di pietra sembrava un luogo propizio. Il mio antenato si avvicinò e con lo scalpello incise il suo nome. Poi, giorno dopo giorno, continuò a vivere secondo il ritmo inesorabile che pare fermo e che ti porta via: lavoro, riposo, disgrazie, gioia, domande, il profilo delle montagne, lo zoccolio dei cavalli, l’intreccio di voci al mercato, il fischio dei treni, il ronzio delle macchine all’officina, le voci dei figli sempre più spesse, poi le voci sottili dei nipoti, poi di nuovo l’estate, l’autunno, l’inverno, la primavera, fino al silenzio. Si sarà dimenticato del cognome inciso nel sasso? Qualcuno gli avrà detto della Z al contrario? Al momento di scomparire avrà pensato al fruscio della sorgente nelle notti estive, al rombo dei temporali, alla rugiada, al ghiaccio abbagliante delle mattine di gennaio? E prima di chiudere gli occhi, si sarà chiesto perché c’è qualcosa invece di niente?
IMG_9566Passano i decenni e nel quartiere abitano ancora dei Fazioli. Qualcuno è riuscito a raddrizzare la Z, qualcuno – come me – tende ancora al rovescio. La fontana è sempre lì, così come la sorgente, acquattata nel sottosuolo. Gli attuali Fazioli del quartiere, dai settanta ai cinque anni, non sono troppo diversi da Benvenuto, Ernesto, Albina, Luigi, Bruno, Rina (chiunque fra loro abbia inciso il nome nella pietra). Anche noi viviamo i giorni come novità e come ripetizione, anche noi percepiamo il fluire delle cose. Il tempo misurato con gli iPhone è sempre lo stesso che ticchettava dentro la pendola del salotto buono, dove si entrava in punta di piedi due o tre volte l’anno.
IMG_1222Tutto ciò che rimane, di quel Fazioli che incise il nome sulla pietra, è proprio il nome scalpellato (più qualche manciata di polvere giù al cimitero). Per anni e anni la scritta si confuse tra i sassi e i cespugli, si consumò, scomparve, venne quasi inghiottita dalla montagna. Poi arrivò un uomo dal Portogallo, apparvero i conigli, ed ecco che oggi quel nome torna a comunicare. Che cosa significa? Chissà. È mai possibile trovare il significato ultimo di un testo, di qualsiasi testo? Forse era un modo per dire “esisto”, o “abito qui”, oppure “ho scavato questo canale” o magari “pensate a me, quando passate da queste parti”, o anche “eccomi”, “sono vivo”, “sono innamorato”, “mi sto annoiando”, “mi piace quest’acqua fresca”, “chi sono io?”. È una voce che arriva dal passato, ed è più efficace di una macchina del tempo. Probabilmente il segno vuol dire nello stesso tempo tutte queste cose, e altre ancora.
IMG_9562Per questo la creatività è un gesto pericoloso. Quando si lascia un segno, di qualunque tipo, esso può resistere alla consunzione e all’oblio. Scrivere è un atto che implica responsabilità: quando tutto sembra avvolto nella penombra, le nostre parole appaiono nella mente di un’altra persona, distante nello spazio o nel tempo, e portano con loro domande, segrete ribellioni, paesaggi, la promessa di un’azione. Le parole scavalcano la mente, percuotono i sensi e s’infilano nell’anima, dove trovano un rifugio per maturare lentamente, come il vino nella cantina di roccia. Le parole diventano parte di noi e ci aiutano a ridere, a piangere, a resistere. A vivere, insomma; ad affrontare i giorni in cui la Z si presenta inesorabilmente diritta e a capire il mistero dei giorni in cui ci mostra una faccia che non comprendiamo. Una faccia assurda? Misteriosa? Spero di avere ancora un po’ di tempo per riflettere su tutto questo.

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PS: A un certo punto, sopra, avrei voluto scrivere una zeta al rovescio. Ma ciò che la natura mi consente di fare con facilità, la tecnologia mi sottrae. Sembra incredibile: con questo mio computer non è possibile scrivere una zeta alternativa! Forse chi ha creato il programma di scrittura la giudicava inutile? Eppure, non escluderei con tanta sicumera che nella vita non possa giungere un momento in cui si riveli opportuno (o perfino decisivo) esprimere – magari via mail – una bella Z maiuscola maestosamente rovesciata. Be’, comunque ho lasciato uno spazio vuoto. Usate pure la vostra immaginazione: createvi una zeta e poi, quando meno se l’aspetta, capovolgetela.

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PPS: Grazie a Fabio Casagrande, che mi ha fatto da guida lungo il viaggio nel tempo e che mi ha offerto una bottiglia del suo vino per aiutare la memoria. È stato lui a procurarmi anche l’immagine qui sopra: è una copia dal vero di autore sconosciuto, che raffigura la casa (con la fontana e il pendio) proprio all’epoca dell’incisione.

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Le vacanze dei morti

Intorno al primo novembre nella Svizzera italiana le scuole chiudono per una settimana: da sempre, famigliarmente, si chiamano “le vacanze dei morti”. Penso che la denominazione ufficiale sia “vacanze autunnali”, ma non mi dispiace pensare che anche i morti, nel loro vasto periplo lungo l’eternità, si possano concedere una pausa. In questi giorni tutto, in maniera sommessa, è un richiamo alla loro assenza-presenza: l’accorciarsi dei pomeriggi, lo splendore del paesaggio, il blu compatto e indecifrabile del cielo.
img_7565Ci pensavo l’altro ieri, camminando in un sentiero di montagna con alcuni amici. Dalla cima del Camoghè (2228 mslm), l’occhio scorgeva i luoghi consueti: Bellinzona, il lago Maggiore, il lago Ceresio, il lago di Como, la Mesolcina, il piano di Magadino… più distanti, le cime innevate del Cervino e dei picchi vallesani. Ma in generale, quella fuga di montagne azzurre verso l’orizzonte era emblema di una lontananza difficile da definire, perché posta in una dimensione che non apparteneva più allo spazio, almeno nel mio pensiero. Il sole si posava radente sulle radure, trasfigurando i colori, facendoli apparire nello stesso tempo più vividi e più irraggiungibili. Non erano luoghi dove potersi fermare, quei declivi erbosi, sfiorati da una luce troppo dolce, troppo incantevole per durare nel tempo.
img_7573Lungo la discesa, chiacchierando, un’amica ha evocato brevemente il mito di Orfeo ed Euridice: il poeta scende negli Inferi per ritrovare la moglie defunta; ma poi, quando sta per uscire con lei, si volta indietro e la condanna a restare laggiù, nel regno dei morti. Perché si volta indietro? Davvero c’è una distanza incolmabile fra noi e ciò che siamo stati, fra il nostro qui-e-ora e ogni possibile aldilà?
Anche Elia Contini, nel romanzo L’arte del fallimento (Guanda) si trova a riflettere su queste domande.

I defunti si affacciavano all’improvviso, per strada o dopo una siesta pomeridiana, e qualche volta le ferite tornavano a sanguinare. Tanti anni dopo, però, Contini si era convinto che quella persistenza non fosse senza significato. Erano le vacanze dei morti: un’intersezione fra il tempo e ciò che stava fuori dal tempo. Purché non durasse troppo a lungo, e purché non ci si dimenticasse di essere ancora vivi, dopotutto.

A un certo punto Contini deve fare i conti con la violenza, con l’assurdità della morte che irrompe nella quotidianità. Eccolo al cimitero, il 2 novembre, insieme a un uomo che ha perso la moglie in un omicidio apparentemente privo di senso.

La vita degli altri, pensò guardandosi intorno, la vita di chi porta fiori ai propri cari nel giorno dei morti, e nessuno di loro è stato ucciso brutalmente da un assassino. Ma esiste davvero una vita senza patemi, senza ingiustizie? Contini ne dubitava. In fondo la morte, comunque arrivi, è sempre un’ingiustizia.

Quando ha un momento d’incertezza, Contini esce di casa, va a camminare. La vicinanza con le volpi, che vivono nei boschi intorno a Corvesco, ha un misterioso effetto calmante su di lui.

C’era un sentimento che lo teneva legato. Poteva riconoscerlo in un lungo silenzio, o nei fari di un’auto che saliva dal fondovalle. Il bosco pareva soffocante, perfino minaccioso. L’unica salvezza era prendere la macchina fotografica e camminare: lungo le piste appena distinguibili, a pochi passi da un ruscello o da un dirupo, non c’erano più pensieri, soltanto azioni, e c’erano volpi nell’oscurità, presenze ignote ma vicine.

img_7572Come accettare che lo splendore dell’autunno sia una prima avvisaglia della morte? Come vivere con questo addensarsi progressivo dell’oscurità? Ognuno di noi, inevitabilmente, prova a rispondere a queste domande. Purché non ci si perda troppo a lungo nella riflessione (per riprendere le parole di Contini) e non ci si dimentichi di essere ancora vivi, dopotutto… L’assenza-presenza dei morti può essere un movimento segreto nella vita di tutti i giorni, senza che divenga per forza un pensiero esplicito. Mi pare d’intravedere qualcosa del genere in questa poesia di Billy Collins (qui in versione pdf; qui l’originale).

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Infine, vorrei suggerirvi di ascoltare un brano di Bill Evans (1929-80). È tratto dall’album You must believe in spring, inciso nel 1977 da Evans (piano) insieme a Eddie Gomez (basso) e a Elliott Zigmund (batteria). L’album fu pubblicato dalla Warner solo nel 1981, un anno dopo la morte del pianista. Nei vari brani s’intuisce il tema della morte.
img_7575Anni prima, Evans aveva perso il suo bassista e amico fraterno Scott La Faro, morto in un incidente a 25 anni; da allora, era scivolato sempre più nella dipendenza dagli stupefacenti. Nell’album dedica il brano B Minor Waltz alla prima moglie Ellaine, che era morta suicida. We will meet again invece è dedicato al fratello Harry: sembra quasi una premonizione, visto che Harry (il quale soffriva di malattie psichiche) si toglierà la vita due anni dopo. Nel disco c’è anche la ripresa del tema della serie televisiva M.A.S.H (Suicide is painless, “Il suicidio è indolore”). Vi propongo qui proprio il brano che dà il nome all’album. You must believe in spring è uno standard, composto originalmente da Michel Legrand con parole di Jacques Demy, per il musical Les demoiselles de Rochefort (1967). La versione di Bill Evans è sospesa fra la malinconia e la speranza, fra la cupezza di certi passaggi e la fantasia inventiva dell’assolo di piano (da 2.57, in crescendo) che davvero sembra volerci guidare verso la primavera.

PS: La lirica The Dead (“I morti”) di Billy Collins è tratta dalla raccolta Questions About Angels (1991), poi confluita in Sailing Alone Around the Room e pubblicata in italiano da Fazi nel 2013 con il titolo A vela in solitaria intorno alla stanza. Per concludere, un ringraziamento ai miei compagni di viaggio; a Paolo, in particolare, per alcune delle fotografie che corredano questo articolo.

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Kids are pretty people

Oggi nella Svizzera italiana è il primo giorno di scuola. Come sempre, quando sento le parole “primo giorno”, ho la tentazione di voltarmi verso il passato: sarà perché tutti gli inizi poggiano su fondamenta più o meno visibili, sarà perché la fine dell’estate accende malinconie. Ho accompagnato mia figlia al primo giorno della seconda elementare, domani accompagnerò sua sorella al primo giorno di asilo. Vedete? Tutti questi “primi giorni” mettono addosso una certa inquietudine. L’unica è tuffarsi nei classici… Si computes annos, exigum tempus: si vices rerum, aevum putes (“Se tu conti gli anni, il tempo ti parrà breve: se rifletti sopra gli avvenimenti, crederai esser corso un secolo”). Ma quelle di Plinio sono sempre parole, sia pure in latino, mentre mi pare di essere di fronte a qualcosa che, per non essere banalizzato, richieda due operazioni: tacere e camminare.
IMG_6630Taccio e cammino, allora, resistendo alla tentazione di parlare del tempo che passa a chi mi sta accanto. Esco dalla scuola… il cortile è sempre quello, con il medesimo grande albero sulle cui radici mi arrampicavo, da bambino, immaginando un mare in tempesta al posto del terreno. Mi allontano da solo lungo via Franscini, e lo sfasamento temporale mi colpisce quando meno me lo aspetto.
L’edificio dove ho trascorso due anni come allievo di scuola media ora è sede del Tribunale penale federale. Mi domando se, nei corridoi austeri, sia rimasto qualche ricordo di schiamazzi, di verbi irregolari, di turbamenti ormonali e di compiti copiati in fretta durante la ricreazione. Mi avvicino al portone… ma esito a entrare. E se davvero negli interstizi del tribunale fosse rimasto qualcosa… o qualcuno? Se un giovane Andrea fantasma, con il suo zaino Invicta e la sua timidezza, fosse ancora là dentro, sospeso fra un tema d’italiano e un’equazione a due incognite? Che cosa potrei mai dirgli? E lui, che cosa direbbe di me? Mi sembra che apparteniamo a epoche diverse, nonostante siamo separati da poco più di vent’anni (cantava De Gregori: vent’anni sembran pochi, ma se ti volti a guardarli non li vedi più…). Decido di rimandare la visita: la caccia al tempo perduto richiede un ritmo lento, e per oggi ho fatto abbastanza. A casa ho ancora la bicicletta che parcheggiavo di fianco all’edificio, e la chiudo ancora con lo stesso lucchetto di allora. Ma il parcheggio è sparito, insieme alle tettoie, agli studenti, ai docenti con la cartella di pelle. È proprio vero che le città cambiano più in fretta del cuore di un uomo.
IMG_6629Leggo su internet che la Corte penale del Tribunale penale federale di Bellinzona statuisce in prima istanza sui reati che entrano nella competenza della giurisdizione federale (p. es. terrorismo, servizi di spionaggio, riciclaggio di denaro, criminalità organizzata). Be’, qualche piccola operazione di spionaggio, durante le verifiche di matematica, l’avevamo messa in piedi anche noi… chissà se l’eco di quelle losche macchinazioni aleggia ancora in questi spazi chiari. È curioso: come scuola, l’edificio aveva corridoi oscuri e un colore grigiastro; ora, come tribunale, si presenta candido e immacolato. Vorrà dire qualcosa? Probabilmente no.
IMG_6612Continuo a camminare. La città ha ancora una luce estiva, ma c’è un segno che invece mi proietta verso l’autunno: mancano i ragazzi, i bambini. A quest’ora le lezioni sono già cominciate, e gli allievi sono tutti dentro un’aula. Mi domando che cosa voglia dire, per loro, stare ancorati a un tavolo mentre fuori splende il sole. A prevalere sarà il rammarico per una bella giornata persa? Ma la scuola, in fin dei conti, dovrebbe aiutare a godere con maggiore pienezza anche delle belle giornate. Oppure è ingenuo pensare che il sistema scolastico debba rispondere pure a queste esigenze? Forse è più prudente limitarsi a trasmettere nozioni che aiutino a “imparare un mestiere”, “farsi una cultura”, “affrontare la complessità del mondo contemporaneo”. Ma personalmente, quando mi trovo di fronte a un gruppo di ragazzi per un laboratorio di scrittura, ciò che più mi emoziona non è tanto la possibilità di trasmettere loro qualcosa, e nemmeno il fatto che loro possano trasmetterlo a me. A stupirmi è la presenza: siamo qui, riuniti nella stessa aula, pronti a condividere qualcosa che possiamo chiamare “letteratura”, nonostante le mille differenze fra di noi (di età, origine, esperienza, carattere…).
La scuola è prima di tutto esserci. È un gesto: uscire di casa, entrare in un edificio, sedersi insieme in una stanza. E in quella stanza siamo presenti con tutti noi stessi, carichi di tutte le nostre domande. Andare a scuola implica il pensiero del futuro, il desiderio di costruire qualcosa. Se un insegnante riuscisse anche solo in questo – tenere desti i desideri – avrebbe già ottenuto un successo.
Non mi dilungo con le riflessioni: torno a camminare e vi lascio con la musica. Kids are pretty people è un brano composto da Thad Jones nel 1968. Gli amanti del jazz sanno che la famiglia Jones non manca di grandi talenti: oltre a Thad (1939-85), il batterista Elvin (1927-2004) e il pianista Hank (1918-2010). A Hank è capitato spesso di riproporre il brano di suo fratello. Questa è una versione con il sassofonista Joe Lovano, insieme a George Mraz (basso) e a Lewis Nash (batteria).

A essere pretty people non sono solo i bambini, ma soprattutto chi sa mantenere, insieme alla pacatezza della vecchiaia, l’apertura e lo slancio di un ragazzino. Direi che Hank Jones è un magnifico esempio: pensate che all’epoca di questa incisione aveva 87 anni. Mi rendo conto che il brano è lungo (e non a tutti piace questo tipo di musica). Ma ascoltate almeno, nei primi minuti e alla fine, la perfetta discrezione del pianoforte, l’intesa con il sax. Bello anche l’assolo di Jones, a 5.08. In particolare, sentite la forza della sua vitalità fra il settimo e l’ottavo minuto, osservate la sua espressione elegantemente radiosa.
Hank Jones è stato un grande maestro. L’augurio che faccio a tutti gli insegnanti, per questo nuovo anno, è di avere la sua stessa grazia, la sua ironia, la sua misura, insieme a quel briciolo di fanciullezza che – nonostante gli anni – continua a vivere e a diventare musica…

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PS: Quando mi deciderò a entrarci, nel Tribunale, vi farò sapere se davvero troverò qualche fantasma. Magari ci proverò il prossimo primo giorno di scuola…

PPS: La citazione di Plinio Il Giovane proviene dal quarto libro delle Lettere (XXIV, 6); quella di Francesco De Gregori, dalla canzone Bufalo Bill, contenuta nell’album omonimo uscito nel 1976. La frase sul Tribunale è tratta dal sito www.bger.ch. Una bella versione di Kids are pretty people, registrata nello stesso tour da cui è tratto il video, si trova nell’album Classic!, pubblicato poche settimane fa da Joe Lovano per la Blue Note e dedicato proprio alla memoria di Thad Jones (che ha continuato a suonare con Lovano fino a poco prima della sua morte, all’età di novantun anni). L’osservazione sulle città che cambiano più in fretta del cuore di un uomo è di Charles Baudelaire: Le vieux Paris n’est plus (la forme d’une ville / Change plus vite, hélas! que le coeur d’un mortel). I versi sono tratti dalla lirica Le Cygne, nella sezione “Tableaux parisiens” di Les Fleurs du Mal (1857).

PPPS: Alcuni spunti per questo articolo mi sono venuti in seguito a un proficuo scambio d’idee avvenuto su “Cose di scuola”, il blog di Adolfo Tomasini. Di ricerca del tempo perduto, sempre a Bellinzona, avevo già parlato qui.

 

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