Secondo un’antica leggenda navajo, un uomo deve camminare un po’ ogni giorno. La Terra infatti si mantiene in movimento grazie alla spinta comune di migliaia e migliaia di piedi che la fanno ruotare, ognuno con tocchi impercettibili, permettendo il giorno, la notte, il ciclo delle stagioni. Quando mi capita di avere dei problemi di lavoro o di sentirmi inquieto, esco e vado a camminare: i problemi restano tali e quali, ma almeno so di contribuire – nel mio piccolo – alla sopravvivenza del nostro pianeta. Quando dico camminare intendo girovagare senza una meta, provando magari a esercitarmi nella tecnica delle passeggiate colorate.
Io cammino, la terra gira. Il sole arriva e se ne va al momento giusto, il fiato entra ed esce dai polmoni, la città scorre intorno a me e più in alto, lentamente, passano le nuvole. Il segreto non è concentrarsi, ma lasciare che i pensieri nascano senza scacciarli, sapendo che subito se ne andranno e ne nasceranno altri e altri ancora. Dopo un po’ la mente non ci bada più e comincia a notare i dettagli: erba, facce, fontane. Nella fase successiva, cerco di accogliere soltanto le variazioni cromatiche. Visto che i colori sono molti, e tutti mescolati insieme, ne affronto uno alla volta. Succede che esca di casa a caccia del grigio, e che lo sguardo si perda sulle mura dei castelli, tra le sfumature dell’asfalto, nelle righe della pioggia o in certi volti stanchi. Altre volte capitano giornate verdi, magari lungo qualche sentiero che corre ai bordi del fiume: il salice in primo piano, le gradazioni dei prati, le accensioni improvvise di un albero o di un semaforo.
Quando sei a caccia di un colore, devi rimanere ricettivo nei confronti di ogni cosa e, nello stesso tempo, filtrare le tonalità. Se è una giornata azzurra l’occhio indugerà sulle montagne in lontananza, sulla tovaglia in un manifesto pubblicitario, sull’acqua di una piscina dietro un muro di cinta, sul riflesso di un vetro smerigliato, sul telaio di una bicicletta o sulle profondità del cielo in una mattina limpida.
Ogni colore ha la sua storia. Ogni passeggiata ha la sua tinta. Mi è capitato anche di assegnare una “passeggiata colorata” come esercizio in qualche laboratorio di scrittura. In effetti, può succedere che la pagina di un libro ci aiuti a muoverci nella complessità di un colore. Visto che siamo in primavera, prendiamo per esempio il verde. Eccolo che affiora in un pensiero di Anna Gnesa. I polinesiani hanno circa trecento parole per indicare non il verde, ma le diverse qualità di verde. Avessimo noi l’attenzione e la sensibilità di quegli isolani per il mondo della natura, sarebbe più facile indicare le varie gradazioni di colore di questo fiume, a volte esitanti tra il glauco e il turchese, a volte perfino d’un verde tenebroso. Perduta la trasparenza e la magia nel lago morto, in quelle acque prigioniere il colore portentoso era ormai finito. Ma lentamente la gran massa opaca fu penetrata dalla nota sfumatura. Quel verde riapparso benché umiliato, accecato, era lui. Così riconoscibile che pareva di potergli dire «tu». E torna alla mente la misteriosa parola di una mistica tedesca del XII secolo, che del verde fu inebriata: «opus verbi viriditas est». Nello stesso verde affondano le radici i versi della poetessa Antonietta Gnerre.
E se volessimo inseguire il blu? Allora dobbiamo ricorrere a Mario Luzi che contempla il mistero della sua Val D’Orcia, così terrena e così soprannaturale.
Lo stesso Luzi così spiega il suo amore per l’azzurro: Poiché amo molto il colore dei monti, quell’azzurro che sa di fresco e di lavato e che vien fuori soprattutto dopo la burrasca, credo si ritrovi spesso, nella mia produzione poetica, l’azzurro, il blu, questa tonalità che appartiene non tanto, forse, alla radiosità del mattino quanto alla profondità. Lo spazio profondo ha questo colore, che poi diventa anche quello del tempo. Tempo e spazio sono inscindibili. Quando io penso al tempo lo penso di quel colore.
Gli altri colori li lascio a voi. Vi segnalo solo tre “passeggiate colorate” ottime per gli esordienti: il bianco accecante di una gita all’alba dopo una nevicata; il bianco più intimo di un’escursione lungo l’argine in un giorno di nebbia fitta; il nero di una passeggiata notturna in una via discosta di un piccolo paese, là dove non arrivano i lampioni. Se poi vi sentite in forma, o se siete innamorati, potete tentare una “passeggiata arcobaleno”, a caccia di rosso, arancione, giallo, verde, blu, indaco e violetto, tutti insieme, contemporaneamente. Ma qui siamo già nell’ambito degli effetti speciali…
PS: Il testo di Anna Gnesa è tratto dal volume Lungo la strada, pubblicato da Armando Dadò nel 2001 con un’introduzione di Mario Agliati. La prima edizione risale al 1978.
PPS: La lirica di Antonietta Gnerre proviene da I ricordi dovuti, pubblicato nel 2015 da Edizioni Progetto Cultura, nella collezione di quaderni di poesia “Le gemme”. Il volume è ricco di istanti colorati e di versi che si annidano fra gli alberi.
PPPS: I versi di Mario Luzi provengono da Per il battesimo dei nostri frammenti, pubblicato da Garzanti nel 1985. Potete leggere qui la poesia completa. L’altro testo di Luzi è tratto da Spazio stelle voce. Il colore della poesia, pubblicato nel 1991 da Leonardo Editore a cura di Doriano Fasoli.
PPPPS: La leggenda navajo di cui parlo all’inizio me la sono inventata io (non credo proprio che i miti degli indigeni americani descrivessero la Terra come rotonda e ruotante). Ma i Navajo non me ne vorranno: dopotutto, hanno fama di essere un popolo di grandi camminatori.