Perché i bambini piangono?

Ha senso interrogarsi sui neonati, fantasticando sui loro pensieri, quando là fuori ci sono tanti argomenti robusti e urgenti che dovrebbero attrarre l’attenzione di uno scrittore? Il mondo che va a rotoli, le guerre, le ingiustizie sociali, le persecuzioni, il riscaldamento climatico, i social network che ci stanno distruggendo, eccetera. Be’, credo che se vogliamo tentare una rinascita occorra chiedere agli specialisti, a chi è fresco di esperienza. Come scrisse il poeta Mario Luzi: «Così scendono e salgono verso l’avvenire / così avviene / l’avvenire nella loro lattea mente».

Quando tengo fra le braccia un neonato, non posso fare a meno di chiedermi tre cose.
1) Com’è arrivato qui?
2) Che cosa resterà nella sua memoria?
3) Che cosa conosce questo lattante che io non conosco?
Ho provato a intervistare una bambina nata meno di un mese fa. Lei è stata gentile, disponibile, ma le sue risposte sono difficili da interpretare.
RISPOSTA 1:

RISPOSTA 2:

RISPOSTA 3:

In attesa di riprovarci, preciso che la mia curiosità non mira a spiegazioni scientifiche; perciò ho chiesto a una bambina e non a un biologo. Prendiamo la prima domanda: mi hanno detto che il feto avverte la diminuzione del glucosio nella placenta e si formano degli ormoni e insomma per farla breve il bimbo si gira e poi cominciano le contrazioni eccetera. Ma a parte questo, immagino che il nascituro abbia un rudimentale piano d’azione, che so, forse nel cervello gli appare un’immagine, un sogno, una frase musicale, qualcosa in più che una reazione fisiologica di stress. A un certo punto il concetto di “nascita”, espresso senza parole e con sfumature indicibili, deve per forza attraversargli la mente.
Ve lo confesso: mi piacerebbe nascere di nuovo. Come avvenne la prima volta? Posso solo intuire quel momento di strazio e curiosità, quella percezione oscura che il grembo materno non basta più. Il feto ha i polmoni pronti per l’uso, anche se per nove mesi ha ricevuto l’ossigeno attraverso il cordone ombelicale. Ma il momento della partenza, la fatica di quel supremo passaggio – il primo respiro! – la vastità del mondo dispiegata come un castello di nuvole che senza fine mutano forma… ecco, mi piacerebbe ritrovare tutto questo.
A volte mi dico che è possibile. In fondo, tutto ciò con cui entro in contatto è più vasto di me: anche le cose che credo di avere capito, soprattutto quelle, aprono di continuo altre domande e sentieri da percorrere. Si può nascere di nuovo? Prima di tutto bisognerebbe essere capaci di desiderarla, una nuova nascita. Purtroppo con il tempo il desiderio tende ad appannarsi, almeno in questa epoca e in questa zona del mondo. È un paradosso: per rinascere serve un desiderio forte, ma per svegliare i desideri è necessario rinascere.

Mi sforzo di ricordare qualcosa delle mie prime settimane di vita. Sarà senz’altro un’illusione, però a volte affiora un’atmosfera che mi sembra antica: quando siedo da solo di notte in una stanza in penombra, oppure quando sento intensamente caldo o freddo, magari quando ho la febbre. A stupirmi è la sensazione di fragilità, di estrema inermità. Nessuno slancio, nessuna convinzione può resistere alla scoperta che sono preda della vita, questa vita-balena che m’inghiotte e mi tiene all’oscuro ogni volta che smetto di stare in guardia. Per uscire dalle balene bisogna avere pazienza. La reazione dei neonati è abbandonarsi alla madre, all’unica creatura che conoscono bene. Credo che anche ai neonati cresciuti e ingrigiti possa restare una certa capacità di avere fiducia. Da qualche parte nell’inconscio conserviamo almeno un brandello di ricordo: eravamo fiduciosi, lo siamo stati con tutti noi stessi. La balena non può avere l’ultima parola.
Provo a intervistare ancora la mia lattante di riferimento. Dalla sua risposta mi convinco che in effetti sappia molte cose più di me. Inoltre ho la sensazione che non ami essere intervistata (tanto giovane e già sottoposta alla tortura del giornalismo).
RISPOSTA 4:

Mi basta scrutare la bambina negli occhi, nell’intensita della pupilla che vede tutto senza guardare niente. La neonata ha percorso il più lungo, il più intenso dei viaggi che mai esploratore abbia osato, più che le spedizioni in terre selvagge, più che un giro del mondo, più che uno sbarco sulla luna o su Marte. Il suo cervello è ancora rudimentale? Sarà, ma sono convinto che ne sappia più di me su molti aspetti decisivi della vita.
Del resto, il pianto è una forma di conoscenza. Credo che i neonati piangano più o meno per le stesse ragioni che causano i nostri singhiozzi, compresi quelli che spesso mi strozzano la gola e non riescono a manifestarsi. Se i lattanti potessero leggere l’Eneide di Virgilio, forse sarebbero capaci di spiegarci il misterioso verso 461 del primo libro: «Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt», sono le lacrime delle cose e toccano la mente dei mortali. Quando a scuola studiavo questo verso, traducevo con una certa libertà: ci sono lacrime nelle cose. E pensavo proprio alla materia, agli oggetti, al mare, agli alberi, alle montagne, al mondo e a tutti i suoi abitanti, e mi figuravo che da ogni parte trasudassero delle lacrime. È un fenomeno invisibile, a volte anche impercettibile, ma la sostanza stessa della realtà è rivestita di lacrime. Ogni cosa al mondo continuamente piange.
Anche nei nuovi nati è presente qualcosa di nefasto, d’inevitabile. Non è vero che sono innocenti: vivono qui, fra di noi, e in loro cova il nostro stesso male. È una ferita che abbiamo tutti. A che cosa serve allora piangere? Forse è semplicemente un modo per imparare. Ogni vera educazione è prima di tutto un’educazione alla capacità di compatire, di riconoscere come nostro il dolore degli altri. Noi non siamo come vorremmo essere, o forse non vogliamo più niente. Le altre persone non sono come vorremmo che fossero. La natura stessa è intrisa di dolore, di sofferenza. Il pianto è una domanda, per alcuni una preghiera.
Perché piangono i bambini? Perché piangiamo noi? Per una delusione d’amore, perché dobbiamo morire, perché abbiamo fatto la cacca, perché ci sentiamo soli, perché abbiamo causato dolore agli altri, perché abbiamo fame e sete, perché ci fa male la pancia. Comunque sia, il nostro pianto significa che siamo al mondo. Infatti quel vagito iniziale serve pure a dilatare gli alveoli polmonari. Ecco di nuovo il primo respiro, il primo anelito dei nuovi nati che accolgono il mondo. È un’operazione difficile. Io cerco di metterci il massimo impegno, ma dopo tanti anni mi sembra di non avere ancora imparato a respirare.

PS: I versi citati nel preambolo in corsivo provengono dalla poesia C’è – lo sentono, lo sanno, contenuta nella raccolta Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (Garzanti, Milano 1994). Luzi è tornato più volte sul tema dei neonati, fino alla poesia Dorme, nuovo nato al mondo nell’ultima raccolta pubblicata a novant’anni (Dottrina dell’estremo principiante, Garzanti, Milano 2004). Anche la metafora della primavera, tanto spesso ribadita nei suoi versi con attenzione particolare ai primi, impercettibili segnali di risveglio nella natura, si può interpretare come una tensione verso una rinascita: «E con questo tutto il non ancora / il prima della primavera, quella / luce piovigginosa, quella grigia / fabbriceria di gemme nell’aria acquosa» (versi tratti da Non tra i bambini – con loro in Per il battesimo dei nostri frammenti, Garzanti, Milano 1985).

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L’ultima sigaretta

#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.

L’uomo è irrequieto, si guarda intorno, esce di scena sulla Talacker per ricomparire un attimo dopo sulla Bahnhofstrasse. Si ferma nel triangolo di banchina che sorge come un isolotto fra i binari del tram. Avrà già compiuto settant’anni? La sua barba ricorda più quella di Rasputin che non quella di un hipster, e del resto l’abbigliamento non ha nulla di studiato. Semmai porta con sé un’aria trasandata dai colori spenti e polverosi. Incrocio il suo sguardo più volte, ma non se ne accorge. La sua attenzione è rivolta altrove. Si accende una sigaretta e riparte nervoso davanti al chiosco, attraversa la strada, poi si ferma in un punto preciso, scelto con cura, allinea i piedi, si abbassa leggermente, aggiusta pollice e indice della mano destra portandoli alle labbra, e infine lancia. La sigaretta – fumata solo a metà – vola per mezzo metro, prima di atterrare accanto al binario. Deluso, l’uomo riparte.
Al decimo mese, Paradeplatz sembra essere diventato un approdo. Un momento diverso dagli altri: ci si lascia il mare mosso alle spalle e ci si ferma per qualche ora, ancora coperti di sale, trotterellando qua e là con passo incerto, assorbiti da una quotidianità altrui di cui ogni tanto s’indovina qualcosa, più spesso non si capisce nulla. È ottobre inoltrato, ma la luce del sole insiste esuberante e l’ombra rimane sotto assedio.
Di nuovo l’uomo barbuto. Questa volta arriva dall’angolo fra Tiefenhöfe e Bleicherweg. Il pacchetto che tiene in mano è bianco e rosso. Recita: MAGNUM. Come potrebbe essere altrimenti? Sfila un’altra sigaretta e dopo averla accesa ritorna sulla rampa di lancio. Tre, due, uno. La sigaretta resta miracolosamente in piedi nel binario. L’uomo si ferma per qualche istante, in attesa di un tram che riporti il mozzicone in orizzontale. Ne transitano addirittura due. Dopo il trambusto, la sigaretta è effettivamente affondata all’interno del binario e l’uomo è scomparso. Una figura allegorica, forse.
Guardando il tram che sferraglia noto due dettagli. Il primo è una pubblicità: Erotik Adventskalender. Una conquista epocale: dopo il Bambin Gesù e i Santa Claus, la grande protagonista natalizia 2018 sarà Cleopatràs lussuriosa. Il secondo è un capolinea. Frankental. Il solito capolinea. Questa volta però mi ritornano in mente le parole pronunciate da Andrea in gennaio, durante il primo appuntamento zurighese. «La prossima volta dobbiamo andare a Frankental», aveva detto. Penso a tutti i progetti che abbiamo menzionato durante questi mesi: luoghi da vedere, testi da leggere, persone da incontrare. Ci restano solo due mesi a disposizione ed è improvvisamente chiaro chiarissimo che dovremo selezionare e lasciare cadere molte cose.
Dicembre incombe come una scure. Ma è giusto così, a poco servirebbe posticipare la scadenza. Questi siamo noi: la curiosità e l’entusiasmo che tende a moltiplicare, gli occhi che saltano a un futuro improbabile, in cui noi tendiamo comunque a credere, fino a essere persino colti alla sprovvista davanti al ridimensionamento (se va bene) o al fallimento (se va male). Forse più s’ignora il presente – che significa così spesso razionalizzare, pianificare, consolidare – e meno si deve pensare alla fine. Che però arriva, brutale.
Eccolo ancora, il moderno Rasputin. La sigaretta e il lancio che naturalmente, dopo il precedente exploit, non riesce. Ma fino a quando continuerà? E quando ha iniziato? Devo ricordarmi di andare a vedere quante sigarette stazionano inerti dentro le misteriose cavità del binario. Tre? Cento? Un milione? Sembra la versione 2.0 dell’ultima sigaretta (U.S.) di Zeno. Cerco Andrea, che oggi è particolarmente taciturno. Forse lui saprà dirmi qualcosa di più. Lo guardo e gli chiedo: Che sai tu, che taci?

[YB]

*

Un uomo parla al telefono, in italiano.
«Mi hanno comunicato la notizia ieri alle quattro e la sto ancora digerendo.» Fa una pausa. «È una questione di management, adesso non so che cosa succederà. Ma volevo dirtelo in anteprima… no, non è ancora ufficiale…» L’uomo continua la conversazione mentre sale sul tram numero 13 che, guarda caso, porta a Frankental. Io resto sul marciapiede, consapevole che non saprò mai niente di più su questa notizia confidenziale. Così come non saprò mai quale mistero nasconde l’uomo con i pantaloni rossi e un pupazzo di panda a grandezza naturale sulla spalla. E nemmeno saprò dov’è diretta la bambina che, transitando davanti al chiosco “Frido’s Marroni” canta una versione molto personale di Bella ciao.

 

Come facciamo a capire questo luogo? Gli unici che sembrano veramente a loro agio qui sono i tram, che passano e ripassano davanti a noi, scampanellano, si lanciano lunghi fischi stridenti, come grandi cetacei che parlino un’abissale lingua segreta. Lentamente mi aggiro intorno alla pensilina, registrando un audio con il telefono. Voglio catturare almeno cinque minuti sonori, per riascoltarli a casa, a occhi chiusi, immaginando di essere ancora a Zurigo. Scopro che il fatto di registrare ha quasi un potere ipnotico, come se piano piano perdessi tutti gli altri sensi e diventassi solo udito… finché la voce di Yari interrompe il sogno a orecchie aperte. Mi indica uno strano personaggio che lancia sigarette nei binari del tram. Poi leggiamo la poesia. Stavolta tocca a Mario Luzi e la lirica, tratta dalla raccolta Per il battesimo dei nostri frammenti (1985) parla proprio di Zurigo. (Ecco qui la versione in pdf con la spaziatura originale).

Sbrìgati,
non ebbe altro da dirmi
lei
dai suoi fradici rossori,
mi spinse nell’autunno dei suoi larici,
mi strappò in fretta la tazza
di nebbia e luce
che erano i suoi laghi, altra volta sue pupille.
M’incalzò quel monito
per tutte le sue valli,
giunse fino alle anatre
divenute molte
e nere tra Limmat e Zurchersee
e più verso la foce.
E tu
che mi guardi verso te
precipitare dirocciando
città rivierasca di che mare,
immagine o miraggio…

Che sai tu, che taci?

Fra la natura autunnale (lei) e la città (tu), il poeta precipita e spera di approdare a un chiarimento, a un mare che sciolga gli enigmi. Ma la città si schermisce, mentre le anatre divengono molte / e nere. Ho l’impressione che tutti noi rivolgiamo alla città la stessa domanda. Yari con il suo desiderio di andare a Frankental, io con i miei cinque minuti di puro ascolto, la bambina che canta, Rasputin che lancia sigarette. In una sorta di muto coro, insistiamo nel chiedere: che sai tu, che taci? Che cosa nasconde il cuore del cuore di Zurigo? Che cosa ancora Paradeplatz non ci ha raccontato, in questi dieci mesi di corteggiamento?
A un certo punto, mentre progettiamo il viaggio a Frankental per novembre o dicembre, Yari mi ricorda la leggenda metropolitana secondo cui sotto la Paradeplatz esterna s’intrecciano i cunicoli di una Paradeplatz scavata nella terra. Ci scambiamo un’occhiata. In fondo, che cosa ci costa provare? Apriamo la porta a vetri, ci avviamo lungo le scale. Come per scendere negli inferi bisognava pagare un obolo, per raggiungere il bagno pubblico di Paradeplatz bisogna infilare un franco nell’apposita fessura. Appena entrati cerchiamo una botola, un passaggio segreto. Ma il bagno è lindo, bianco, rispendente di specchi e porcellane. Una porta attira la nostra attenzione, anche solo per il laconico cartello: KEIN EINGANG, non si può entrare. Senza nemmeno consultarci, uno dopo l’altro, proviamo ad abbassare la maniglia. Niente, non si apre.
Mentre stiamo per uscire, scorgo un’altra porta chiusa. Questa si apre. Senza pensarci, oltrepasso la soglia e finisco in uno sgabuzzino. Mi accorgo che nei muri ci sono due buchi che sembrano portare nella profondità della terra. Che sia questo l’accesso? Provo a guardare in basso, ma non si vede niente. Vado a cercare Yari, passando per un’altra porta. Ho un attimo di disorientamento: sono tornato nel bagno… ma non è lo stesso bagno! Prima che la fantasia possa dipingere scenari di scambi dimensionali, capisco che sono finito nel bagno delle donne. Torno precipitosamente sui miei passi e riguadagno la superficie.
Fuori, tutto è come prima. Yari sta scattando qualche fotografia ed entrambi, senza bisogno di dircelo, ci rendiamo conto che siamo al terzultimo mese. Abbiamo passato ore in questa piazza, ma ci sembra che non sia abbastanza, ci sembra di non riuscire a scriverne come vorremmo. Però, a ben pensarci, questa è anche una fortuna. Quando evochiamo un luogo, una persona, un avvenimento, sempre dietro le nostre parole echeggia quell’interrogativo: che sai tu, che taci? E se non ci fosse questa domanda, forse non avremmo più ragioni per scrivere.

[AF]

*

Ne ho contate sette, di sigarette, sul fondo del binario. Ma Rasputin – mentre contavo – attendeva soltanto che mi allontanassi per riprovarci, con commovente tenacia. Perché? Qualcuno chiede perché? Le ragioni sono quelle taciute. Luminose e taciute. Possiamo ignorarle, ma regolano la nostra vita più di quanto immaginiamo. Ci pensavo salendo a due a due gli scalini dei bagni pubblici, l’anticamera del sottosuolo di Paradeplatz. Oggi ci siamo dovuti fermare sulla soglia. Ma KEIN EINGANG è un invito a continuare, a riprovarci. L’inverno bianco incalza, dice una voce amica. Sbrìgati.

[YB]

*

Accanto all’edicola, c’è una pila di copie del settimanale “Die Zeit”. Il titolo principale dice: Wer versteht noch die Welt? (chi capisce ancora il mondo?). Ma non è detto che il mondo vada capito a ogni costo. Forse il problema non è tanto comprendere, quanto essere nel mondo, con il mondo, parte del mondo. Il senso dell’esistenza si rivela nelle dissertazioni filosofiche o si nasconde invece nel lancio di una sigaretta?

[AF]

PS: L’audio di cinque minuti alla fine dura 6.17. Chi volesse può tenerlo come sottofondo mentre legge questo articolo. Segnaliamo comunque che dal minuto 2.50 si sente la bambina che canta Bella ciao.

PPS: La famosa “ultima sigaretta” (U.S.) è quella di Zeno, nel romanzo di Italo Svevo La coscienza di Zeno (1923). La lirica “Sbrìgati” venne pubblicata per la prima volta in L’Almanacco 1984, cronache di vita ticinese n. 3, Salvioni, Bellinzona 1983. In seguito Luzi la inserì in Per il battesimo dei nostri frammenti (Garzanti 1985), uno dei suoi libri più significativi.

PPPS: Vi segnaliamo le altre puntate della serie. Siamo già stati a Paradeplatz in gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugnoluglioagosto e settembre.

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Festa danzante

Una notizia di cronaca spicciola: è tornato in libreria il romanzo L’arte del fallimento (Guanda 2016), stampato dall’editore TEA in formato tascabile. Un’altra notizia, ancora più spicciola: oggi compio quarant’anni. Non so perché, le due novità s’incrociano nella mia mente. Ma è una sovrapposizione pericolosa.
L’arte del quarantesimo.
Fallire un compleanno.
Quarant’anni di fallimenti.
I titoli ronzano come zanzare. Per distrarmi, sfoglio il romanzo. Rivedo con piacere quel piccolo refuso che ha resistito per tutte le fasi della revisione, superando indenne le varie bozze e ristampe e, a quanto pare, anche l’edizione tascabile. In fondo è giusto così: L’arte del fallimento non sarebbe la stessa senza errori di stampa. Ma non voglio rivelare niente: i refusi vanno scovati in solitudine.
Gli occhi mi cadono su un paragrafo in cui, alle prese con i suoi fantasmi, Elia Contini se ne va a camminare nei boschi. Non è un esercizio fisico, quanto un modo per accedere alla parte misteriosa dell’esistenza. Le volpi di Corvesco sono un segnale che viene dal profondo, dall’invisibile. Non c’è bisogno d’incontrarle. Basta cercarne le tracce, avvertirne l’indecifrabile prossimità.

C’era un sentimento che lo teneva legato. Poteva riconoscerlo in un lungo silenzio, o nei fari di un’auto che saliva dal fondovalle. Il bosco pareva soffocante, perfino minaccioso. L’unica salvezza era prendere la macchina fotografica e camminare. Lungo le piste appena distinguibili, a pochi passi da un ruscello o da un dirupo, non c’erano più pensieri, soltanto azioni, e c’erano volpi nell’oscurità, presenze ignote ma vicine.

La figura del camminatore solitario mi fa pensare a una poesia che lessi per la prima volta a diciassette o diciotto anni. È di Mario Luzi e risale al 1954. S’intitola: Nell’imminenza dei quarant’anni. Ricordo il senso d’immedesimazione suscitato dai primi versi: Il pensiero m’insegue in questo borgo / cupo ove corre un vento d’altipiano / e il tuffo del rondone taglia il filo / sottile in lontananza dei monti. Un uomo che cammina nel paesaggio deserto. Un individuo che, a me, pareva già quasi anziano: Si sollevano gli anni alle mie spalle / a sciami. Immaginavo quei quarant’anni d’ansia, / d’uggia, d’ilarità improvvise, rapide / com’è rapida a marzo la ventata / che sparge luce e pioggia. Leggevo: L’albero di dolore scuote i rami… Pensavo: chissà che cosa vuol dire trovarsi a quello snodo, scorgere l’ombra del proprio passato.
Be’, adesso ci sono.
Nulla m’impedisce di rifare lo stesso gioco. Prendo l’ultimo libro pubblicato in vita da Luzi, a novant’anni. S’intitola: Dottrina dell’estremo principiante (Garzanti 2004). Leggo: Bellezza, lo sentiamo / che sei al mondo. / Qualche transitiva forma / ci illudiamo ti sorprenda. / Da qualche raro volto / ci fulmini e ci incanti. Penso: chissà che cosa vuol dire trovarsi a quel punto estremo, guardare indietro e poi ancora intorno a sé, cercando sempre la bellezza.
A proposito di novantenni. Ieri sera, tornando a casa in macchina sotto la pioggia, stavo ascoltando l’ultimo disco del pianista francese Martial Solal. S’intitola My one and only love (Intuition 2018). È  un concerto per piano solo, registrato live il 17 novembre 2017. Solal aveva compiuto novant’anni qualche mese prima. Secondo il critico Franck Bergerot si tratta di uno dei migliori dischi della carriera di Solal, «un musicista che non ha mai cessato di progredire verso l’essenziale». Un esempio è Sir Jack, sviluppato a partire dal brano tradizionale Brother John (in italiano Fra Martino). Mi ha colpito la leggerezza del tocco, la fantasia, la sapienza del grande improvvisatore che non ha perso la capacità di giocare e meravigliarsi.

Ero già arrivato a casa. Mi sono fermato nel parcheggio e ho aspettato che finisse il brano, con l’accompagnamento della pioggia che batteva sui vetri.

PS: Per l’occasione, voglio invitare le lettrici e i lettori di questo blog a una festa danzante nel villaggio di Saint-Rigomer-des-Bois.

Festa danzante

È un piccolo momento fuori dal tempo, un breve racconto inedito senza volpi, ma con un bar dov’è piacevole bere un boccale di birra.

PPS: La lirica Nell’imminenza dei quarant’anni è tratta da Onore del vero (Neri Pozza 1956), confluita poi nel volume L’opera poetica (Mondadori 1998). Ecco il testo completo delle due poesie: Nell’imminenza dei quarant’anni e Bellezza, lo sentiamo.

PPPS: La citazione di Bergerot proviene dal numero 704 di Jazz magazine (aprile 2018). L’audio con la musica di Solal non è limpido, ma restituisce l’esperienza sonora. Automobile, pioggia, pianoforte. Ascoltare un pianista novantenne che improvvisa su Fra Martino: ci sono modi peggiori per festeggiare un compleanno.

PPPPS: L’altopiano nella foto sopra non è quello di Viterbo, dove camminava Mario Luzi nel ’54, ma quello della Greina, nella parte alta del Canton Ticino. Anche lassù il tuffo del Gypaetus barbatus, in mancanza di rondoni, taglia il filo / sottile in lontananza dei monti.

PPPPPS: Non so se qualcuno sia arrivato fino al quinto post scriptum. Ma se vi restasse ancora tempo, e se ancora non l’aveste guardato, vi ripropongo il video sul romanzo L’arte del fallimento, realizzato da Alessandro Tomarchio con il sax di Alan Rusconi. Qui non si vede nessun tipo di altopiano, ma semplicemente il piano di Magadino, come una pianura padana in formato tascabile fra le montagne.

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Buon 2017 su Blötzgeul!

img_8891Oggi uscirò in bicicletta. Tecnicamente sarà l’ultima uscita del 2016, ma in realtà è l’inizio della stagione 2017. Negli ultimi mesi infatti ho lasciato la bici in cantina; e di sicuro fra un paio d’ore, quando avrò indossato l’armatura degli abiti invernali e mi sarò avviato, mi scontrerò con l’ultima salita dell’anno, che avrà tutte le caratteristiche insidiose della prima. Il fiato si accorcerà, cigoleranno i muscoli. I chilometri iniziali sono sempre i peggiori: ogni gesto diventerà pesante mentre il cuore, svegliato dal sonno invernale, comincerà a sobbalzare su e giù per il petto. Ecco: questo sarà il mio Capodanno. Poi tornerò a casa, certo, mi riposerò, suonerò il sassofono, credo che ci sarà una cena, fumerò la pipa e forse non eviteremo nemmeno il brindisi a mezzanotte. Ma il vero punto di passaggio per me sarà già avvenuto: pericolante, a mezza costa, infagottato in un giaccone blu, avrò provato ad accogliere il futuro. Non so come andrà. Farò del mio meglio, ma non prometto niente.
fullsizerender-2In realtà, per nessuno il Capodanno arriva a mezzanotte. Ne è una prova questa vignetta di Manu Larcenet e Jean-Michel Thiriet: come spiega la didascalia, sul pianeta Blötzgeul IV gli anni durano un secondo. E con perenne entusiasmo, i due simpatici alieni si stringono la mano ripetendosi vicendevolmente “Buon anno!” a ogni secondo. La vignetta ha l’intento di far sorridere, ma è poi tanto lontana dal vero? Quando finisce un anno e quando ne comincia uno nuovo? Nel corso delle nostre giornate viviamo attimi irripetibili, e i fogli del calendario sono solo un tentativo di mettere ordine in questo magnifico mistero: il tempo che passa.
image1-2In un’altra vignetta, Larcenet e Thiriet mettono in scena un individuo che, con aria un po’ sconsolata, fissa un calendario appeso alla parete. Sul calendario appare la scritta: OGGI. In alto, la didascalia spiega che si tratta di un calendario perpetuo. Possiamo far scoppiare petardi e brindare, organizzare cenette o scatenarci nelle piazze, ma la verità è che, intimamente, non conosciamo il Capodanno. Non percepiamo il 2016 o il 2017 così come non percepiamo il 1993 o il 778. Quello che conosciamo è soltanto l’oggi. Come scriveva il poeta Mallarmé: Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui (nella traduzione lirica di Mario Luzi: “il vivido l’intatto lo splendido oggi è qui”). Ma l’uomo che guarda il calendario perpetuo è sconsolato: forse perché un oggi percepito come continuità inesorabile, come eterno presente privo di senso, sarebbe una condanna. Magari allora il Capodanno può darci una mano a riflettere sul fatto che, sebbene non li percepiamo, passato e futuro esistono eccome, ed esisteranno finché ci sarà il mondo.
copia-di-fullsizerender-2Scrive l’autore Raffaele La Capria: Amo gennaio e tutti gli inizi, anche quando sono un po’ duri, perché quel che inizia e nasce deve sempre superare la barriera del non essere. Amo gennaio perché mi conferma il ritorno della ruota del tempo. Lo amo anche perché è un mese in cui senti che bisogna raccogliere le forze per andare avanti, e richiede perciò concentrazione, progettazione e fantasia.
Voglio condividere con tutti i miei lettori questo augurio per un 2017 ricco di concentrazione, progettazione e fantasia. Sono i talenti che servono a costruire o a ricostruire: e le macerie, materiali o spirituali, oggi non mancano. Costruire significa anche lavorare perché si plachi il conflitto fra passato e futuro, fra realtà e desiderio, fra speranza e delusione.

La pace che mi auguro, per me e per tutti, è quella che si sente in questo brano del pianista Horace Silver. È una ballad lenta, dolce, ma attraversata da un movimento, da una profonda allegria ritmica tipica di Silver (sentite in particolare il suo assolo, a partire da 2.29 e soprattutto da 4.19 a 4.56). Se la serenità è semplicemente una passione smorzata, non serve a nessuno. A nessuno servono risposte che addormentino le coscienze. La vera pace, quando si manifesta in noi o nel mondo, così come nella musica, porta sempre con sé un pizzico d’inquietudine.
Buon 2017!

PS: Le vignette di Larcenet e Thiriet si trovano in La vie est courte (Dupuis 2013; è l’integrale che raccoglie tre volumi usciti tra il 1998 e il 2000). Il verso di Mallarmé è l’inizio di un sonetto pubblicato nel 1885 su La Revue Indépendante e poi incluso nella raccolta Poésies del 1887; la traduzione di Luzi è apparsa nel volume La cordigliera delle ande (Einaudi 1983); ecco i pdf con il testo completo del sonetto e della traduzione. Le parole di La Capria provengono da I mesi dell’anno (Manni 2008, con le illustrazioni di Enrico Job, autore del mazzo di fiori che vedete sopra). Il brano di Horace Silver è tratto dall’album Blowin’ the blues away, inciso per la Blue note a Englewood Cliffs nel New Jersey, il 29 e 30 agosto e il 13 settembre 1959. Insieme a Silver, suonano Junior Cook (sax tenore), Blue Mitchell (tromba), Eugene Taylor (basso), Louis Hayes (batteria).

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L’età delle caverne

Qualche giorno fa ero nel Gargano, in Puglia. Per una serie di circostanze che sarebbe lungo enumerare, e per quella blanda distrazione nei confronti della ragionevolezza che ci siamo abituati a definire come vacanza, mi sono ritrovato a bordo di una canoa, con un giubbotto di salvataggio e una pagaia. Qualcuno mi ha spinto verso il mare aperto.
image1Dopo qualche secondo, preso atto della situazione, stavo già remando… verso dove? Davanti a me si aprivano le infinite vie dell’oceano (in senso lato). Intorno all’anno mille i Maori attraversarono il Pacifico da ovest a est e da sud a nord a bordo di fragili piroghe a bilanciere, orientandosi con i venti e con le stelle. E io, quale meta avrei mai potuto raggiungere? Le coste dell’Australia? Le isole delle Antille? Capo Horn? Per fortuna, tempo qualche minuto, mi sono ricordato di non essere un Maori. Così ho voltato la canoa verso la costa, senza sapere che proprio lì mi attendeva l’ignoto.
image1 copia 2Nella parete rocciosa si scorgeva un piccolo varco. Anche soltanto per cercare un po’ di ombra, il mio compagno di canoa e io ci siamo diretti verso quel passaggio e ci siamo inoltrati in una grotta. Dentro, c’era il rovescio del mondo. Niente più sole abbagliante o azzurra vastità del Mediterraneo. Intorno a noi, soltanto rocce frastagliate e nere, qualche pezzo di legno trascinato dalla marea, qualche riflesso siliceo sulle pareti di calcare e l’acqua tenebrosa, inquieta, che aveva perso ogni trasparenza. Ci siamo spinti verso un angolo e in quel momento, nell’oscurità totale, ho pensato: siamo dentro di noi. Per uno strano effetto di traslazione, la grotta non era più un fenomeno esterno, ma una manifestazione oggettiva dell’inconscio. Ecco la caverna che da sempre accoglie l’umanità, l’antro dal quale siamo usciti, millennio dopo millennio, imparando a essere uomini e donne. Ecco il rifugio, l’ininterrotta oscillazione, l’acqua avvolgente, lo spazio chiuso che ho abitato prima di venire al mondo, mese dopo mese, imparando inconsapevolmente a essere me stesso. Ecco il fondo remoto da cui sorgono le idee e nel quale sono nati tutti i personaggi delle mie storie.
image4Quanti artisti entrano ed escono da queste grotte, alla ricerca di quel porto sepolto, che rappresenta ciò che di segreto rimane in noi indecifrabile. Ma non riguarda soltanto i poeti, è così per chiunque. Anch’io, quando trovo una parola, mi accorgo che scavata è nella mia vita / come un abisso. Il punto di partenza per un atto di linguaggio è sempre qualcosa che viene dal fondo, è come il baricentro di un piccolo terremoto, come un’onda che sale su. Con la nostra canoa a noleggio eravamo approdati a quella caverna abitata da ombre platoniche e ricordi di epoche primitive, a quell’acqua buia assai più che persa, a quella zona oscura dove covano i sogni.
IMG_5289Abbiamo imboccato un cunicolo. Che ci volete fare? La convinzione di essere in un romanzo di Jules Verne si faceva sempre più solida, e ci pareva di sentire accanto a noi il professor Lidenbrock del Viaggio al centro della terra o il capitano Nemo di Ventimila leghe sotto i mari. Il cunicolo si faceva più stretto, cancellando ogni residuo di luce. Sono passati un paio di secondi – o erano epoche millenarie? Dalla profondità veniva un rumore sordo, come il brontolio di un drago che si risvegli dal sonno. Ma era soltanto l’acqua, l’acqua che incessante si frangeva sulle pareti. (Era davvero l’acqua? Mai sottovalutare i draghi).
Copia di image3Poi, ecco uno spiraglio. Lontano, più avanti, s’intravedeva qualcosa di azzurro. Aiutandoci con le mani, abbiamo spinto la canoa. In quell’attimo, ho colto un movimento: appena sfiorato dalla luce, sopra una roccia, è apparso un artropode nerastro; non so se fosse un gambero o un altro tipo di minuscolo crostaceo. Quell’irruzione della vita mi ha rinfrancato. Anche laggiù, nell’anticamera dell’inferno (o dell’inconscio, ma cambia poco), un essere animato s’industria per mandare avanti la sua giornata. Anche laggiù, l’imprevedibilità e il mistero dell’esistenza non cedono all’oscurità, all’ipnotico borbottio del drago.

E finalmente, di nuovo, il mondo. Di colpo la grotta si allarga, come una cattedrale di luce, e tornano i colori mutevoli del mare, del cielo, delle nuvole. Dopo una lunga preistoria, o dopo nove mesi di gestazione, usciamo all’aperto, sotto lo schiaffo del sole. Siamo noi, siamo tornati limpidi, siamo di nuovo quello che vogliamo o che possiamo essere. Ma non dimentico, nel cicaleccio dei gabbiani e dei bagnanti, che quella grotta non me la sto lasciando alle spalle, così come sembra. È qui, la sento, dentro di me. Ogni tanto anche senza canoa mi arrischio nella caverna, alla ricerca di parole, di pensieri, d’immagini, e spero sempre di fare ritorno.
Copia di image1Stavolta, per esempio, eccomi di nuovo con voi. Ho trovato qualche manciata di frasi, abbarbicate alle rocce come pomodori di mare, e le ho distese in ordine. Il viaggio continua, fuori o dentro l’acqua: approfitto della caverna virtuale di questo blog per rivolgere un saluto e un augurio di buone vacanze alle mie lettrici e ai miei lettori… e perché no, anche a quel piccolo crostaceo che, a modo suo, faceva il possibile per essere creativo, e dunque vivo.

 

PS: Qualche giorno dopo la mia partenza, in Puglia è capitato un grave incidente ferroviario. Quei due treni che si sono scontrati fra Corato e Andria, con quell’improvviso manifestarsi del male, della morte, mi hanno fatto riflettere sulla nostra precarietà e sulla vastità del mistero, che a volte è davvero immenso e oscuro come una caverna. Dedico questo articolo alle vittime, ai feriti, ai loro cari, nella speranza che al confine delle tenebre possa un giorno balenare l’azzurro del mare ritrovato.

PPS: Il porto sepolto è il titolo di una poesia di Giuseppe Ungaretti, contenuta nella raccolta omonima stampata per la prima volta nel 1916. Lo stesso autore, in un commento alla sua lirica, diede la definizione che riporto in corsivo. Trovate i versi e la glossa in Vita d’un uomo. Tutte le poesie (Mondadori). Anche i versi successivi sono tratti dal Porto Sepolto (poi confluito nell’Allegria), e in particolare dalla lirica Commiato. La citazione successiva è di Mario Luzi, presa dal volumetto Spazio stelle voce. Il colore della poesia, edito nel 1991 da Leonardo a cura di Doriano Fasoli. L’acqua buia assai più che persa proviene da un verso di Dante, nel canto VII dell’Inferno. Come spiega Dante stesso nel Convivio (IV, XX 2), lo perso è uno colore misto di purpureo e di nero, ma vince lo nero, e da lui si dinomina.

PPPS: Grazie a Martina, autrice di alcune fotografie e del video (la canzone è In my heart, tratta dall’album 18, pubblicato da Moby nel 2002).

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