A Zurigo, sulla luna

#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.

Di fianco a noi siede un ragazzo olivastro.
Barba scura, maglietta nera e scarpe
da ginnastica. Sull’orecchio un brillante
pacchiano. Fissa il suo telefono, poi aggiusta
nelle orecchie gli auricolari. Solo quando si gira
mi accorgo che i suoi occhi sono più azzurri
del vento, senza macchie, e si spalancano
densi come nubi. La piazza riflessa è diventata
minuscola, ora, noi tutti siamo punti dispersi
che non ritrovo, che si sommano ad altri
nel profondo marino di depositi e secoli.

Finché si alza, ride forte e riparte. Anche lui
torna presto insignificante.

[YB]

*

Quando non ci vedi più, immagini tutto. Le cose che sono, quelle che sono state. Le cose che potrebbero essere. Ho negli occhi il paesaggio della mia infanzia – il deserto, le vie della città vecchia, i minareti – e ho nelle orecchie le voci di questa piazza. Ho nelle narici i suoi odori. La campana del tram risuona anche troppo vicina. Il negozio di tabacchi si protende fino a me, insieme alla bottega del fioraio, alla pasticceria, all’edicola con i giornali freschi di stampa. Raggiungo in fretta il marciapiede, prima che arrivi il prossimo tram. Muovo il bastone davanti ai piedi, esplorando l’asfalto. Percepisco i corpi che si scansano per lasciarmi passare.
Mi siedo. Sono stanco. Il cervello lavora per ricostruire lo spazio, immaginando la distanza fra le persone, i palazzi delle banche, il volto di una madre che spinge una carrozzina. Ma nello stesso tempo, con poca fatica, il cervello immagina mia madre: i suoi denti bianchi quando ride, il velo ciclamino dei giorni di festa, le sue mani che impastano la farina. Mia madre, morta da anni, scivola in mezzo a un gruppo di ragazzi in gita scolastica. Il cielo senza confini non è più remoto del piccione che beccheggia a pochi centimetri dalle mie scarpe. Che cosa scegliere?
Potrei vedermi da vecchio al mio paese. Potrei vedermi all’altro capo del mondo. Potrei vedere una donna bellissima sopra i tacchi che si muove, si ferma, si muove. Potrei vedere le labbra che pronunciano parole in tedesco, in inglese, in spagnolo, in italiano, in altre lingue che non conosco. Una donna chiacchiera in arabo al telefono. Rihla sa’ida, buon viaggio. E io resto sulla panchina, con i pensieri che fuggono. Sento una ragazza che dice a un’altra, in tedesco: hai visto che occhi, quello lì? Guarda come sono chiari! Capisco che stanno parlando di un uomo seduto accanto a me. Non so se sia vecchio, se sia giovane, se sia straniero. Lo sfioro delicatamente sul braccio. Lui si volta, mi guarda.
Occhi blu, silenziosi come il mare sognato, come il cielo ricordato, come il tempo della giovinezza e come i pomeriggi che non finiscono mai. Mormoro due parole di scusa e avverto il suo imbarazzo nell’accorgersi che sono cieco. Lui torna a voltarsi dall’altra parte. L’invisibile azzurro del suo sguardo resta con me, ancora per un po’, nel vasto incrocio di Paradeplatz.

[AF]

*

Indietreggiare può fare bene, ogni tanto. Ritornare sulle proprie idee, mostrarsi timidi, lasciare spazio a qualcun altro. Così, all’angolo di Paradeplatz, invece di avanzare sicuri con i nostri taccuini in direzione della solita panchina, indietreggiamo un passo dopo l’altro, fino a ritrovarci all’interno di una corte ricca di marmi, bancomat e boutiques. Qualche metro ancora e compare un bar lussuoso agghindato con qualche pallone, bandierine, finte zolle di finta erba e un trionfante calcio balilla a ricordare il comune gaudio (mezzo mal?) dei campionati del mondo in Russia. Giunge l’eco di frasi lontane, pronunciate a mezza voce dentro un cellulare. Intorno domina la perenne staticità delle pietre levigate. L’unico movimento è quello di una fontana che, sul fondo, lascia intravvedere alcune frasi che scorrono. Sono desideri apparentemente inesaudibili, espressi in più lingue: respirer sous l’eau, essere invisibile, auf einem Teppich fliegen, die Zeit anhalten, be wherever I want…

“Siamo quello che siamo”, si sente dire ogni tanto: “prendere o lasciare”. Invece siamo molto più spesso quello che non possiamo diventare e quello non siamo riusciti a fare. Poco male, la poesia che abbiamo portato con noi sembra proprio uscita da quella fontana e dal flusso di parole: è un’ottava dell’Ariosto, tratta dall’Orlando furioso, dall’episodio di Astolfo sulla Luna (alla ricerca del senno di Orlando).

Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desidèri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai.

La Luna: ecco dove finiscono i vani disegni e i vani desidèri che rincorriamo per tutta la vita, e che non di rado ci plasmano e ci trasformano. Non si contano, sono moltissimi, e infatti la più parte ingombran di quel loco. Un loco speciale, lassù. Luminoso nel cielo di notte e appena accennato nel cielo di giorno, quando il colore dell’aria non è troppo intenso.
Indietreggiare fino alla Luna: presto scompare Zurigo, poi la Svizzera e l’Europa, i territori si dissolvono nel blu, l’orologio non scorre, la gravità è relativa, spazio e tempo sono una cosa sola, noi ci siamo e non ci siamo.
«Luna!», dice mia figlia di un anno e mezzo indicando il cielo con il dito fragile e deciso. «Sì, è la Luna», rispondo ogni volta. E insieme spalanchiamo gli occhi.

[YB]

*

Altre cose viste: due ragazze che si scattano un selfie davanti ai bancomat; un cieco che entra da Sprüngli; ventinove fra uomini e donne che camminano con un bastone (compreso il cieco); due scolaresche; un uomo che si soffia il naso nella maglietta; un mozzicone di sigaro cubano in un vaso; una donna con un velo ciclamino; una madre che sprona i figli a camminare gridando, in italiano, «È laggiù la fontanella!»; tredici carrozzine; innumerevoli cravatte; nuvole; bandiere; un elefante a rovescio; due monaci buddisti con l’ombrello; un carretto a pedali che trasporta champagne; due donne che indossano abiti dello stesso colore del cielo; un candelabro; cani; sigarette; ciclisti; un uomo altissimo.

[AF]

PS: Ludovico Ariosto pubblicò per la prima volta il suo poema nel 1516. Abbiamo citato l’ottava 75 del canto XXXIV (Ludovico Ariosto, Orlando furioso, a cura di Lanfranco Caretti, Einaudi, 1966; 2015).PPS: Scoprire che il tempo non scorre, e anzi non esiste in quanto tale, può dare qualche vertigine. Ma come dice Carlo Rovelli, «L’assenza del tempo non significa […] che tutto sia gelato e immoto. Significa che l’incessante accadere che affatica il mondo non è ordinato da una linea del tempo, non è misurato da un gigantesco tic-tac […]. È una sterminata e disordinata rete di eventi quantistici. Il mondo è più come Napoli che come Singapore» (in L’ordine del tempo, Adelphi, 2017).

  

 

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Andrea, Andrea

Ogni tanto, quando intorno a me tutto tace, ho l’impressione di udire una voce che mi chiami. È una sensazione che provo fin da bambino. Credo che la memoria abbia registrato tanto spesso quel richiamo – Andrea! – che talvolta lo riproduce senza motivo, come un’allucinazione sonora. Oppure, forse, è così che si comincia a diventare matti. Ma il paragone con un miraggio non è del tutto appropriato. In realtà so che nessuno mi sta chiamando; semplicemente, ho l’impressione che nel silenzio qualcosa dica: Andrea, Andrea. Mi chiedo se non sia un modo con cui una parte di me stesso voglia mettermi in guardia: una sorta di sentinella interna per svegliare l’attenzione. Ho trovato un’esperienza simile in un’antica e fulminea poesia persiana; eccone una traduzione libera:
La notte scorsa all’orecchio una voce mi ha sussurrato:
«Non esiste una voce che all’orecchio di notte sussurri».
Qualche giorno fa stavo camminando in una strada di case nuove, parcheggi privati e prati verdi cosparsi di giochi. Il cielo era nuvoloso. A un certo punto, ecco la voce: Andrea, Andrea. Alzando gli occhi, ho visto una catapecchia dal tetto in rovina, come se un meteorite ci fosse rimbalzato sopra. Ho pensato: se davvero una voce mi chiamasse, di sicuro proverrebbe da lì. Mi sono avvicinato. Tra le case nuove e la catapecchia c’era una recinzione. Non si vedeva nessuno, ma la porta era socchiusa e c’era una finestra aperta. Sono rimasto fermo per un minuto, poi mi sono allontanato: se sulla soglia fossi comparso io stesso e mi fossi guardato, non avrei saputo che cosa dirmi.
A poca distanza da quella via, in un prato cosparso di pozzanghere e pali che annunciano future costruzioni, si era accampato un luna park. Qualche volta da bambino mi è capitato di andare alle giostre, ma le macchine che sollevano e sballottano non mi sono mai piaciute. Mi affascinano invece i giostrai: come gli zingari o i circensi, sono rimasti fra i pochi a scegliere una vita nomade in un paese e in un’epoca dove, sempre di più, chi non è stanziale viene guardato con sospetto.
Ho varcato la soglia del luna park con la segreta speranza che potesse avverarsi la promessa implicita nel nome: un mondo lunare, dove le cose di quaggiù si rovescino e appaiano sorprendenti. Avevo in mente la scena dell’Orlando furioso in cui il paladino Astolfo, giunto sulla luna in groppa al’ippogrifo, si accorge che lassù tutto ricorda la terra, ma tutto è misteriosamente diverso.
Altri fiumi, altri laghi, altre campagne
sono là su, che non son qui tra noi;
altri piani, altre valli, altre montagne,
c’han le cittadi, hanno i castelli suoi,
con case de le quai mai le più magne
non vide il paladin prima né poi:
e vi sono ample e solitarie selve,
ove le ninfe ognor cacciano belve.
Astolfo si addentra nel vallone delle cose perdute, dove si raduna tutto ciò che perdiamo sulla terra: desideri, soldi, amori, gloria, bellezza, giorni e giorni che ci sfuggono tra le mani. Nel vallone Astolfo trova un’ampolla che, sotto forma di vapore, contiene la ragione di Orlando, impazzito per amore.
Io, invece, ho trovato una macchina del tempo (ma non ho osato entrarci), un ruscello dove nuotavano paperelle di plastica, una specie di enorme altalena, diverse prove di forza, una piattaforma girevole, un tirassegno, una bancarella chiamata King of the road dove si vendevano plaques fantaisie. Quest’ultima era uno smercio di targhe (in vendita da quindici a sessanta franchi). Ognuna di esse mi pareva pronta a raccontare una storia: quale genere di uomo o di donna potrebbe mai acquistare una targa con il logo della Volkswagen e la scritta PITBULL? Oppure una con il nome LUIGGI (sic) accanto a un coniglietto? Ho provato a immaginare il tipo umano che potrebbe farsi ingolosire da una targa con la scritta EL TERROR e il disegno di un dito medio alzato… be’, di sicuro sarebbe una storia interessante, sia pure con qualche aspetto scabroso.
Nell’aria c’è un impasto di suoni elettrici e grida, voci amplificate (adesso andiamo più veloci, state pronti!) e canzoni che si ripetono (in particolare, riconosco la versione tedesca di un brano tratto dal film Il libro della giungla della Disney). Non ho visto ample e solitarie selve / ove le ninfe ognor cacciano belve; una belva però c’era, nella baracca del tirassegno: una tigre di peluche, appoggiata di fianco a un grande cuore rosso. Passando, ho incrociato il suo sguardo e per un attimo mi è venuto il sospetto che fosse lei a chiamarmi: Andrea, Andrea. Ma c’era troppa gente per rispondere, così ho tirato diritto e mi sono fermato a osservare gli autoscontri. C’erano gli stessi personaggi di sempre: la Mamma Malvagia (che si accanisce contro chiunque trovi sulla sua strada), il Nonno Pazzo (con accanto una nipotina terrorizzata), l’Adolescente Solitario (a caccia di prede), le Ragazzine Isteriche (possibili prede), i Coniugi Killer (su due macchine diverse, cercano di colpirsi fra di loro: non si capisce se per odio o per amore).
Prima di andarmene, m’inoltro nel labirinto degli specchi. L’impresa è ardua perché, sebbene abbia un aspetto assai rudimentale, si tratta pur sempre di un labirinto: nella sua conformazione assomiglia tanto alla nostra vita (oltre che all’Orlando furioso) da non poter essere preso alla leggera. Dopo qualche passo mi pare di essere in un limbo. Vedo i genitori che dall’esterno incitano i propri figli, vedo i ragazzini che intorno a me guizzano come trote in un torrente, vedo una fanciulla che picchia una testata contro uno specchio. Ma quando mi trovo nel mezzo capisco che, anche se volessi balzare fuori, non potrei: per trovare la via sono costretto a seguire le regole del labirinto.
Nel punto più lontano dall’uscita, dove si nasconde il Minotauro, intuisco ciò di cui si deve essere accorto anche Teseo: il Minotauro sono io. Sono io che dal cuore del labirinto chiamo me stesso – Andrea, Andrea – perché finalmente mi trovi e mi riconosca. Forse dentro ogni eroe, dentro ogni persona esiste una voce che chiama, che continua a chiamare con dolcezza ma con insistenza, come un timore, come una promessa. Che cosa cerca, il Minotauro? La morte, la redenzione, qualcosa che possa medicare la solitudine? È difficile saperlo. Dopo gli specchi deformanti, finalmente, eccomi all’uscita. Mentre mi allontano, mi torna in mente una delle mie poesie preferite: Paura seconda, di Vittorio Sereni.
Niente ha di spavento
la voce che chiama me
proprio me
dalla strada sotto casa
in un’ora di notte:
è un breve risveglio di vento,
una pioggia fuggiasca.
Nel dire il mio nome non enumera
i miei torti, non mi rinfacciai il passato.
Con dolcezza (Vittorio,
Vittorio) mi disarma, arma
contro me stesso me.
Prima di uscire passo accanto alla grande altalena, che compie un giro completo fra gli squittii dei passeggeri. Li vedo dal basso: qualcuno è teso, rigido, qualcun altro ride, qualcuno tenta di mantenere un contegno. Il gestore fuma una sigaretta, con gli occhi fissi alle montagne, indifferente agli strilli che provengono dalla macchina. Incrocio per un attimo il suo sguardo e sono sicuro che una voce, da qualche parte, sta chiamando pure lui.

PS: Sopra ho parlato di pali che annunciano future costruzioni. Tecnicamente, nella Svizzera italiana si usa la parola modina. Lo scopo delle modine è appunto quello di disegnare nell’aria il futuro, indicando il volume che occuperà (o che occuperebbe) l’edificio per il quale è depositata una richiesta di costruzione. Chi desidera cambiare il futuro, può inoltrare ricorso.

PPS: La poesia persiana è citata da Jean-Claude Carrière in Le cercle des menteurs (Plon 1998). L’ottava di Ariosto è la numero settantadue del trentaquattresimo canto dell’Orlando furioso. Paura seconda è tratta dalla raccolta del 1981 Stella variabile (si trova anche in Poesie, Mondadori 1996).

       

       

              

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