Il cavallo e l’anatra

Rodolfo Abella è nato nel 1954 e vive in un villaggio nella Cordigliera delle Ande. Una delle sue attività favorite è camminare lungo il letto dei torrenti, osservando il legname trascinato e levigato dalla corrente. In un ramo, in una scheggia di corteccia o in una radice contorta, Abella legge un frammento di una forma compiuta. Allora raccoglie i pezzi di legno e li porta a casa. Poi li accosta e li assembla, finché diventano ciò che aveva intravisto mentre camminava nel ruscello.
fullsizerenderUn paio di settimane fa, a Losanna, sono entrato nel Musée de l’Art Brut e mi sono imbattuto in un cavallo costruito da Abella nel 1995. Ciò che più mi ha sorpreso non è tanto la perizia compositiva, quanto la capacità di vedere e comunicare un cavallo, contro ogni logica evidente, usando un alfabeto nascosto e apparentemente caotico. L’incontro con il cavallo deve aver suscitato in me un desiderio di comunicazione incontrollato, perché qualche ora dopo – in un negozio del centro – ho comprato un richiamo per anatre. Avrei voluto provarlo già a Losanna, ma non ho avuto modo di incontrare anatre; ho aspettato così la settimana dopo quando, ai Giardini inglesi di Monaco, in Baviera, ho tentato di conversare con qualche palmipede ai bordi di un laghetto.
image1Il tentativo è in parte riuscito: le anatre hanno tutte nuotato verso di me, ignorando chi a poca distanza tentava di adescarle offrendo loro briciole di pane. Tuttavia, dentro di me ha preso forma la consapevolezza che il dialogo era soltanto un’apparenza, un lanciare segnali senza sapere codificarli. Io restavo irrimediabilmente me stesso, mentre le anatre restavano anatre, senza un’intersezione nei nostri modi di vedere e spiegare il mondo.


Ho riflettuto sulla condizione degli artisti. Mi sono chiesto se affrontare un’opera d’arte non sia come parlare a un’anatra: intuisco la presenza di un messaggio, ma non so appropriarmene. Sempre a Monaco, nella Pinacoteca di Arte Moderna, ho visto un’installazione che metteva in scena un tavolo apparecchiato per la prima colazione. C’erano tazze, piattini, teiere di raffinata ceramica… ma sulla tovaglia erano proiettate immagini che rappresentavano la profondità degli abissi marini. È tutto qui; non ricordo neppure il nome dell’artista. Comunque, mi sembra che quella voragine nella quotidianità esprima anche il mio modo di essere, sebbene non trovi le parole per precisare questa sensazione.
copia-di-fullsizerenderNello stesso museo, mi sono trovato in una sala dov’era allestita l’opera La fine del Ventesimo secolo di Joseph Beuys (1921-86). Costruita nel 1983, consiste in un insieme di 44 pietre di 48x150x40 centimetri, tutte ammassate in una stanza. Ogni pietra ha un foro nel quale è inserito una sorta di tappo, fatto dello stesso materiale delle pietre. Mentre ero lì, si sono timidamente affacciate due visitatrici francesi di una certa età. Hanno cominciato a discutere fra di loro, chiedendosi la ragione dei fori e dei tappi. Alla fine hanno provato a chiedere a un custode che, con aria annoiata, se ne stava in piedi sulla soglia. Ma nemmeno lui sapeva spiegare il senso di quel bouchon inserito in ogni pietra. Del resto, non aveva l’aria di uno che conoscesse l’autore o l’opera; con la barba di un paio di giorni, le borse sotto gli occhi e i capelli un po’ spettinati, sembrava semplicemente aspettare la fine del turno. Ha però ascoltato con pazienza le domande delle due signore e poi, con un mezzo sorriso, ha detto loro (in francese): Di sicuro, nell’arte non esistono coincidenze. Mi ha stupito questa fiducia nella presenza di un significato, nonostante l’incapacità di coglierlo.
Nello stesso museo ho incontrato altre opere misteriose. Per fare solo un esempio, la fotografia
An eviction (1988-2004) di Jeff Wall, un artista nato nel 1946. In un quartiere residenziale di Vancouver, la polizia opera uno sfratto, con violenza, mentre intorno la vita procede come sempre.
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Non so spiegarmi tutto questo, anche se in un certo senso mi rappresenta. Non so comunicare con le anatre né so intravedere una logica in ciò che mi accade intorno: a differenza di Abella, insomma, non riesco a costruire il cavallo. Durante il viaggio a Monaco, mi è capitato di pensarci mentre dalla cima di una torre, al tramonto, osservavo i movimenti della folla: se uno spariva inghiottito dall’oscurità della metropolitana, c’era una ragione; se altri due si fermavano a parlare e poi si separavano, c’era una ragione; se un terzo sostava da solo accanto a un cestino dell’immondizia, c’era una ragione. Ma per me, dall’alto, tutto era incomprensibile.
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L’incapacità di riuscire a esprimere il proprio sentire non è soltanto una difficoltà artistica, ma può consistere in un malessere che spinge nello stesso tempo verso il silenzio e verso l’esigenza insopprimibile di trovare le parole. Nei dintorni di Monaco, ho visitato il memoriale del Campo di concentramento di Dachau; e davanti ai pannelli, nelle baracche, nel flusso di turisti, mi sono riecheggiate nella mente le parole di Elie Wiesel: Dire l’indicibile, comunicare con la parola ciò che sfida la parola. Mantenere vivo il ricordo di un mondo scomparso nella cenere. Conferire un senso umano a un evento che, per la sua dimensione di crudeltà, si situa oltre l’umano. Offrire ai nostri figli la possibilità, se non la necessità di non rinunciare alla speranza.
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La tensione verso il significato raggiunge di rado tali vertici, nati da un’esperienza che sta appunto oltre l’umano. Ma per tutti gli artisti e gli scrittori questa tensione è sempre qualcosa che smuove, che genera parole (quando va bene) o angoscia (quando l’atto di linguaggio pare privo di efficacia). Anche per me, nel mio piccolo, l’incapacità di trovare una corrispondenza è spesso drammatica. In un suo breve saggio, Giuseppe Pontiggia mette l’accento proprio su questa difficoltà: Non crediamo più nella parola giusta, ma conosciamo per esperienza quella sbagliata. Ne siamo sommersi. Ritrovare l’energia biologica della parola è una sfida che vale la pena sia raccolta. Perché ciò avvenga, è necessario trovare il modo di passare dall’esperienza dell’anatra a quella del cavallo. Conclude infatti lo stesso Pontiggia: Non si scrive né per sé, né per gli altri. Si scrive per quel sé che coincide con gli altri.

PS: Le parole di Elie Wiesel provengono da La notte (La Giuntina 1980; l’edizione originale in francese risale al 1958). Il saggio di Pontiggia, intitolato “Linneo e il romanzo contemporaneo”, si trova in L’isola volante (Mondadori 1996). Le fotografie delle opere d’arte sono in parte scattate dal vivo, in parte tratte dalle cartoline acquistate nei musei. Ringrazio Ilaria per le immagini di Monaco (quella più in basso rappresenta le scale della Alte Pinakotheke).

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Espero

La settimana scorsa sono andato a Losanna. Visto che alla galleria del San Gottardo c’erano tre chilometri di coda, sono passato dalla Novena. Ma nel fondovalle il traffico era fermo, a causa di un incidente: per tre o quattro ore la circolazione, come ha detto la radio, è rimasta interrotta. Durante l’attesa, le persone occupavano il tempo come potevano: telefonando, dormendo, ascoltando musica, camminando su e giù lungo la strada; alcuni turisti, fuoriusciti da un autobus, si sono messi a intonare cori alpini. Qualche chilometro più avanti i pompieri spegnevano l’incendio che, nato da uno scontro frontale, stava divampando nei boschi intorno alla carreggiata.
img_6760Ci vuole poco, ho pensato, per spezzare un pomeriggio estivo. Strade di montagna intasate, lamiere contorte, fumo, sirene di ambulanza. La sensazione di essere fermi, impotenti, a poca distanza da un evento drammatico, fonte di sconcerto e sofferenza. Quando sono arrivato a Losanna (in ritardo di parecchie ore), sentivo ancora muoversi dentro di me i sentimenti nati dalla sosta forzata: impotenza, tristezza, incomprensione. Le vie intorno all’albergo, a Épalinges, erano deserte. Per riprendermi ho deciso di fare due passi. Sentivo il suono delle mie scarpe sull’asfalto, percepivo il fiato che entrava e usciva dal polmoni, il flusso del sangue continuamente pompato dal cuore. Le strade erano vuote. I bar erano chiusi. E io camminavo, camminavo, come se il gesto mi aiutasse a sentirmi vivo.
img_6762Ero a Losanna per la consegna del premio La Fenice Europa al romanzo L’arte del fallimento. Non mi soffermo sui dettagli, limitandomi a esprimere un ringraziamento ad Adriano Cioci, Rizia Guarnieri, Claudio Toscani, insieme a tutti i membri dell’Associazione Bastia Umbra. Sono grato anche alle varie altre associazioni che sostengono il premio, in Italia e all’estero; ai lettori e alle giurie sparse per il mondo; agli autori Luigi Ballerini, Carlo De Filippis e Fioly Bocca. È la mia seconda esperienza al premio La Fenice Europa: in Umbria come a Losanna, l’accoglienza è sempre splendida. Anche quest’anno mi ha colpito la vitalità, l’entusiasmo con cui gli organizzatori – senza nessun profitto – s’impegnano a promuovere la lingua e la cultura italiana in tutto il mondo.
Non vi racconto altro, perché trovate tutto sul sito del premio e perché vorrei dedicare ancora qualche riga al gesto di camminare, che da sempre è per me un antidoto alla tristezza e all’ansia. Sabato mattina splendeva il sole, a Losanna, ed era giorno di mercato. Nelle vie del centro, sotto la cattedrale, s’incrociavano famiglie, pensionati, venditori e sfaccendati (categoria nella quale rientravo pure io). Non so spiegare in che modo dentro di me sia cresciuto un moto di leggerezza, difficile da esprimere in astratto ma legato senza dubbio al ritmo discontinuo della passeggiata. In place de la Riponne, accanto a una donna che soffiava immense bolle di sapone, circondata da un nugolo di bambini, c’era una bancarella che promuoveva la diffusione dell’esperanto, offrendo dieci lezioni gratuite. Passando di fianco, ho visto un distinto signore di mezza età che raccontava a una ragazza di essere un apprenti espérantophone, spiegandole come il nome della lingua derivi dalla parola espero, che significa “speranza”.
img_6761Sabato sera una lettrice mi ha chiesto spiegazioni su un personaggio citato nel romanzo, l’esploratore inglese Ernest Shackleton (1847-1922). Mentre le rispondevo, ho pensato che proprio Shackleton, nei suoi diari, fornisce un buon esempio di che cosa siano il fallimento e la speranza. Come esploratore, fallì quasi tutte le sue imprese: non raggiunse il polo Sud, non riuscì ad attraversare l’Antartide. Nemmeno a casa ebbe una vita serena, per colpa della depressione, dell’alcol, di amori infelici e disordinati. Ma quando le cose si mettevano male, rivelava una tenacia sorprendente. Nel 1915 perse la nave, stritolata dal ghiaccio dell’Antartide. Senza scomporsi, radunò il suo equipaggio, in mezzo al vuoto della banchisa, nel freddo, nel buio perenne. Guardò i suoi compagni e disse: bene, ragazzi, ora torniamo a casa. E ci riuscì, con un’impresa pazzesca. Un paio di anni fa, leggendo il diario di Shackleton, mi colpì un episodio marginale, accaduto durante il lungo viaggio verso la salvezza. Quel dettaglio mi rimase nella mente, mentre stavo scrivendo L’arte del fallimento.

Mario raccontò a Lisa che, dopo una traversata di millecinquecento chilometri in balia di uno dei mari peggiori al mondo, Shackleton era riuscito a toccare terra nella Georgia del Sud, non lontano da Capo Horn. E allora, in una baia sperduta, avvistò alcuni resti di navi, trascinati fin lì dall’oceano: barili, alberi, pezzi di pennoni, di chiglia, e fra le altre cose anche il modellino di uno scafo di nave, di certo un giocattolo per bambini.
– Shackleton si chiede quale tragedia si nasconda dietro quell’oggetto – disse Mario. – Un giocattolo, capisci? L’unica traccia di un naufragio: un piccolo giocattolo sbattuto dal mare sulle rocce, in capo al mondo. Tutte le speranze, l’entusiasmo, chissà, forse una famiglia di emigranti… è una cosa che, a pensarci, ti viene da piangere.
Ci fu un lungo silenzio. Poi Mario mormorò:
– Ecco il fallimento. Non gli insuccessi dei grandi, nemmeno i disastri di Shackleton. Ma quel giocattolino, quella nave in miniatura dice tutto quello che mi serve.
– E cioè?
– Non so che storia ci sia dietro, nessuno lo saprà mai. Che cosa significa, perché il giocattolo si è salvato? Non riesco a capirlo, ma ho qualcosa su cui riflettere. – Una pausa. – O forse non bisogna capire, forse bisogna solo pensarci, ogni tanto, a quella piccola nave.

Quando Mario viene a sapere di questo episodio, riconosce in quel giocattolo un simbolo della sua stessa vicenda. Il fallimento di Mario è meno tragico, ma anche lui deve accettare una sconfitta. Insomma, quella piccola nave intravista da Shackleton, in mezzo ai detriti scampati alla bufera, diventa un emblema. Per Mario è qualcosa su cui riflettere, per me è come un promemoria: pur senza capire, cerco di non dimenticare chi ha fallito, chi non ce l’ha fatta, chi è rimasto per strada. Nelle mie storie, tento di dare spazio e voce a questi personaggi.
img_6764Paradossalmente, quel giocattolo sbattuto sulle rocce può essere anche un segno di speranza. Che cosa ne sappiamo noi, in fondo, di ciò che si perde e di ciò che rimane? Quando una sconfitta si fa narrazione, lascia sempre qualcosa nelle menti e nei cuori, incide una ferita nella memoria. Finché ci saranno emigranti, famiglie che affrontano Capo Horn, esploratori tenaci, viaggiatori per mare e per autostrada, navi giocattolo, creatori di bolle di sapone, inventori di lingue, scrittori e lettori, finché ci saranno uomini e donne che parlano del futuro, non sarà vano pronunciare in ogni lingua la parola espero.

PS: In italiano potete leggere: Ernest Shackleton, Sud. La spedizione dell’Endurance in Antartide 1914-1917, Mursia (avevo parlato di questo volume anche qui, su “Il Libraio”). Fra l’altro Frank Hurley, il fotografo della spedizione, riuscì miracolosamente a salvare alcune lastre. Qui sotto, ecco un’immagine storica: gli uomini rimasti in attesa nell’inferno gelido di Elephant Island salutano il loro capitano che, dopo un’impresa ai limiti dell’umano, è tornato a prenderli.

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