One Tree

“Viaggi immaginari” è una serie di reportage da luoghi che non ho mai visto, scelti a caso sulla mappa del mondo. A farmi da guida l’antico gioco Hanafuda, che scandisce le stagioni dell’anno. Ogni mese le carte mi accompagnano nella scrittura di un racconto di viaggio e di un haiku.

Dicembre
Hanafuda: Paulonia / Fenice
Luogo: One Tree, Nuovo Galles del Sud, Australia
Coordinate: 34°11’05.9″S; 145°15’00.5″E
(Latitudine -34.18498; longitudine 145.25014)
One Tree, Australia.
– Perché non ti fermi ancora un po’? – mi chiede Jacqueline.
– Non posso, devo lavorare.
Siamo seduti sotto il portico dell’hotel, di fronte alla pianura punteggiata da radi cespugli. Jacqueline è sulla settantina. Parla un inglese senza inflessioni e nomina solo continenti, mai singoli paesi. Mi spiega che vive parte dell’anno «nelle Americhe» e parte «in Eurasia», poi mi chiede che mestiere faccia. Io cerco di spiegarglielo.
– Ho capito – dice lei. – È una specie di lavoro precario, right?
Io annuisco, poi cambio discorso e le domando se conosca la paulonia, il fiore che l’hanafuda propone per questo mese.
– Uh, non farmi pensare ai fiori… di che colore è?
La pawlonia tomentosa è una pianta flessibile, leggera, splendida quando si colora di viola. In Giappone, suo paese d’origine insieme alla Cina, è conosciuta come kiri (桐); nelle lingue occidentali invece prende il nome da Anna Pavlovna Romanova (1795-1865), l’ottava figlia dello zar Paolo I. Si dice che sia l’unico albero fra i cui rami si posi la fenice, il leggendario “uccello di fuoco” di cui scrissero antichi narratori e poeti. La fenice ogni cinquecento anni muore tra le fiamme e risorge dalle sue stesse ceneri; fra l’altro, sembra che possa riposare nelle fronde del suo albero prediletto solo quando al potere c’è un governante giusto – dunque, con i tempi che corrono, i cieli pullulano di fenici stanche di volare, che cercano, cercano un impero, un regno, magari solo un villaggio dove abiti la giustizia e fioriscano le paulonie.
Mentre parlo della paulonia, mi torna in mente l’aggettivo usato da Jacqueline: precarious. È una parola inflazionata, purtroppo. Prima di partire per l’Australia ho partecipato a un aperitivo di fine anno. In queste circostanze si finisce per parlare sempre delle stesse cose: meteorologia, sport, famiglia, lavoro… (Ho provato a infilare nella conversazione la pawlonia tomentosa, ma con scarsi risultati.) Il lavoro, in particolare, torna in maniera martellante. C’è chi ha un impiego solido, facile da spiegare. C’è chi ha perso da poco un impiego solido, facile da spiegare, e si vergogna a confessarlo. C’è chi da mesi o da anni è senza lavoro, chi ha un lavoro che detesta, chi ha un lavoro precario. Seduto sotto il portico dell’One Tree Hotel, penso che “precario” è l’aggettivo giusto per definire l’essere umano su questa terra. Che cosa resiste al mutare delle epoche, o anche solo di una generazione?
– Un party di Capodanno! – esclama Jacqueline. – Lo sai, ti capisco.
– In che senso?
– Sarei fuggita in Australia anch’io, se già non fossi qui.
One Tree si trova lungo la Cobb Highway, nella grande pianura fra Hay e Booligal. Nel 1862 venne edificato un hotel, che bruciò nel 1903 ma venne subito ricostruito tale e quale; oggi è ancora in piedi e resiste alle tempeste, al sole, al fuoco.
Jacqueline mi ha detto che la località di One Tree è conosciuta anche come “Hell”, a causa di un poeta che la descrisse così. In effetti, nelle ore centrali del giorno, il sole picchia feroce e prosciuga i billabong, le tipiche pozze d’acqua del deserto australiano. Di recente nel Nuovo Galles del Sud è stato dichiarato lo stato d’emergenza: le temperature non sono mai state tanto alte e di continuo si accendono nuovi roghi; negli ultimi mesi le fiamme hanno distrutto centinaia di case.
– Oggi sei stato nel deserto?
– Sì.
– Da solo?
– Sì.
– Hai avuto pensieri buoni o cattivi?
– Buoni e cattivi.
– Come sempre. Non occorre andare nel deserto per essere nel deserto.
Durante la mia escursione ho riflettuto sugli incendi, sulla devastazione, sulla nostra fragilità e anche sulla tenacia che ci spinge a ricostruire. Insieme al male inestirpabile, insieme alla precarietà, l’essere umano ha questa prodigiosa resistenza, questa vitalità che nessuna fiamma riesce ad annientare. Quante volte mi capita di scordarmelo? Spesso mi sorprendo a ragionare come se fossimo spacciati, come se la mia fatica fosse una prova dell’inutilità di ogni sforzo. Proprio questo, forse, è uno dei mali peggiori: perdere la speranza, la fiducia nei confronti dell’umanità.
– Raccontami ancora di quell’uccello… come si chiama?
– La fenice – rispondo. In inglese: the phoenix.
– Ah, sì, come la città. Hai detto che brucia e che risorge dalle ceneri, right?
– Sì. Ogni cinquecento anni.
Jacqueline annuisce, lentamente. – È quello che facciamo tutti.
– Cosa?
– Bruciare. E risorgere. È la vita, right? Ogni giorno qualcosa muore, qualcosa tenta di rinascere, e intanto diventiamo vecchi.
– Sì, è un buon riassunto, ma…
– È strano – Jacqueline m’interrompe.
– Come?
Phoenix. È un nome strano, per un uccello.

HAIKU

Libero i vetri
dal ghiaccio e nel frattempo
l’anno finisce.

PS: Questo è l’ultimo “viaggio immaginario”. Ecco le puntate di gennaiofebbraiomarzo, aprilemaggiogiugnoluglioagostosettembreottobre e novembre.

PPS: La foto della paulonia è presa da internet.

PPPS: Un augurio di buon 2020 a tutte le lettrici e a tutti i lettori di questo blog!

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Radio, tivù e tam tam

Ogni microfono è un invito a stare zitti. Se ne sta lì come un moscone a cui abbiano tagliato le ali. E tace, aspettando di risucchiare parole. Un microfono amplifica. Trasmette. Registra. Distorce. Prende quello che dici e lo porta altrove. Le persone sagge dovrebbero guardare i microfoni con cautela, da lontano, come fanno i turisti che vanno in Africa a spiare i leoni: senza scendere dalla jeep. Ma con un microfono è più complicato. Di solito, se ci sei finito davanti, è perché qualcuno si aspetta che tu scenda dalla jeep.
Come scrittore cerco di essere attento alle parole. Anche una penna o la tastiera di un computer sono un invito a tacere, o meglio, a lasciare che affiorino soltanto le parole necessarie. Credo che la domanda personale – perché scrivo? – sia un’eco della Grande Domanda Impegnativa, quella che indaga il senso della letteratura (per non dire della Letteratura). Senza teorizzare troppo, mi riconosco nel pensiero di Giuseppe Pontiggia: Penso che una delle mete di un narratore sia di dar vita a un testo che alla fine ne sappia più di lui, un testo che rappresenti per lui una fonte di sorpresa, di curiosità, di conoscenza, che non lo deluda alla rilettura, ma anzi riveli significati nascosti che lui stesso non poteva prevedere. Insomma: un testo è riuscito se ne sa di più dell’autore.
Ma questo ancora non ci spiega la ragione per cui, davanti a un microfono, dovremmo scendere dalla jeep. Nel mio caso, si tratta di lavoro: la mattina vado alla radio e accendo il microfono perché mi pagano per farlo. Questa tuttavia è una spiegazione parziale (e lo è pure nel caso della letteratura). Per fare bene il mio lavoro ho bisogno di pormi la domanda personale – perché dico parole alla radio? – e anche la Grande Domanda Impegnativa: a che cosa serve nella Confederazione svizzera l’esistenza di una radio pubblica in lingua italiana, con un canale culturale?
Lavoro alla Radiotelevisione svizzera (RSI) dal 2005: come animatore a Rete2 (il canale culturale), come giornalista all’Informazione, come animatore a Rete3 (un altro canale radiofonico), poi come conduttore in un programma televisivo in diretta, oggi di nuovo come conduttore a Rete2. Sono in onda dalle 6 alle 9.30. Mi sveglio alle 4 a Bellinzona e arrivo a Lugano, nella sede della radio, alle 5. Leggo i giornali, mi preparo. Alle 5.30 arriva il regista tecnico. Alle 6 premo il pulsante rosso.
Ragionavo sul mio lavoro già all’epoca in cui mi occupavo dei notiziari. Sedevo davanti a uno schermo sul quale scorrevano le agenzie da tutto il mondo. Ogni sessanta minuti scrivevo un testo con le notizie più importanti, poi lo leggevo al microfono. Il turno dalle 8 alle 17, quello dalle 18 all’una, quello dall’una alle 8. Anche di notte, implacabilmente, un notiziario a ogni scoccare dell’ora. Anni dopo mi capitò di andare in onda alla tivù il mattino presto, a partire dalle 7. Ricordo i lunghi corridoi fino alla sala trucco. La conduttrice di solito era già lì da un po’ a farsi acconciare i capelli. Io mi sedevo davanti allo specchio e mi trovavo davanti a una faccia che, secondo la truccatrice, era proprio la mia (ma non ne sono ancora sicuro, nemmeno oggi). E mi chiedevo: perché?
L’alba è il momento delle domande. Guardo il parcheggio, spettrale, illuminato da un lampione che ce la mette tutta ma sembra addormentato pure lui. A che cosa serve questo lavoro? Me lo chiedo guidando lungo l’autostrada deserta, poi quando finalmente saluto le ascoltatrici e gli ascoltatori. Forse la risposta si trova proprio in quella solitudine che, il mattino presto, sembra avvolgere il mondo.
Di recente mi è capitato di leggere una poesia di Antonia Pozzi, intitolata Lieve offerta. I versi finali esprimono un auspicio: Vorrei che la mia anima ti fosse / leggera, / che la mia poesia ti fosse un ponte, / sottile e saldo, / bianco – / sulle oscure voragini / della terra. Antonia Pozzi affida alla poesia il ruolo di un ponte. Questo può essere vero sia per la scrittura, sia per la radio e la tivù. Le parole hanno la capacità prodigiosa di fare da ponti, di costruire connessioni fra persone che non si vedono e che magari non s’incontreranno mai. Ma la voce di una radio accesa è già un incontro, così come lo è il riconoscersi nei personaggi di un romanzo. Tutti sappiamo quanto possano essere oscure le voragini della terra, e quanto gli esseri umani abbiano l’esigenza di riconoscersi negli altri.
Esiste un mezzo più antico e più potente della radio e della tivù. Forse anche più potente della scrittura. Parlo del tam tam, il tamburo africano che veniva usato per trasmettere a distanza segnali e messaggi. Mi ha sempre stupito, fin da bambino, l’estrema essenzialità del codice: una sequenza di colpi assume un significato, come se i battiti del cuore diventassero parole. Inoltre, mi affascinava la classica scena da storia avventurosa, con i personaggi che camminano nella giungla e sentono all’improvviso risuonare i tamburi. Qualcuno immancabilmente chiede: Che cosa stanno dicendo? E la guida, con tono brusco: Parlano di noi.
Parlano di noi. È tutto qui. Parlano di noi. Sempre Pontiggia diceva che parlare è scoprire, attraverso il dialogo, qualcosa che non si sapeva di conoscere. In un buon programma radiofonico o televisivo, ogni discorso è un dialogo: fra il conduttore e l’ospite oppure fra il conduttore e il pubblico (anche se non parla, resta un interlocutore, presente e concreto). Ecco una possibile risposta alla domanda personale e alla Grande Domanda Impegnativa. Sebbene non abbiano la potenza primordiale dei tam tam, la radio e la tivù sanno tessere una rete di legami. Oggi più che mai è utile e preziosa una radiotelevisione che crei un ponte fra il vasto e intricato mondo e la Svizzera italiana, fra la Svizzera italiana stessa e i suoi abitanti, fra le diverse anime e lingue della Confederazione e, non da ultimo, fra me e me stesso, fra me il mondo, fra me e te.PS: Giuseppe Pontiggia è uno dei miei maestri. Le frasi che ho riportate provengono da una serie di conversazioni tenute nel 1994 e registrate dalla radio italiana (Radio 2 RAI). Si trovano nel volume Dentro la sera. Conversazioni sullo scrivere (Belleville 2016). Antonia Pozzi, nata nel 1912, morì suicida a 26 anni nel 1938. Il 5 agosto 1934 scrisse la lirica che ho citato (qui il testo completo). La poesia è tratta dal volume Lieve offerta (Bietti, 2014).

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Fuori dagli stalli demarcati

Oggi è il 30 novembre, festa di sant’Andrea. Secondo la tradizione è l’inizio dell’inverno. È anche il giorno in cui si chiudono i conti: ognuno restituisce ciò che ha preso e riprende ciò che ha dato. L’anno sta finendo, si comincia a pensare al futuro, ma intanto le giornate sono sempre più fredde e assediate dall’oscurità. Nel pomeriggio raggiungo la mia solita piazzetta, nel quartiere delle Semine a Bellinzona. Mi siedo su una panchina e mi metto a pensare al futuro. La piazzetta è vuota, la fontana muta, i cespugli sfioriti. Passano due ragazzi con un barboncino al guinzaglio. Il barboncino ha un cappotto nero. L’ultimo sole sta pennellando la cima delle montagne. Be’, insomma, che cos’è il futuro? Quando comincia, esattamente?
Ricordo che nel mese di luglio me ne stavo seduto su questa stessa panchina. C’erano pensionati in canottiera, adolescenti abbronzati, un ubriacone che teneva la birra in fresco nella fontana. Dal Mc Donald’s veniva un odore di fritto, mentre le auto in coda al semaforo, scintillanti sotto il sole, mettevano caldo solo a guardarle. E io già pensavo al futuro, e il futuro era questa piazzetta nel mese di novembre. Per essere precisi: la neve sulle montagne, l’aria pungente, l’arancione dei cachi sui rami spogli. Ed eccomi qui. Ora che mi trovo nel futuro, come immaginare la piazzetta di luglio? È diventata passato oppure diventerà altro futuro? È una di quelle situazioni in cui i pensieri si mordono la coda. Cose che succedono d’autunno, nelle piazze vuote. Il mondo è sospeso fra un prima e un dopo che si confondono, tanto che il dopo potrebbe venire prima e io, muovendomi verso la mia morte, potrei tornare in qualche modo alla mia infanzia, come un salmone che sale verso lontani ruscelli dimenticati.
Alzo il bavero della giacca e leggo I racconti di Nick Adams di Ernest Hemingway. Aveva paura di guardare Marjorie. Poi la guardò. Seduta gli voltava la schiena. Guardò la schiena di Marjorie: «Proprio non è divertente» disse. «Nemmeno un po’.» Lei non disse niente. Egli continuò. «Mi pare come se tutto dentro di me fosse andato al diavolo. Non so, Marge. Non so proprio cosa dire.» Continuò a fissare la schiena di lei. Chiese Marjorie: «Non è divertente l’amore?» «No» disse Nick.
Il ritmo inesorabile della prosa di Hemingway sostituisce le chiacchiere dei pensionati, che oggi sono rimasti al caldo. È uno strano libro, in cui si percepisce una tenerezza verso le cose semplici, un desiderio di essere fedele alla vita. Nello stesso tempo, c’è da combattere contro il buio che, all’inizio, si presenta in maniera ingannevole, travestito da nostalgia per il passato o da incertezza per il futuro. Il protagonista combatte come sempre fanno gli eroi di Hemingway: se ne sta ancorato al qui e ora, cercando di fare nel miglior modo possibile ciò che deve fare. Make your job, che si tratti di pescare nei ruscelli del Michigan o di sopravvivere alla guerra o ancora di scrivere come Cézanne dipingeva.
Vicino alla piazzetta c’è un camper parcheggiato senza targhe, in attesa che torni la bella stagione. Sul retro ci sono due adesivi con le scritte Sun Living e Vivere viaggiando. Visto che non c’è nessuno, lascio Hemingway e ne approfitto per fare un filmato, girando intorno alla fontana. Due ragazzine mi osservano sconcertate. Quando mi avvicino, si voltano e scappano di corsa. Io scatto una foto a un albero di cachi. Da lontano sento una delle ragazzine che dice all’amica: Ma non può, Ali, è casa nostra! Andiamo a dirlo alla mia mamma! Prima di che qualcuno mi denunci, torno a sedermi e cambio paesaggio. Mark Twain, Huck Finn, Tom Sawyer e La Salle si affollarono disordinatamente nella testa di Nick che guardava la scura e liscia distesa d’acqua lentamente in moto. Intanto ho visto il Mississippi, pensò felice.

Non dovrei essere qui. Un uomo avvolto in un giaccone, solo con un libro nella piazza deserta, sorpreso nell’atto di fotografare cachi e di navigare sul Mississippi. Non dovrei essere qui. Perché butto via il tempo? Dovrei lavorare o andare a correre o pensare ai regali di Natale, o fare qualunque cosa ragionevole che mi permetta poi di lamentarmi per lo stress. Oh, vorrei essere stressato. Se fossi stressato, tutto sarebbe più semplice. Di certo non cadrei nella trappola della piazzetta e non confonderei il passato e il futuro.
Intanto ho visto il Mississippi, pensò felice. La felicità nei racconti di Hemingway è così pura da essere straziante, anche perché dura solo il tempo di pulire le trote. O di finire la pagina.
Cézanne cominciò con tutti i trucchi. Poi demolì tutto e costruì la cosa vera. Fu tremendo da fare. Fu lui il più grande. Il più grande d’ogni tempo e per sempre. Non era un culto il suo. Era che Nick voleva scrivere della campagna per riuscire a essere quello che Cézanne era stato in pittura. Bisognava farlo dall’interno di sé stessi. Non c’erano trucchi. Nessuno aveva scritto mai così della campagna. Nick provava quasi un sentimento religioso a questo riguardo, faceva terribilmente sul serio. Si poteva riuscire a saperlo tirar fuori di prepotenza. Riuscire a vivere giusto con gli occhi.
Il vento solleva un mucchio di foglie secche. Capisco che, anche volendo scrivere di una semplice piazzetta, bisogna proprio farlo dall’interno di sé stessi. Bisogna scrivere le parole in fila, per bene: il vento solleva un mucchio di foglie secche. Bisogna essere qui e demolire tutto per costruire la cosa vera. C’è modo e modo di scrivere del vento. C’è modo e modo di guardare una piazza vuota, o di esserne guardati. Apro il taccuino: vento, annoto, e foglie secche. Poi, tra parentesi: gialle, rosse. Ci sono dettagli che vanno coordinati fra di loro: una piuma di uccello sul vialetto, il rosso stinto di una bandiera svizzera sopravvissuta all’estate, la mezzaluna che affiora nel cielo. È giusto dire che la mezzaluna affiora? Potrei scrivere appare, ma sarebbe impreciso (non è un’apparizione, è un lento emergere dall’invisibile). Spunta non avrebbe senso. Fa capolino sarebbe tragico. No, lasciamola affiorare.
Tornando a casa, passo da una via dove le macchine devono andare a trenta all’ora, zigzagando tra vasi di cemento. I pedoni invece possono viaggiare alla velocità che preferiscono. Io cammino adagio, con le mani in tasca. Il sole si riflette su un cartello, creando un effetto di arcobaleno. Una scritta ammonisce gli automobilisti, ricordando loro che è proibito parcheggiare fuori dagli stalli demarcati.
Penso che in quelle quattro parole, così lividamente efficaci, si celi tutto quello che volevo dire oggi. Il passato, il futuro, il presente sono diversi quando cambi prospettiva, quando osservi stando fuori dagli stalli demarcati. È anche l’unico modo per scrivere davvero senza trucchi. Prima devi trovare uno stallo demarcato (qualunque cosa sia), devi girarci intorno, entrarci dentro, farci amicizia. Poi devi uscirne. E soltanto allora, forse, potrai dire davvero che il vento solleva un mucchio di foglie secche. Un mucchio di foglie gialle e rosse.

PS: The Nick Adam’s Stories, che uscì postumo nel 1972, è una serie cronologica di racconti scritti negli anni Venti e Trenta. Il libro posato sulla panchina è l’edizione Mondadori del 1972 (traduzione di Giuseppe Trevisani). Ernest Hemingway (1899-1961) appare qui sopra in due fotografie: la prima lo ritrae all’ospedale della Croce Rossa, in via Manzoni 10 a Milano (luglio 1918), la seconda nel Michigan durante la giovinezza. Le immagini sono tratte da Hemingway. Le parole, le immagini (Mondadori 1994). Nella quarta di copertina, c’è questa frase dello stesso Hemingway: Voglio continuare a scrivere il meglio e il più sinceramente che posso finché morirò. E spero di non morire mai.

PPS: Oltre che nel mese di luglio, mi sono seduto nella piazzetta anche in gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno, agosto, settembre, ottobre.

 

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“Lezioni private” in bicicletta

Mi piace scrivere di lavoro. Non so se dipenda dal mio gusto per l’ozio creativo (chiamiamolo così) o dal mio percorso professionale talvolta complesso. Amo guardare i gesti di chi è immerso in un mestiere, seguirne i tentativi, le sconfitte, le soluzioni. E se il lavoro non va? Ho provato a partire da questa situazione in un raccontino offerto gratuitamente in ebook da Guanda (lo trovate su Amazon).

Scarica gratuitamente l’ebook di “Lezioni private”

C’è di mezzo Contini con la sua routine: piccoli furti, ripicche, animali smarriti. Nella dolcezza di un autunno dorato che sfuma in inverno, l’investigatore si pone una domanda che prima o poi ci poniamo tutti: a che cosa serve il mio lavoro?
FazioliLEZIONIebook-bit01Una volta andavano di moda i detective privati: da Sherlock Holmes a Nero Wolfe, da Philip Marlowe a Pepe Carvalho. Oggi pare che gli autori preferiscano i poliziotti, forse perché sembrano più realistici. L’investigatore privato è più romantico, con quello strascico d’impermeabili e smorfie alla Bogart, ma anche più inverosimile. Certo, le agenzie d’investigazione esistono, ma di solito sono poco romanzesche; ed è proprio su questa discrepanza fra reale e immaginario che vorrei lavorare. Nel racconto “Lezioni private” Contini finisce in una storia più grande di lui. Naturalmente protesta, agisce quasi controvoglia. Controvoglia? Contini non lo ammetterebbe mai, ma sotto sotto si diverte a fingere di essere un vero detective, un tenebroso private eye
Mi accorgo però che sto eludendo la domanda: a che cosa serve il mio lavoro? Ci pensavo l’altro ieri, quando sono andato a fare un giro in bicicletta, poco dopo aver tenuto un laboratorio in un liceo. Per due ore avevamo parlato di storie, d’immaginazione, provando a buttare sulla carta le cose impalpabili che si aggirano dentro di noi. In fondo, era uscito l’aspetto piacevole della scrittura: l’intuizione, la creatività. Dopo aver salutato i ragazzi, mentre arrancavo in bicicletta, mi è venuto in mente anche l’altro aspetto. Perché scrivere assomiglia un po’ alle prime salite della stagione, quando le gambe sono ancora arrugginite e, a metà strada, non sai come riuscirai ad arrivare in cima.
image1-2La via si arrampicava tra i vigneti, dolcemente, con il sole che si posava di traverso e allungava le ombre. Io avevo il fiato corto, i muscoli cigolanti. Perché tanta fatica? Che cosa ci trovo di bello, a che scopo? Ecco, forse la risposta si trova lassù, nella panchina in cui mi siedo sempre prima di scendere e tornare a casa. Non saprei spiegarmi meglio, ma credo che qualcosa di essenziale si nasconda in quel cielo così intimamente blu, in quei minuti di quiete. Nel gesto di bere un po’ d’acqua. O nel lasciare che i pensieri divaghino, mentre mi dedico alla prima fra tutte le occupazioni umane: respirare.
Ho trovato una sorta di risposta anche in una lirica di Cesare Viviani. In ogni attività, infatti, mi pare decisiva la capacità di ricevere (oltre che di respirare).
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PS: La poesia è tratta da Credere all’invisibile (Einaudi 2009).

PPS: Di lavoro, o della sua mancanza, avevo già parlato qui, a proposito del romanzo L’arte del fallimento (ormai imminente: arriva il 18 febbraio).

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Sulle tracce del fallimento

Ci sono degli uffici in cui non si vorrebbe mettere piede. La mente lavora sulle sfumature, si aggrappa alle speranze, ma la burocrazia è senza pietà. Mi è capitato di conoscere sia l’Ufficio Fallimenti (che sarà nel mio prossimo romanzo) sia la Cassa Disoccupazione, che è un luogo d’incontri significativi. Per me raccontare storie non vuol dire soltanto narrare di omicidi o di fatti eccezionali, ma anche della quotidianità, delle vicissitudini meno appariscenti. Nella mia città la Cassa Disoccupazione si affaccia su un parcheggio: la gente passa, di fretta, ognuno trascinando borse della spesa, figli, preoccupazioni. E proprio lì, dietro una vetrina, si fermano invece le persone che sono fuori dalla giostra, dal giro casa-lavoro-vacanze.
IMG_2010Dietro la vetrina si parla di soldi. Di cifre. Del 40% perso o del 15% che si spera di trovare. Ma fatalmente uno pensa anche alle domande che suscita ogni lavoro: chi sono io? perché mi trovo a fare questo o quest’altro? qual è il mio talento, e a che cosa serve? Davanti a questi interrogativi i funzionari sono impotenti, anche perché i loro formulari chiedono cifre, non stati d’animo.
L’Ufficio Fallimenti invece si trova nello stesso edificio in cui prendo le lezioni di sassofono. L’ho scoperto mentre lavoravo al romanzo L’arte del fallimento. Devo dire che la cosa mi ha dato da pensare. Io me ne stavo lì a cercare i suoni sovracuti, oltre il fa diesis, e due stanze sopra andava in scena il dramma della bancarotta.
image1Forse a causa di questa coincidenza mi sono ispirato alla musica jazz per narrare la dinamica psicologica che sta dietro l’esperienza del fallimento. Nel romanzo si racconta delle peripezie di chi vede sgretolarsi ciò che ha costruito. I funzionari dell’Ufficio Fallimenti devono gestire i crolli, assicurare lo svolgimento dignitoso della sconfitta. Uno dei protagonisti suona, e nell’improvvisare cerca di esprimere quello che prova, cerca di trovare la forza per resistere, per accettare ciò che gli succede e afferrare ciò che di buono la vita ancora gli riserva.
Prima che L’arte del fallimento arrivi in libreria, mi piacerebbe anticiparvi ancora qualche brano, come ho già fatto un paio di settimane fa. Ma oggi voglio lasciare spazio alla musica (con un disco citato nel romanzo). Al sax contralto, nel 1957, Art Pepper suona una vecchia canzone di Cole Porter. Insieme a lui una sezione ritmica eccezionale: Red Garland al piano, Paul Chambers al basso, Philly Joe Jones alla batteria. Pepper è stato in prigione, non riesce a liberarsi dalla droga, ha dei problemi tecnici al sax. In più, sono anni che non suona regolarmente. Eppure la musica esce limpida e preziosa, come per miracolo.

Questo è un genere di miracolo che nasce dalla dedizione. Sentite il suono di Pepper, com’è liscio, rilassato, appena un po’ stanco. Sentite come ogni nota arriva al momento giusto, portando sollievo.
Ecco, mi piacerebbe riuscire a scrivere con questa precisione. Non sempre nella mia vita dedico alla scrittura il tempo e la concentrazione che vorrei. Eppure, per fortuna, a volte le cose si aggiustano proprio nel momento in cui falliscono. Come diceva Ernest Hemingway: La gran cosa è resistere e fare il nostro lavoro e vedere e udire e imparare e capire, e scrivere quando si sa qualcosa; e non prima; e, porco cane, non troppo dopo. Nella scrittura, nell’arte della vita e del fallimento, tento sempre di muovermi con il tempo giusto… o magari con appena un po’ di ritardo, come fa Art Pepper. Non sempre mi riesce. Ma anche questo fa parte dello swing.

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