C’è chi me lo chiede, ogni tanto. Perché uno come te, senza talento musicale, si è messo in mente di suonare il sax? Io rispondo che si tratta di un esperimento: uso me stesso come cavia per dimostrare che la musica è qualcosa che tutti abbiamo dentro e che, presto o tardi, troverà una via d’uscita.
Da qualche anno prendo lezioni di sax. E sto imparando. Non sarò mai un virtuoso, ma forse un ascoltatore più attento. Inoltre, il fatto di suonare apre nella mia vita spazi di gratuità: un’attività che faccio per il gusto di farla, da solo, per il piacere di sviluppare un suono personale. Senza dover dimostrare niente a nessuno. Be’, naturalmente ho un maestro paziente, che ogni tanto viene a rincorrermi nelle giungle di accordi strani in cui mi smarrisco.
La musica mi aiuta fra l’altro a comporre i dissidi e ad apprezzare la semplicità. Questi per me sono due grandi insegnamenti.
Quando suoni con qualcuno devi ascoltarlo, non si scappa. Non puoi essere concentrato sempre e solo sulla tua voce, ma devi prestare attenzione, reagire agli stimoli. Ogni tanto ti succede di sbagliare, capita anche ai più bravi, e devi proseguire lo stesso. Come diceva il pianista Thelonius Monk, bisogna fare gli errori giusti.
Con il tempo e il lavoro, ti accorgi poi che non si tratta di aggiungere, ma di togliere, di rendere più essenziale la propria voce: è la difficile arte della facilità. Per averne un’idea si può guardare un video del dicembre 1957, in cui un gruppo di musicisti accompagna Billie Holiday. Dopo trenta secondi, Billie comincia a cantare “Fine and Mellow”. Poi si alza Ben Webster, per il suo assolo. Subito dopo, intorno al secondo minuto, ecco apparire Lester Young, un po’ all’improvviso, come se il suo intervento non fosse previsto. Fra Lester e Billie c’è un rapporto di amicizia profondo, sebbene negli ultimi anni si siano visti poco; entrambi del resto sono affaticati da alcol, droga, malattie. Moriranno due anni dopo, nel 1959, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altra, dopo un declino rovinoso. Ma nei momenti catturati dalla cinepresa, Lester Young riesce a compiere un piccolo miracolo: soffia nel sax e fa un assolo semplicissimo (a partire dal minuto 1.23). Poche note indietro sul tempo, una linea musicale scarna, commovente, che risponde al sentimento di Billie ed esprime tenerezza, malinconia, partecipazione. Infatti lei alza gli occhi, lo guarda e senza parlare dice tutto: è così, annuisce, è proprio così.
È una scintilla che dura pochi secondi, poi riprende la canzone. Ma in quegli istanti si capisce come la musica possa placare una ferita – specialmente il blues – come uno sguardo possa dire più di lunghi discorsi, più di mille telefonate, lettere, messaggi. Basta una serie di note, limpide come gocce d’acqua, basta un sorriso.
Quanti musicisti hanno imparato ad accettare le loro imperfezioni, anzi, a usarle per essere più autentici, più compiuti. Non parlo soltanto degli schiavi che inventarono il blues o dei jazzisti degli anni Cinquanta minati dalle dipendenze. Penso anche a un virtuoso come Keith Jarrett, che nel 1996 fu travolto da una sindrome da affaticamento cronico. Nel 1999, durante la convalescenza, incise da solo il disco The melody at night with you: niente di straordinario, poche canzoni d’amore suonate in maniera sommessa. Ma proprio per questo, forse, è uno dei dischi di Jarrett che più mi hanno colpito al primo ascolto.
Il mio mestiere non è suonare, ma scrivere.
La musica è un’attività meno intensa, meno sofferta, però a volte mi porta in territori che non avrei mai pensato di attraversare. E allora sbaglio il ritmo, non sento gli accordi, perdo il treno. Poco male. Basta avere pazienza, perché prima o poi le cose si sbloccano. Anche per chi, come me, parte con un forte handicap. Ma diceva proprio Lester Young: Every style is the result of a handicap. Ogni stile è il risultato di una mancanza.
PS: L’incisione di I love you Porgy risale a un concerto del 1986 (quella del disco The melody at night with you non è disponibile su internet).