Panchinario 24-30

RICHIESTA DI SCUSE
Agli occhi del mondo ci sono tre gradi di follia. Il primo è quello di chiunque, strappandosi alle necessità quotidiane, si prenda il tempo di sedersi su una panchina. Il secondo è quello di chi, appena seduto, cominci a sentire la voce della panchina stessa impegnata in un dialogo con altre panchine. Il terzo, il più grave, contraddistingue la persona che passando accanto a una panchina le rivolge la parola, magari chiedendole scusa perché non riesce a fermarsi. Devo confessare che, dopo aver superato da un pezzo il primo grado, qualche settimana fa a Mendrisio ho raggiunto il secondo. E il terzo? Be’, a pochi metri da casa mia c’è una panchina. È di colore rosso, sta sotto un noce e sembra abbastanza comoda. Ogni giorno, quando esco di casa, lei mi guarda offesa. Ogni giorno, prima di allontanarmi, le dico: verrà il tuo momento, dammi ancora un po’ di tempo. Preferisci le panchine sudamericane, ribatte lei con voce amara. No, la rassicuro, no, è che giocare in casa non è sempre facile.
Se leggi questa nota, panchina di casa mia, ti prego di accettare le mie più profonde scuse. So di averti trascurata. Ma ti prometto che presto rimedierò. Abbi fiducia.

24) MENDRISIO, in via Luigi Lavizzari
Coordinate: 2’720’281.0; 1’081’051.3
Comodità: 3 stelle su 5
Vista: 3 stelle su 5
Ideale per… oscillare.
Nel parco giochi ci sono due panchine, l’una di fianco all’altra. Davanti, sull’erba, due altalene basculanti sopra una molla, a forma di automobile (a sinistra) e di elefante (a destra). PANCHINA DI FERRO (PF): Si fermerà su di me… sono più vicina. PANCHINA DI LEGNO (PL): Più vicina a cosa? PF: Più vicina e più moderna. Sai, si fermano tutti alla prima panchina. PL (scettica): E la prima saresti tu? PF: Be’, ho lo schienale curvo, sono spaziosa, sono elegante… PL: Sei anche più bassa. PF (acida): Io sarò bassa, ma quelle assi di legno non si possono più vedere. PL: I classici non passano di moda. PF (trionfante): Intanto guarda, si è seduto su di me! PL: Solo per scattare una foto, ma ora eccolo sulle mie confortevoli assi di legno. PF: Solo per scrivere un appunto, ma sta già tornando da me. PL: Però adesso le coordinate le prende dalla mia posizione. PF: Sai una cosa? Questo mi sembra fuori di testa. PL: Sì, forse non hai tutti i torti…
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Colonna sonora (30 secondi)

 

25) NIKISZOVIEC, dietro piazza Wyzwolenia, tra le vie Świętej Anny  e Janowska
Coordinate: 50°14’34” N; 19°4’52” E
Comodità: 3 stelle su 5
Vista: 4 stelle su 5
Ideale per… ascoltare la canzone Miniera.
Nikiszoviec si trova nel comune di Katowice, in Polonia. Venne costruito fra il 1908 e il 1914 come osiedle robotnicze, cioè come quartiere per le famiglie degli operai impiegati nelle miniere di carbone. I familoki di mattoni rossi sono disposti con simmetria in nove isolati: un reticolo di strade, passaggi ad arco e cortili davanti alla chiesa di sant’Anna. Oggi è un luogo quieto, fuori dal tempo. Seduto su una panchina sbilenca, penso alla canzone Miniera (scritta da Bixio e Cherubini nel 1927). Nel mio iPod ho la versione incisa da Gianmaria Testa nel 2006 per l’album Da questa parte del mare. Il gesto eroico del minatore bruno mi commuove ancora a ogni ascolto. «Nella miniera è tutto un baglior di fiamme / piangono bimbi spose sorelle e mamme / ma a un tratto il minatore dal volto bruno / dice agli accorsi se titubante è ognuno / io solo andrò laggiù che non ho nessuno.»
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26) LIMA, in Plaza de Armas davanti alla Catedral
Coordinate: 12°2’46” S; 77°1’50” O
Comodità: 1 stella su 5
Vista: 4 stelle su 5
Ideale per… sognare città dorate.
Gonzalo Fernández de Oviedo y Valdés racconta nella sua Historia de las Indias (1535-49) che gli indigeni peruviani avevano ideato una «burla», una maniera per liberarsi dei conquistadores: raccontavano agli Spagnoli di tesori, di città dorate e di fonti della giovinezza, così i soldati si lanciavano in lunghe spedizioni nelle terre selvagge… e almeno per un po’ gli indigeni potevano dedicarsi indisturbati alle loro faccende. Seduto su una panchina nella Plaza de Armas, rifletto sulla perspicacia degli indios. Nel sogno di una città tutta d’oro, perduta nella foresta, si nasconde una malinconia, un desiderio di altrove tutto europeo. Ma forse la vera città dorata è proprio questa: Lima con la sua carica vitale, la sua eleganza; Lima con le palme e i mirador, i balconi di legno intarsiato; Lima di domenica, in primavera, con la musica della banda e gli strilli dei bambini.
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27) QUITO, sulla Cruz Loma nel massiccio del vulcano Pichincha
Coordinate: 0°11’6″ S; 78°32’16” O
Comodità: 5 stelle su 5
Vista: 5 stelle su 5
Ideale per… sfiorare il cielo.
L’aria è rarefatta: siamo a quattromila metri sul livello del mare. Più in basso le case di Quito sembrano arrampicarsi sulle colline come un immenso gregge di pecore. In lontananza, s’intravede il profilo dei vulcani: il Corazon, l’Atacazo, il Chimborazo. Quest’ultimo, con i suoi 6.268 metri, è la cima più alta dell’Ecuador; ed è anche in un certo senso il punto più alto del mondo, cioè il più distante dal centro della terra. Le montagne hanno un colore verde scuro. Crescono ciuffi di erba spessa, resistente. Ci sono grappoli di fiori viola, un’altalena per dondolarsi sopra la città, una chiesetta, un sentiero che sale fino al vulcano Pichincha, che negli ultimi anni ha ripreso a mandare sbuffi di fumo. Quassù si placa invece il magma di ansia, di stress, di nervosismo che sobbolle dentro di noi. Siamo vicini al cielo. Perché rimuginare? Basta tacere e guardare, respirando piano.
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28) BOGOTÀ, nella Plazoleta del Rosario, fra l’avenida Jiménez de Quesada e la Carrera 6a
Coordinate: 4°36’4″ N; 74°4’23” O
Comodità: 4 stelle su 5
Vista: 3 stelle su 5
Ideale per… comprare una poesia.
Gonzalo Jiménez Quesada Rivera, l’esploratore spagnolo che nel 1538 fondò la città di Bogotà, si erge su un piedistallo al centro della piazza. Intorno c’è un viavai di studenti, pensionati, mercanti e artisti di strada. A pochi passi dalla panchina, un ragazzo sta seduto sul marciapiede con una macchina da scrivere. Ha una valigia per raccogliere gli spiccioli, sulla quale ha posato un cartello scritto a mano: POEMAS A LA VENTA (poesie in vendita). Mi avvicino e chiedo il prezzo. Lui mi dice che «la poesia no tiene precio», quindi posso dargli quello che voglio. Mi porge due foglietti, con due poesie intitolate Carta a mi mismo e Cómo se concibe un poema. Lascio cadere qualche moneta nella valigia, poi torno alla panchina e leggo i versi battuti a macchina. Uno studente vicino a me accorda una chitarra. Una ragazza chiede una sigaretta. Qualcuno comincia a cantare.
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29) BELLINZONA, in piazza Collegiata
Coordinate:2’722’339.8; 1’116’810.8
Comodità: 4 stelle su 5
Vista: 4 stelle su 5
Ideale per… contare gli anni.
Anno 9.948 avanti Cristo. Un viandante si ferma a riposare; a perdita d’occhio c’è solo erba e silenzio. Anno 5019 a. C. Un pugno di capanne sulla collina; il capofamiglia ama sedersi sopra un ceppo, con la vista che spazia sulle montagne, sui meandri del fiume, sul cielo che brucia al tramonto. Anno 998 d. C. Nelle sere d’inverno, quando all’interno della cittadella non si muove più niente, il ragazzo cammina fra le case, respira l’aria fresca e sogna di partire. Anno 1514 d. C. All’alba il soldato avanza lungo la strada; guarda le mura del castello; intorno a lui, dappertutto, i segni della grande buzza. Anno 2018 d. C. Nello stesso punto, alzo gli occhi verso la Torre Nera di Castelgrande; davanti a me scintillano le luci dell’albero di Natale; dalla piazza arrivano voci, musica, risate; sulla destra, lentamente gira una giostra per bambini. Tutto può ancora succedere, come se il mondo fosse appena nato.
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Colonna sonora (30 secondi)

 

30) ORIGLIO, sulla sponda est del lago in via A ra Gera
Coordinate: 2’716’482.1; 1’101’034.0
Comodità: 3 stelle su 5
Vista: 5 stelle su 5
Ideale per… diventare invisibili.
Oggi come oggi, diventare invisibile non è facile per nessuno. Anche se uno si concentra, si mette in un angolo e cerca d’impallidire, prima o poi squilla un telefono, arriva una lettera da qualche ufficio statale, passa un poliziotto e chiede tutto bene, signore, sta cercando qualcosa? Questa panchina, anche solo per pochi secondi, vi permetterà di trasformarvi: prima diventerete trasparenti, sempre più eterei, poi lentamente la vostra figura si dissolverà e non resterà che il canto dei grilli e il cinguettìo degli uccelli, insieme al lago che sempre bisbiglia il suo discorso. Poi basterà che facciate un colpo di tosse e tornerete presenti, ma con una leggerezza nuova che rinvigorisce i pensieri. L’orario giusto? Difficile dirlo: fin dalle cinque del mattino c’è gente che corre. La cosa migliore è provare nel tardo pomeriggio, d’inverno, quando si accendono le finestre mentre scende il buio.
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Colonna sonora (30 secondi)

 

 

PS: Grazie a Rosa (Mendrisio); Chasper, Marzena e Natalia (Nikiszoviec); Gregorio (Lima, Quito, Bogotà); Alice (Origlio). Potete leggere qui le prime quattro panchine, qui le panchine dalla quinta alla decima, qui dalla undicesima alla diciassettesima e qui le dalla diciottesima alla ventitreesima. In generale, nella categoria Panchinario (in alto a destra), si trovano tutte le panchine.

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Niente di niente

Quando viaggio da solo in un paese straniero, a volte incontro uno dei miei personaggi. Sono momenti fuggevoli: dopo pochi secondi il personaggio svanisce, torna a essere uno dei tanti che girano per le strade. Ma non scompare del tutto: diventa uno stato d’animo, una sensazione, un desiderio, un riflesso d’ombra che s’insinua fra i pensieri della quotidianità.
Qualche giorno fa stavo camminando a Varsavia. Erano le dieci di sera. Per le strade c’erano persone che procedevano in fretta, perché sicuramente qualcuno le aspettava da qualche parte. C’erano coppie d’innamorati che approfittavano della temperatura non troppo rigida. C’erano gruppi di ragazzi, operai alla fine del turno, poliziotti, qualche barbone che preparava un giaciglio per la notte. Non si vedevano stranieri, o almeno, nessuno che fosse immediatamente riconoscibile come tale. Mi sono chiesto se fossero davvero tutti polacchi. Di sicuro ci sarà stato qualche ucraino, qualcuno che non riuscivo a riconoscere come straniero. Ma quando ho visto un uomo dalla pella scura, con il volto coperto da un cappuccio e da una sciarpa, la sua differenza ha attirato la mia attenzione. Stava seduto su una panchina, immobile, e fissava nel vuoto. Allora mi è venuto in mente Moussa ag Ibrahim, uno dei protagonisti del romanzo Gli Svizzeri muoiono felici (Guanda 2018).
Moussa è un uomo di origini tuareg. Fin dall’infanzia ha vissuto come nomade nel deserto del Sahara, tentando di seguire le tradizioni dei suoi antenati. Ma i tempi cambiano, fra leggi restrittive, violenza, desertificazione. Per una serie di ragioni, Moussa arriva in Svizzera. La sua speranza è di trovare un lavoro, per aiutare i suoi parenti in Niger. Ma subito è colpito dalla nostalgia e da un senso d’inadeguatezza.

Quel mattino, mentre diceva le sue preghiere, Moussa aveva avuto paura di essersi spinto troppo oltre, in mezzo a gente troppo diversa. Come avrebbe fatto a resistere in quel paese, dove tutti avevano il loro posto? Ognuno partiva sapendo dove andare, per quale ragione, a che ora. Tutti avevano un telefono, un indirizzo email, un appuntamento e poi un altro e un altro ancora, come una ragnatela nella quale tessevano sempre nuovi fili, creando strade, palazzi, monumenti, macchine, libri, parole, immagini. E Moussa invece passava come un soffio in mezzo ai progetti degli altri, come chi non ha niente di niente.

Un uomo in mezzo alla folla. Diverso da tutti gli altri. Completamente solo. Camminando verso l’hotel Metropol, poco lontano dall’immenso Palazzo della Cultura, ho cercato di calarmi nell’animo di Moussa, nella sua lontananza. Spesso è da questi esercizi d’immedesimazione che traggo le idee per la scrittura. Anche quando il romanzo è già pubblicato, come in questo caso, mi fa piacere restare per un po’ da solo con i miei personaggi.

Ero in Polonia per una serie di conferenze. La prima sera, al bar dell’hotel, mi chiedevo che cosa dire agli studenti e alle persone che mi avrebbero ascoltato. Ero seduto davanti a uno dei camini fasulli più realistici che mi sia mai capitato di vedere: finti carboni ardenti, finte fiamme guizzanti, finto fumo grigio. Davanti a me, sul tavolino, c’era una birra (vera). E io? Fino a che punto sarei riuscito a essere autentico? Un uomo in una città straniera, sospeso fra un fuoco finto e una birra vera. Chi è veramente l’uomo? Cioè, chi sono io? Sono più simile alla fasulla perfezione del fuoco o alla verità fermentata della birra?

Questi pensieri mi hanno fatto capire che era giunta l’ora di andare a letto… Prima di dormire, ho sfogliato qualche pagina di un autore polacco. Adam Zagajewsi (nato a Leopoli nel 1945) racconta in un saggio dei suoi giorni da liceale, quando gli studenti erano «attratti dalle feste private, dai primi appuntamenti, dai giri in bicicletta, dalla musica di Elvis Presley, Chubby Checker e Little Richard, dalla vita intesa soprattutto come uno sguardo rivolto senza troppa attenzione a un lontano futuro». In quel contesto, un giorno il poeta Zbigniew Herbert, giovane ma già conosciuto, viene invitato al liceo per una conferenza. Al di là di ogni aspettativa, annota Zagajevski, la visita di Herbert «ha cambiato qualcosa nel mio modo di guardare alla letteratura; magari non subito, ma – con un certo ritardo – lo ha fatto sicuramente».
Nel mio piccolo, chissà, forse anch’io sono riuscito a lasciare qualcosa agli studenti che ho incontrato in questi giorni. Ho letto qualche pagina da L’arte del fallimento e da Gli Svizzeri muoiono felici, ho cercato di condividere la mia esperienza di scrittore, i miei dubbi, ciò che ho imparato e ciò che mi resta da imparare. Sul palco del festival Jazz&Literatura di Katowice oppure in un’aula dell’Uniwersytet Śląski a Sosnowiec: sempre guardavo uno per uno quei volti attenti, in ascolto, e mi chiedevo: che cosa resterà di tutto questo? Sulle prime ero pessimista, poi mi dicevo: Andrea Fazioli di certo non è abbastanza, ma forse i personaggi si sono espressi per me. Forse Moussa ag Ibrahim è riuscito a comunicare loro qualcosa, nella maniera silenziosa in cui parlano i Tuareg. Magari non subito. Magari le parole si sono deposte in profondità, avvolte in un bozzolo di silenzio. Magari fra qualche anno quegli studenti ripenseranno a Moussa, a Contini, anche solo fuggevolmente, e la realtà immaginata sarà loro d’aiuto per affrontare la realtà reale.
E io? Anch’io ho vissuto incontri che mi saranno utili per essere sempre più birra (vera) e sempre meno fuoco (finto). All’Istituto italiano di cultura di Varsavia ho avuto modo di parlare di letteratura e mi sono annotato nomi di autori italiani e polacchi da scoprire. Anche qui, come del resto è accaduto pure con gli studenti, ho l’impressione di aver ricevuto più di quanto sia riuscito a trasmettere. Ma non bisogna fare calcoli: questo tipo d’incontro, di scambio culturale, continua a generare frutti nel tempo, lentamente.
Nei miei giorni in Polonia ho avuto modo di confrontare i segni del passato con un futuro che cresce a vista d’occhio. Vecchi palazzi di stampo sovietico e nuovi edifici creati da grandi architetti. Luci al neon, traffico, fast food, ancora luci al neon di ogni forma, di ogni dimensione. Campi gelati e betulle lungo la ferrovia. Vaste zone industriali. Ciminiere, parchi, centri commerciali. Lo splendido nucleo di Nikiszowiec, costruito all’inizio del XX come osiedle robotnicze, come quartiere operaio per le famiglie dei minatori, con i familoki di mattoni rossi che si dispongono in forma geometrica, creando strade, cortili, angoli discosti dove il silenzio è interrotto solo da un improvviso volo di uccelli o dal suono ovattato di una radio.
L’ultima sera, a Varsavia, torno a camminare lungo le strade intorno al Palazzo della Cultura. Il mio telefono è scarico e ho smarrito il caricatore. Mi fermo in un negozio e chiedo in inglese alla commessa se ne venda o se sappia dove possa acquistarne uno. «Mi dispiace – risponde lei – abito lontano da qui.» Poi sorride e aggiunge: «Abito lontano da tutto». Annuisco. «Me too – le dico – anch’io». Provo a ripeterlo in polacco: «Ja też». Lei sorride di nuovo. Ci salutiamo. Esco e penso che in fin dei conti posso anche restare senza telefono. Così sarà più facile intravedere Moussa ag Ibrahim che cammina con la consapevolezza di non avere niente di niente. Forse è proprio da questo vuoto che possono sprigionarsi le parole più preziose. In Polonia, in Svizzera, nel deserto del Sahara.
Più tardi, prima di dormire, rileggo una poesia di Adam Zagajevski. S’intitola “Là, dove il respiro”.

Sta sulla scena
senza alcuno strumento.

Appoggia le mani sul petto,
là dove nasce il respiro
e dove si spegne.

 Non sono le mani a cantare
e nemmeno il petto.
Canta ciò che tace.

Nell’ultimo verso si riassume il senso di questo articolo. Canta ciò che tace. Anche quando abbiamo la sensazione di non aver detto abbastanza, o di non aver detto nel modo giusto, o di non avere incontrato nessun personaggio, o di non avere capito ciò che abbiamo visto, per fortuna canta ciò che tace.
Il silenzio, fin dall’inizio dei tempi, è il miglior narratore di storie.

PS: La prima citazione di Zagajevski proviene da L’ordinario e il sublime. Due saggi sulla cultura contemporanea (Casagrande 2002; traduzione di Alessandro Amenta). La poesia è tratta invece dal volume Dalla vita degli oggetti. Poesie 1938-2005 (Adelphi 2002 e 2012; traduzione di Krystyna Jaworska). In un altro testo, lo stesso Zagajewski accenna a quei momenti in cui si compiono misteriose connessioni fra immaginazione e realtà: «Esiste un senso che resta nascosto nella quotidianità, ma diventa accessibile negli istanti di maggior concentrazione, negli attimi in cui la coscienza ama il mondo. Cogliere quel senso complesso ti porta un’esperienza di particolare felicità, perderlo ti consegna alla malinconia» (da Tradimento, Adelphi 2007; traduzione di Valentina Parisi).

PPS: Grazie a tutte le persone che mi hanno accolto e accompagnato in Polonia. Fra gli altri il vice ambasciatore svizzero Chasper Sarott; Marzena Anioł di Jazz&Literatura; la studentessa e ottima traduttrice simultanea Natalia Myszor; Justyna Orzeł, che ha tradotto i miei testi per i lettori polacchi; il direttore Roberto Cincotti e tutti i suoi collaboratori all’Istituto di cultura italiano a Varsavia; gli insegnanti, gli studenti e le studentesse dell’Instytut Języków Romańskich i Translatoryki all’Uniwersytetu Śląskiego.

PPPS: Le fotografie di Nikiszowiec le ho prese da internet. Le altre le ho scattate io. Il video di presentazione del romanzo Gli Svizzeri muoiono felici è stato realizzato da Alessandro Tomarchio.

PPPPS: Per completare la fotografia presa davanti alla stazione di Katowice, che vedete qui sopra, ecco un frammento sonoro.

 

PPPPPS: Infine, per chi volesse rendere più vivida l’apparizione di Moussa ag Ibrahim nelle strade di Varsavia, ecco la versione polacca del brano che ho citato sopra.

Tamtego ranka, gdy odmawiał swoje modlitwy, Moussa poczuł strach, że posunął się za daleko, wśród ludzi całkiem od niego różnych. Jak mógłby wytrzymać w kraju, gdzie wszyscy mieli swoje miejsce? Każdy wyjeżdżał wiedząc, gdzie jedzie, z jakiego powodu, o której godzinie. Każdy miał telefon, adres e-mail, spotkanie, a potem kolejne, a potem jeszcze jedno, jak w pajęczej sieci, w której tkali coraz to nowe nici, tworząc ulice, budynki, pomniki, samochody, książki, słowa, obrazy. A Moussa mijał jak tchnienie wśród czyichś planów, tak jak ktoś, kto nie ma zupełnie nic.

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