Tranne il bianco

#Rubruk2022 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli

Guglielmo di Rubruk partì nel 1253 per una lunga spedizione in Asia. Il suo Itinerarium, redatto in latino, è fra i più bei resoconti di viaggio che siano mai stati scritti. Basta leggerne poche frasi per trovarsi nel cuore dell’ignoto, oggi come ieri, desiderosi di conoscere ciò che è diverso da noi.

Rubruk
Divagazioni intorno ai viaggi di Guglielmo di Rubruk

Quarto episodio.

10) «Quel mattino avevo le dita dei piedi congelate, e non potei più camminare a piedi nudi. (Il freddo in quelle regioni è tremendo. Da quando comincia, il gelo non cessa più fino a maggio; e anche in maggio c’era ancora il ghiaccio ogni mattina, ma si scioglieva per effetto del sole, mentre in inverno non si scioglie mai, comunque tiri il vento.)»

Manca poco a Natale e noi siamo ospiti in una casa di montagna. Un luogo discreto, senza vette irraggiungibili e rocce colossali. Una montagna come molte altre, corrucciata, discosta. L’aria è fredda, ma dall’inizio dell’inverno è la prima volta che vediamo la neve. Arriva di notte, mentre tutti dormono, e all’alba si annuncia al mondo con un grande silenzio. Le finestre, con gli angoli un poco appannati, raccontano un altro paesaggio: non più case e alberi, ma forme impalpabili che sembrano fatte soltanto di luce e di respiro. Beviamo il caffè nero (senza zucchero) davanti alla finestra più grande. Entrambi stiamo pensando a Guglielmo di Rubruck. Nel dicembre del 1253 il grosso e infaticabile monaco era giunto all’accampamento di un importante capo tartaro. Com’è consuetudine dei francescani calzava dei sandali a piedi nudi. I tartari, stupiti, gli chiesero se non avesse bisogno delle dita dei piedi, visto che le avrebbe sicuramente perse. Da uomo saggio qual era, Guglielmo accettò d’indossare delle calzature di pelliccia. In seguito, il frate annotò nei suoi appunti il freddo implacabile della steppa. Era il primo Natale passato in viaggio, lontanissimo dall’Europa e da tutto ciò che conosceva. Eppure, come sempre, Guglielmo aveva la capacità di sentirsi a casa in ogni circostanza. E noi, che all’alba guardiamo il prato e il bosco da una casa calda, piena di persone amiche? Non c’è bisogno di dirci niente. Sappiamo di essere qui, ma sappiamo anche di essere là fuori, intirizziti nella neve ovattata, mentre aspettiamo i tartari. La figura di Guglielmo, quel puntino scuro in mezzo ai campi, per un attimo diventa l’unico riferimento. Lentamente ci avviciniamo, finché la sua immagine sbiadisce sotto le ciglia, scompare tutto tranne il bianco.

11) «Il mio compagno talvolta aveva una fame tale che mi diceva con le lacrime agli occhi: “Mi sembra di non aver mai mangiato in vita mia”».

– Ma la cena?
– Dai, ci sarà qualcosa di aperto.
Non è presto, ma neppure così tardi. Abbiamo appena concluso una lettura serale fuori dal centro urbano, appena sotto le montagne, e ci siamo fermati a chiacchierare. Ora camminiamo soli, nel buio, per raggiungere la nostra auto.
– Mah, sono meno ottimista di te.
– Male che vada andiamo in città.
– In città dove?
– Che ne so, tentiamo alla Valtellinese.
– Che roba è?
– Ci andavo quando lavoravo fino a tardi.
– Fanno pizze?
– Uova strapazzate, forse.
L’autostrada è ampia come uno sbadiglio. Sui lati sfilano le ombre degli alberi. Ogni tanto compare la luce di un gruppetto di case, un magazzino isolato, una strada persa fra i campi. Una ventina di chilometri ci separa dalla città e dalla cena.
– Chiamo la Valtellinese?
– Ma no, saranno aperti.
All’entrata della città, un locale a luci rosse (e verdi e blu e gialle e bianche) squarcia l’oscurità con la sua insegna: dancing. Noi superiamo due semafori e un capannone per la vendita d’automobili. Quando arriviamo alla Valtellinese, non c’è nessun segno di vita.
– Non l’ho ma vista chiusa a quest’ora!
– Ci sarà qualcos’altro, dai, siamo in città.
– Kebab?
– Ma sì.
– Mia moglie prende sempre il kebab vicino al teatro.
A un angolo di strada, un bar-discoteca serve cocktail colorati e fa vibrare le gambe con immensi woofer. I fari rosa puntano sulle poche persone che stanno ballando. Si chiama Upper Class, e noi siamo troppo down (e affamati) per fermarci a pasteggiare con due olive. Più in là c’è un altro bar dall’aria dimessa.
– Guarda. Qui ci andavo da ragazzo.
– “Il Castigamatti”?
– Un postaccio. C’è uno strazio di karaoke.
Una voce acuta, fra le altre, canta: «cercavo in te la tenerezza che non ho / la comprensione che non so / trovare in questo mondo stupido». E continua risuonare mentre ci specchiamo nella porta chiusa del Kostantîniyye Döner Kebap & Pizzeria.
– E adesso?
– È mezzanotte.
– Un nuovo giorno.
– Ma la fame sta invecchiando.
– Non ci sono altri locali?
– Qui vicino c’è il Chiquito, ma non è un posto raccomandabile.
– E noi siamo raccomandabili?
– Sì, hai ragione anche tu.
Il Chiquito è una cantina. Impossibile capire se sia aperto o chiuso. Mentre ci avviciniamo, una figura esce da un angolo nascosto. Ha i capelli quasi bianchi, ma il volto giovane e gli occhi attenti. Sorride con ironia. Ci accorgiamo che in fondo alla scala, dalla porta socchiusa del Chiquito, filtra una sottile linea di luce. C’è pure una nuova insegna, che appare incomprensibile: татаруудын цөл. La vernice sembra fresca, come se l’avessero appesa oggi stesso.
– Siete arrivati, finalmente.

12) «Quando vidi la corte di Baatu rimasi sgomento, perché già solo le dimore di sua spettanza sembrano come una grande città distesa in lunghezza».

È già trascorso un anno. Ancora confondiamo la steppa e le autostrade. Che cosa cerchiamo, seguendo la scia di questo cocciuto viaggiatore di otto secoli fa? Nella nostra piccola vita abbiamo già visto metropoli immense, che si srotolano senza finire mai e contengono milioni di individui. Perché allora immaginare la corte di Baatu ci offre un’emozione così forte, diversa? Dalla radio accesa esce il suono di un violino che taglia lo spazio fra di noi, lo fa a pezzi, come un diamante sul vetro. «Sono stanco», dice uno. «A volte, eh, non sempre». L’altro guarda il cielo oltre il parabrezza, cercando una nuvola o qualcosa che somigli a una nuvola. «Lo so». Bastano due sillabe per ribadire l’alleanza. Meglio che le parole restino nell’abitacolo, perché il mondo risponderebbe: ma come! hai tutto quello che serve per essere felici… Il punto è che forse la felicità non c’entra. E nemmeno la stanchezza. Custodiamo tutti del buio più buio: c’è chi è bravo a dimenticarsene, ma c’è chi non riesce ad arginare l’abisso. C’è poco da fare, se non attraversare insieme la corte di Baatu, distesa in tutta la sua lunghezza. E si può scrivere, aspettando le parole dell’altro. Così, mentre passano gli anni e le stagioni, ogni frase fiorisce dal buio, nel folto dei pensieri e delle angosce. Anche il gesto di mettere una virgola, voltare una frase, cancellare di nuovo: forse anche soltanto questo esprime una speranza. Altrimenti, se le cose dovessero mettersi davvero male, si può sempre tirare un dado, preferibilmente a venti facce. «Hai un dado in tasca». «Sì, come lo sai?» «Lo so perché ne ho uno anch’io». «È vero». «Al mio tre, allora. Uno. Due. Tre». «Bah, 7. Tu?». «5. Siamo spacciati».

PS: Ecco i collegamenti al primo, al secondo e al terzo episodio.

PPS: Le frasi in grassetto sono tratte dall’Itinerarium di Guglielmo, secondo l’edizione stabilita da Paolo Chiesa in G. di Rubruk, Viaggio in Mongolia, Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2011. Spesso abbiamo usato la versione italiana dello stesso Chiesa; qualche volta abbiamo invece tradotto noi stessi dal testo latino.

PPPS: Negli anni fra il 1237 e il 1242 un’orda di guerrieri mongoli avanzò verso l’Europa. I Tartari, come venivano chiamati, si spinsero in Russia, Polonia, Boemia, Ungheria, devastando città e villaggi. L’esercito arrivò fino all’Adriatico e si ritirò soltanto alla morte del comandante Ögedei Khan. Qualche anno dopo, nel 1253, il re di Francia Luigi IX decise d’inviare un ambasciatore verso le steppe, per tentare qualche relazione con i Mongoli. Il sovrano si affidò a un frate fiammingo, Guglielmo di Rubruk, che viaggiò per due anni nei territori dell’Asia Centrale fino a Karakorum, dove risiedeva il Gran Khan Möngke. Guglielmo, capace di percorrere grandi distanze in poco tempo (più di dodicimila chilometri in totale) era colto, robusto e dotato di buon senso. Sapeva parlare con i re e con i poveri, con un monaco buddista o con uno sciamano, con un soldato o con un prigioniero. Era aperto e curioso nei confronti delle lingue, delle usanze, delle abitudini dei popoli stranieri. Il suo Itinerarium è uno dei più bei libri di viaggio medievali (e anche oltre).

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Panchinario 82-93

Dopo una convalescenza, sono uscito di casa e ho camminato fino a una panchina. Ho pensato alla potenza racchiusa in questo gesto: uscire. La storia dell’umanità è cominciata così, con una persona che si avventurava fuori da ciò che considerava “casa”. Poi sono arrivati l’agricoltura, il commercio, le guerre, le migrazioni, i viaggi di nozze e le partite di calcio. Camminare non vince l’angoscia, non cancella il male. Però mi restituisce alla consapevolezza che il mondo sussisterà solo finché saremo capaci di amore, questa cosa assurda, questa parola sanvalentinizzata. I fastidi quotidiani, le catastrofi umanitarie ed ecologiche, la malattia, la depressione, tutto sembra minare la fiducia necessaria all’amore. Per me la lotta è serrata. Da una parte, la speranza di trarre qualcosa di buono da questa mia fatica; dall’altra, il brillante cinismo che può trasformare il mio sconforto in abitudine. Percepisco una lontananza dalla realtà, insieme alla tentazione dell’isolamento. Mi siedo accanto a un cippo: venti minuti di marcia fino a Bellinzona, due giorni fino a Milano. Non so quanto tempo per raggiungere i miei famigliari, i miei amici, i miei colleghi.

NB: La panchina a cui faccio riferimento è la numero 93, che trovate in fondo a questo articolo.

Ringrazio le lettrici e i lettori che m’inviano le foto delle loro panchine preferite. Cercherò di pubblicarne qualcuna nei prossimi tempi. Stavolta lo spazio è un po’ troppo affollato: qui sotto trovate dodici panchine.

82) CONCHES, in chemin Jean-François Dupuy
Coordinate: 2’502’241.8; 1’115’993.3
Comodità: 1 stella su 5
Vista: 4 stelle su 5
Ideale per… navigare fra le rapide.
Siamo alla periferia di Ginevra, all’inizio di un viale alberato. Il fruscìo delle foglie secche mi fa pensare all’acqua che scorre… proprio per questo, forse, quando vedo la panchina capisco che non è semplicemente un luogo dove sedersi, ma un mezzo di fortuna: una canoa per tornare alla civiltà prima che l’inverno chiuda ogni passaggio, prima che il ghiaccio stringa i fiumi nella sua morsa. Questi bambù sono intrecciati con perizia, seguendo le indicazione di un manuale di sopravvivenza in luoghi selvaggi. La panchina è leggera, maneggevole, in grado di seguire le tortuosità di un canyon e di superare indenne le cascate. Al momento d’imbarcarsi, rimane un filo d’incertezza: la navicella è duttile, ma è anche fragile. Reggerà gli urti delle rocce? Uscirà indenne dai salti e dai mulinelli? Sono fiducioso di sì. Sono pronto. Mi siedo e lascio che la panchina-canoa cominci il lungo viaggio verso la primavera.
PDF dell’articolo su “Ticino 7”
Colonna sonora (30 secondi):

 

83) CUREGLIA, all’angolo fra via Canton e via Prato Grande
Coordinate: 2’716’655.7; 1’099’759.5
Comodità: 1 stella su 5
Vista: 2 stelle su 5
Ideale per… avvistare una cometa.
Dopo una cena con amici, questa panchina ci lancia un muto richiamo. Ubbidisco e mi siedo. Poco lontano, il campo da tennis coperto sembra un grosso animale addormentato. Mi guardo intorno, osservo il cartello con il simbolo “vicolo cieco”, l’indicazione PRATO GRANDE, l’immensa siepe sempreverde che pare il sipario di un palcoscenico. Mi sento all’intersezione fra due mondi: la tranquilla via residenziale sfuma nel mondo delle fiabe. Sto contemplando una decorazione natalizia a forma di stella quando sento un’esclamazione: i miei amici hanno visto passare nel cielo una stella cadente. Subito dopo ne scorgo una anch’io. La stella finta e quella vera (probabilmente dello sciame delle Geminidi) si sovrappongono nei miei pensieri; e su questa ruvida panchina di cemento anch’io non so più dove finisca l’Andrea reale e dove cominci quello immaginario, fatto di sogni e di lontane stelle.
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Colonna sonora (30 secondi):

 

84) LOSONE, nel Dog Park lungo l’argine della Maggia
Coordinate: 2’702’141.0; 1’114’784.0
Comodità: 4 stelle su 5
Vista: 3 stelle su 5
Ideale per… parlare con un cane.
È un mattino freddo e limpido. Cammino fra l’argine sommergibile e quello insommergibile della Maggia. La brina sul prato sembra riflettersi nella luce bianca del cielo. Mentre medito sulle incertezze del futuro, sento un fruscìo di foglie. Abbasso lo sguardo e vedo un cane: un bassotto con le orecchie lunghe. «Sei tutto solo?» gli domando. Lui inclina la testa. «Ma ti pare? Quelli laggiù sono con me.» Intravedo in lontananza la forma di due esseri umani. Il bassotto mi annusa i piedi e mi augura buon anno. Io mi presento; lui mi annuncia che si chiama Morpheus. «Come il dio dei sogni?» gli chiedo. Lui sbuffa. «Scommetto che stai fantasticando sul futuro.» Io rimango stupito: non era mai successo che un cane mi leggesse nel pensiero. Il bassotto sogghigna. «Ma io sono il dio dei sogni, ricordi?» Poi segue la pista di un odore, allontanandosi. «Homo sapiens» borbotta. «Chissà chi l’ha inventato, questo nome…»
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Colonna sonora (30 secondi):

 

85) FIGGIONE, lungo la via dei monti, vicino alla cappella di Sant’Antonio
Coordinate: 2’702’141.0; 1’114’784.0
Comodità: 3 stelle su 5
Vista: 5 stelle su 5
Ideale per… osservare una balena
Da ragazzo, nel corso di un’estate senza fine, proprio da queste parti mi capitò di leggere Moby Dick, il romanzo di Herman Melville che racconta del capitano Achab a caccia della balena bianca. Arrivato al capitolo 57 («Delle balene in pitture, in denti, in legno, in fogli di ferro, in montagne e in stelle»), alzai gli occhi e, proprio sotto il Pizzo Forno, avvistai il dorso della Balena. «Nei paesi di montagna – scrive Melville – dove il viandante è circondato di continuo da anfiteatri di vette, qua e là da qualche buon punto di vista potrete cogliere fuggitive apparizioni di profili di balene che si stagliano lungo le creste ondulate» (H. Melville, Moby Dick, 1852, tradotto da C. Pavese per Einaudi nel 1941). Ancora oggi, quando da questa panchina contemplo il crinale curvo dei monti, nel fragore delle onde sento riecheggiare come un tuono la voce del capitano Achab.
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Colonna sonora (30 secondi):

 

86) URMEIN, tra via Cazeschg e Hof Cazeschg
Coordinate: 2’749’661.7; 1’173’007.2
Comodità: 1 stella su 5
Vista: 4 stelle su 5
Ideale per… leggere le tracce.
Siamo nel Canton Grigioni, vicino a Thusis. È un posto ideale per osservare le impronte sulla neve: bisogna arrivare il mattino presto, magari portando con sé un manuale come il classico Guida alle tracce degli animali del danese Preben Bang (edito da Zanichelli). Ogni pista diventa una storia: la corsa di un capriolo, i balzi di una lepre, l’avanzare cauto di una volpe. Poi, dopo qualche ora, i segni vengono cancellati dal sole. Anche se, ammonisce Bang, «in condizioni favorevoli le tracce si possono conservare per anni, addirittura per millenni»; e cita le impronte fossili di un orso delle caverne (Ursus spelaeus) rinvenute nel Sud della Francia ventimila anni dopo il passaggio del plantigrado. Proprio come le impronte, anche le storie sono labili, spariscono… eppure qualche volta, misteriosamente, sono capaci di resistere al volgere delle epoche: mutano le generazioni e loro sono sempre lì.
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Colonna sonora (30 secondi):

 

87) BELLINZONA, nel parco di Villa dei Cedri all’ingresso di via Rompeda
Coordinate: 2’722’144.0; 1’115’972.1
Comodità: 3 stelle su 5
Vista: 2 stelle su 5
Ideale per… ascoltare un po’ di jazz.
Da bambino qualche volta mi addentravo da solo fra queste canne di bambù, immaginando di essere nel cuore della giungla. Era un territorio insidioso, popolato di animali feroci e misteriose sette di strangolatori. Procedevo lentamente, guardandomi le spalle, pronto a schivare un agguato. Ancora oggi mi piace tornare a sedermi su questa panchina, non tanto per la vista quanto perché fra i bambù si tengono delle indiavolate jam session di musica jazz. Ormai si è sparsa la voce: arrivano da lontano grandi solisti, si posano sui rami, spalancano il becco e cominciano a swingare, con un senso del ritmo e una fantasia prodigiosa. Non so perché gli uccelli prediligano proprio questo luogo, ma fidatevi: se passate un tardo pomeriggio d’inverno, con un po’ di fortuna, potrete ascoltare un assolo di pettirosso memorabile.
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Colonna sonora (30 secondi):

 

88) FIRENZE, nel giardino D’Azeglio in piazza Massimo D’Azeglio
Coordinate:43°46’28″N; 11°16’4″E
Comodità:2 stelle su 5
Vista: 3 stelle su 5
Ideale per…invecchiare.
All’inizio qui c’erano orti e case popolari. Io ero giovane, sarà stato il 1860. Ma le cose cambiano e quando pochi anni dopo Firenze divenne capitale d’Italia, nel quartiere della Mattonaia fecero una cosa molto chic, un grande square all’inglese. Fiorirono case e ville in stile liberty, pensate per gli ambasciatori e l’alta borghesia. Però le cose cambiano, e all’inizio del Novecento arrivarono intellettuali e artisti al posto dei borghesi. Cominciavo a entrare nella mezza età quando portarono le giostre; poi costruirono pure il parco giochi, il campo da calcetto, quello da basket. Perché le cose cambiano. Ma io sono sempre qui e vedo i bambini che corrono, un barbone che cerca di dormire. Sarà vero che la notte spacciano? Guardo la nuova Area Cani: si chiama Rin Tin Tin, come il celebre cane attore morto a Los Angeles nel 1932, all’età di quattordici anni. È una splendida giornata. Mi sento vecchio.
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Colonna sonora (30 secondi):

 

89) SANT’ANTONINO, in via Serrai
Coordinate: 2’717’665.1; 1’112’711.8
Comodità: 1 stella su 5
Vista: 1 stella su 5
Ideale per… lavare i pensieri.
Supermercati, negozi di sport e di arredamento. Parcheggi, distributori di benzina, un autolavaggio. A pochi metri dai campi, il centro commerciale sorge come l’avamposto di una civiltà extraterrestre. Sebbene qui di fantascientifico ci sia poco, anzi, è tutto umano, tutto terribilmente umano: impiegati che fumano una sigaretta, una commessa che sbuffa, un camionista che aspetta davanti al cartello RITIRO MERCE. Non è un posto in cui passeggiare, e tanto meno mi verrebbe l’idea di farci un picnic. Eppure c’è un tavolo e anche una struttura che sembra un grill. Qualcuno d’estate verrà qui a cucinare salsicce? Mi appoggio allo schienale e provo a pensare a qualcosa di negativo: un problema, un fastidio, una preoccupazione. Quando si mette in moto l’autolavaggio, mi pare che nel gran risciacquo anche i miei pensieri oscuri vengano smacchiati, ripuliti, lucidati. Dopo un po’ mi alzo e me ne vado. Sono quasi diventato un ottimista.
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Colonna sonora (30 secondi):

 

90) ZURIGO, nella Pflanzschulstrasse, poco prima dell’incrocio con la Hohlstrasse
Coordinate: 2’681’830.1; 1’248’126.85
Comodità: 2 stelle su 5
Vista: 1 stella su 5
Ideale per… festeggiare un compleanno.
La panchina si trova lungo una via alberata, accanto a un bar. Nei dintorni c’è una scuola, una chiesa cattolica dedicata a don Bosco e un ambulatorio dermatologico. Perché venire proprio qui a festeggiare, con tutti i luoghi panoramici che offre Zurigo? Perché non si tratta del mio o del vostro compleanno, bensì di quello della panchina “Landi”, inventata nel 1939. Nel 2019 si celebrava l’ottantesimo e oggi questo modello gigante ricorda la fortuna della classica panca elvetica a listelle rosse. Mentre mi avvicino, vedo una ragazza che sta leggendo un cartello al centro dello schienale. Do un’occhiata: è un bando di concorso per un selfie scattato sulla mega panchina, da postare sui social network con l’hashtag #landilove. Il premio per il vincitore? Una panchina, naturalmente: il Modello Speciale della Landi, esclusivo, sofisticato, creato apposta per l’anniversario.
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91) LUGANO, nel Parco Ciani, fra la darsena e il parco giochi
Coordinate: 2’717’665.1; 1’095’839.3
Comodità: 4 stelle su 5
Vista: 4 stelle su 5
Ideale per… catturare la luce.
È una di quelle domeniche invernali tessute di vento e malinconia, quando i pensieri girano in tondo come cavalli in una giostra. Il sole splende con piglio primaverile… ma è un inganno, ancora ci sono raffreddori in agguato, notti fredde, mani screpolate. Provo a combattere il malumore e mi siedo su una panchina in faccia al lago. Aspetto il momento buono. Quando il sole si posa obliquo sull’acqua, nasce un abbaglio, una luce che ferisce lo sguardo. Gli occhi si chiudono, ma la luce rimane sotto le palpebre. È come un giacimento segreto, una promessa dorata. L’esperienza dura solo pochi secondi: in quegli istanti – contro ogni norma logica – mi ritrovo nel cuore dell’estate. Al riparo delle mie palpebre si sprigiona il ritmo lento di una mattina di vacanza, la freschezza di una bibita dopo una salita in bicicletta, un aperitivo al mare, una cena con gli amici sotto una luna immensa, infinita.
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Colonna sonora (30 secondi):

 

 92) SAN GALLO, in Bärenplatz
Coordinate: 2’746’198.2; 1’254’483.2
Comodità: 1 stella su 5
Vista: 3 stelle su 5
Ideale per… sentirsi più leggeri.
Nato in Irlanda, discepolo di Colombano, il monaco Gallo morì fra il 630 e il 645. Sulla sua tomba sorse una chiesa, primo nucleo dell’abbazia e della futura città di San Gallo. Si narra che un giorno Gallo tolse una spina dal piede di un orso bruno; secondo la leggenda, in seguito il plantigrado e il monaco divennero amici. Per questo l’orso appare nello stemma della città e, sotto forma di statua, anche in questa piazza con una panchina circolare in mezzo. È un luogo miracoloso, che offre leggerezza a tutto ciò che pesa. Guardo la statua, massiccia – e subito compare un palloncino. Leggo sul giornale notizie di guerre, epidemie, violenze – e subito vedo una ragazza, seduta accanto a me, che usa lo stesso giornale per comporre un origami. Le amiche pensano che abbia creato un drago, lei dice che no, siete matte, è una farfalla. E tutte insieme scoppiano a ridere.
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Colonna sonora (30 secondi):

 

93) GIUBIASCO, in via Sottomontagna
Coordinate: 2’721’650.6; 1’114’711.8
Comodità: 1 stella su 5
Vista: 2 stelle su 5
Ideale per… calcolare le distanze.
Sto camminando da Giubiasco a Bellinzona. Quando passo davanti a questa panchina, scopro che mancano venti minuti a destinazione. Bello, non mi tocca nemmeno usare un’app sul telefono. Scopro pure che se volessi andare a Milano dovrei marciare per due giorni. Mi siedo e comincio a fantasticare. Fra una settimana ho un impegno proprio a Milano… e se invece di usare il treno, o peggio l’automobile, mi limitassi a camminare? Dovrei pernottare da qualche parte, naturalmente. Dovrei uscire dalla frenesia della nostra vita quotidiana, così come la interpretiamo all’inizio del XXI secolo, e pensare in maniera più antica. Da questa panchina potrei arrivare a Roma in due settimane, a Parigi in una ventina di giorni. In due mesi sarei a Mosca o a Marrakesh. All’improvviso i luoghi più remoti mi sembrano famigliari, domestici, come se il mondo intero fosse solo un quartiere più in là.
PDF dell’articolo su “Ticino 7”
Colonna sonora (30 secondi):

 

PS: Potete leggere qui le prime quattro panchine, qui le panchine da 5 a 10, qui da 11 a 17 e qui da 18 a 23, qui da 24 a 30, qui da 31 a 37, qui da 38 a 45, qui da 46 a 55, qui da 56 a 64, qui da 65 a 73 e qui da 74 a 81. In generale, nella categoria Panchinario (in alto a destra), si trovano tutte le panchine.

PPS: Esprimo la mia gratitudine a chi mi aiuta, mi accompagna e mi fa scoprire nuove panchine. In particolare, grazie a Jessica (Conches), Valentina e Nicola (Cureglia), Martina, Gregorio e Morpheus (Losone), Michele (Figgione), Marco e Leonardo (Firenze), Eloisa (Zurigo e Lugano).

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Muling

[“Viaggi immaginari” è una serie di reportage da luoghi che non ho mai visto, scelti a caso sulla mappa del mondo. A farmi da guida l’antico gioco Hanafuda, che scandisce le stagioni dell’anno. Ogni mese le carte mi accompagnano nella scrittura di un racconto di viaggio e di un haiku.]

Febbraio
Hanafuda: Pruno / Usignolo
Luogo: Muling, Mudanjiang, Heilongjiang, Cina
Coordinate: 44°49’25.9″N, 130°35’12.8″E
(Latitudine 44.82385; longitudine 130.58689)
«Ho avuto la gastrite», dice una donna al telefono nella piazza deserta. Io la osservo dall’alto, seduto sul terrazzo. Accanto a me, per terra, la carcassa dell’albero di Natale. Una colomba si posa in cima alla betulla. Gli aeroplani, lassù, fanno due scie lunghissime; nel cuore del silenzio disegnano una X. Io resto immobile. Sul terrazzo. Con l’albero che mi guarda e sembra rimpiangere tempi migliori. Ma ci sono tempi migliori? Migliori di questo, voglio dire, migliori dell’istante in cui scrivo della donna, della gastrite, dell’albero, della colomba. Vorrei che qualcuno mi raccontasse tutto ciò come una fiaba, come una delle storie meravigliose che da bambino ascoltavo prima di dormire. Certe volte spero che qualcuno da qualche parte custodisca quelle fiabe, per dirmele a bassa voce quando sarò in punto di morte. Intanto la colomba è volata via. Una sirena suona da lontano. Sulla strada  passa un camion della nettezza urbana.
Queste immagini e questi suoni mi tornano in mente poco prima dell’alba, nei campi intorno a Taihecun (太和村). Sono nel nordest della Cina, vicino al confine con la Russia, e sto camminando in un vuoto di storie. La terra è nera e secca, il terreno brullo. Cade una pioggia insistente. A quest’ora non c’è nessuno in giro, né contadini né animali. Corro il rischio di perdermi. Per fortuna a poco più di un chilometro c’è Taihecun, con le sue strade polverose, i suoi cortili e le sue fattorie colorate. Ho l’impressione di essere in un luogo remoto, ma mi rendo conto che non è vero. La città di Muling (穆棱市), il capoluogo della regione, dista appena dieci chilometri e ha trecentomila abitanti. Andando verso nord in automobile, potrei raggiungere in due ore Jixi (鸡西市), che di abitanti ne ha circa due milioni. E allora perché questa sensazione di vuoto, sotto la pioggia, nel grigio che precede l’alba?
È perché non senti-ti-ti, non senti, mi risponde il canto di un uccello. Mi guardo intorno. Sono qui, qui, qui. Sopra un palo di legno si posa un uccellino. Ha il becco arancione e la gola gialla. Appena lo guardo lui riprende a cantare. La cosa strana è che, pur riconoscendo che si tratta di un insieme di trilli e gorgheggi, riesco a capirlo come se fossero parole. Sai cosa volevo dirti-ti-ti? Faccio segno di no. L’uccellino allora comincia a raccontare che in questa regione c’è un bellissimo giardino di pruni selvatici, protetto da quattro mura. Sono pruni speciali, perché possono fiorire anche in pieno inverno, anticipando la primavera. È sufficiente che un uomo saggio entri nel giardino e li guardi. Se li guarda uno stolto non succede niente. Al contrario, lo sguardo di un saggio suscita la primavera, facendo sbocciare mille fiori rosa del colore dell’alba nascente o delle guance di una fanciulla.
L’uccellino ha finito di raccontare. Si posa su un cespuglio, poco più in là. Sento che sta per volare via. Aspetta, vorrei dirgli. La storia non è finita. Dov’è il giardino? Quante persone hanno provato a far sbocciare i fiori? È già successo che un uomo saggio riuscisse a compiere il miracolo? Come se mi avesse letto nel pensiero, l’uccellino piega la testa. Quei fiori nessuno mai li sbocciò-ciò, nessuno mai. E perché? Forse non ci sono uomini saggi? Ma cosa dici-ci-ci? L’uccellino cinguetta che la primavera non è mai cominciata in anticipo. Infatti gli stolti guardano i pruni e non succede niente, mentre i saggi non li guardano mai prima del tempo. Perché se uno è saggio, sa che la primavera comincia quando comincia. Nel momento giusto. Né prima né dopo. I fiori sbocciano quando devono sbocciare. Proprio così-sì-sì.

HAIKU

Sulla betulla
si posa una colomba –
È quasi marzo.

 

PS: Trovate qui il primo viaggio immaginario e un’introduzione a tutta la serie.

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Pilley’s Island

Questo viaggio comincia con un mazzo di carte giapponesi.
Si chiama Hanafuda (花札; cioè “mazzo dei fiori”). Le carte consentono di praticare diversi giochi; i più comuni sono lo Hana awase (a tre o quattro giocatori) e il koi koi (a due giocatori). Non conosco le regole né dell’uno ne dell’altro; credo che ricordino la briscola. Quando per caso mi sono trovato per le mani uno Hanafuda, ho sentito che l’anno intero mi scorreva fra le dita. Le quarantotto carte, infatti, si dividono in dodici semi che corrispondono ai dodici mesi. A ogni mese è abbinato un fiore o un albero e, qualche volta, anche un animale.
Subito mi è venuto in mente di usare le carte come un calendario. Ho pensato di partire dalle immagini per entrare nell’atmosfera, scrivendo qualche appunto e condensando poi il tutto in un haiku di stile giapponese. Non volevo tuttavia che la fantasia restasse troppo legata al Giappone; avevo il desiderio di spostarmi in luoghi diversi.
Nel 2017 mi sedevo ogni mese in una piazzetta della mia città, osservando ciò che accadeva intorno a me. Nel 2018 ogni mese tornavo con Yari Bernasconi a Zurigo, in Paradeplatz. Quest’anno andrò più lontano, muovendomi su tutta la Terra in una serie di viaggi immaginari. Ho scovato un sito che permette di designare un punto a caso sul mappamondo: basta premere un pulsante e il programma sceglie aleatoriamente delle coordinate.
Ecco dunque il mio progetto: ogni mese viaggerò idealmente in un luogo che non ho mai visto, aiutando la fantasia con quattro carte giapponesi. Se il sito dovesse mandarmi (com’è probabile) in mezzo al mare, ripeterò la scelta fino ad approdare sulla terraferma; se arrivassi dove sono già stato, ripeterò la scelta fino a trovarmi in un luogo sconosciuto.Hanafuda: Pino / Gru
Luogo: Pilley’s Island, Terranova e Labrador, Canada
Coordinate: 49°30’34.2″ N; 55°43’43.6794″ E
(Latitudine 49.50950; longitudine -55.7280)

Verso la metà di gennaio capita che il cielo raggiunga la tonalità di colore dell’asfalto. Me ne sono accorto qualche giorno fa, camminando in un parcheggio vuoto verso la fine del pomeriggio, poco prima che scendesse il buio. Ho infilato le mani in tasca per cercare le chiavi della macchina, poi ho alzato lo sguardo. Per un istante, il sopra e il sotto si sono confusi: il grigio, la durezza, le strisce di vernice – o di nuvole – che tagliavano fette di cielo e delimitavano lo spazio dei parcheggi. Non mi sarei stupito se la mia automobile fosse stata lassù, oltre il ciglio delle montagne. Ci ripenso ora, mentre cammino adagio, sprofondando nella neve. La strada più vicina è a chilometri da qui. Anche il villaggio di Pilley’s Island è irraggiungibile, con le sue staccionate bianche, la chiesetta, la baia tranquilla e le case di legno dove le stufe sono sempre accese.
Non sono mai stato tanto a Nord. Da qualche parte in mezzo al bosco c’è un rifugio dove posso trascorrere la notte, ma devo sbrigarmi. Le ore di luce sono brevi e la giornata è tutta un tramonto, o tutta un’alba, a seconda dei punti di vista. Il cielo ha colori bellissimi: sfumature di rosso, di viola, di rosa, variazioni dorate, qualche lampo di verde. Non c’è niente che faccia pensare all’asfalto.
Intuisco una vita segreta di orsi, di volpi, di aquile, di piccoli roditori che sono in letargo o che tentano di sopravvivere all’inverno. Il suono del vento tra i rami dei pini mi porta la voce di chi non c’è, di tutte le persone di cui ho smarrito le tracce.
Poi, all’improvviso, la vedo.
Una gru immensa, con tanto di carrucole e cavi d’acciaio, si muove con leggerezza nel bosco, scivolando sui cingoli. Si ferma per un attimo davanti a me, oscillando, poi riprende il suo cammino, sradicando i cespugli, con l’incedere di un grande animale preistorico.
Che ci fa una gru di ferro nelle foreste canadesi? È stato un sogno? Un’allucinazione? Eppure per terra resta il segno dei cingoli e, in lontananza, sento ancora il ruggito metallico del motore, sopra il vento, sopra i tonfi della neve, persistente, feroce, come un canto d’amore.

HAIKU

Parcheggio vuoto.
Sopra le case e gli alberi
passa una gru.

 

PS: L’haiku (俳句) è un componimento poetico nato in Giappone nel XVII secolo. La definizione fa discutere gli studiosi; ma si può dire, semplificando, che i poemi sono composti di diciassette sillabe distribuite in tre gruppi, rispettivamente di cinque, sette e cinque sillabe. L’haiku è passato anche nelle letterature occidentali del XX secolo; in italiano è composto da un quinario, un settenario e un quinario (naturalmente questa regola è arbitraria, tuttavia mi ci atterrò per avere una forma fissa di riferimento).
Secondo Roland Barthes, l’haiku non descrive ma fissa nel tempo un’apparizione, fotografa un istante (L’empire des signes, 1970; L’impero dei segni, traduzione di Marco Vallora, Einaudi 2002). In poche parole, si tratta di annotare un gesto, un paesaggio, uno stato d’animo. In origine gli haiku erano legati al passare del tempo nell’arco dell’anno, tanto da contenere sempre una parola che indicava la stagione.
Per questa serie di viaggi immaginari impiego mezzi poveri:  un mazzo di carte e due coordinate geografiche. Ho deciso di concludere ogni puntata con un haiku perché si tratta di una forma essenziale: esso infatti 
«non formula ma, rapido, si fa slancio verso la cosa, fusione con essa, silenzio già all’interno delle sue parole» (Yves Bonnefoy, Du haïku, in Entretiens sur la poésie 1972-1990, Mercure de France 1990; Sull’haiku, traduzione di Andrea Cocco, O barra O edizioni 2015).

PPS: Per i dettagli sull’Hanafuda, si veda Véronique Brindeau, Hanafuda. Le Jeu des fleurs, Philippe Picquier 2012.

 

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Ant Nadal

In fondo al sottopassaggio c’è una rosa celeste. Un pittore ignoto l’ha dipinta sullo sfondo azzurro chiaro della parete. Percorro la galleria per attraversare la strada, salgo le scale e raggiungo la solita piazzetta, a Bellinzona, tra via Raggi e via Borromini. Il sole nudo e tagliente del pomeriggio occupa gli spazi, si riflette su ogni superficie, su ogni finestra, su ogni chiazza di neve. Avanzo sul sottile strato di ghiaccio e mi siedo su una panchina asciutta.
 Non c’è nessuno. Ormai conosco i personaggi che popolano questo luogo durante la bella stagione: i pensionati, l’ubriacone che tiene in fresco le birre nella fontana, la donna sola con il cagnolino, le ragazze che eternamente attendono risposte su WhatsApp. Mi chiedo dove siano finiti tutti. L’aria è fredda e limpida, di fianco alla piazza scorrono automobili e autobus, la gente cammina di fretta. Mancano due giorni a Natale. Da qualche parte, nel tepore di un appartamento, i pensionati staranno aspettando anche loro i cenoni, i raduni delle famiglie allargate, l’abito della festa, lo spumante. L’ubriacone di sicuro non si farà cogliere impreparato, e contrasterà l’attacco della malinconia con un un folto contingente di birre. Quanto alle ragazze, si annoieranno ma sopravvivranno – baciare sulle guance vecchie zie è pur sempre meglio che andare a scuola. Quelle più fortunate magari otterranno il permesso di andare il ventiquattro sera al Christmas Party alla “Fabrique” di Castione, con Kenny Ground & Chris Leon nella Plus floor Underground. La signora sola forse sarà sola anche a Natale o forse no, forse anche lei ha il suo manipolo di parenti. Oppure passerà alla pista di pattinaggio in Piazza del Sole e guarderà le persone che scivolano avanti e indietro, lanciandosi squillanti “Buone feste!”, avanti e indietro senza stancarsi mai.
Ho portato Tutto si rinnova, una raccolta di poesie di Luisa Famos, un’autrice svizzera che scrive nella variante vallader del romancio. Mormoro i versi a fior di labbra. Le sillabe sonore riempiono il silenzio della piazzetta. Vers saira / Cur sunansoncha / Rebomba tras cumün / Tuot dvainta nouv // La prada e’ls chomps / La jassa e’l balcon tort / Suot la pensla / Il gnieu da randulinas / La saiv da l’üert / E l’aua dal bügl d’larsch / Tuot dvainta nouv. // Fa che dvaintan nouvs / Eir no (“Verso sera / Quando scampanio / Rimbomba per il paese / Tutto si rinnova // I prati e i campi / Il vicolo e lo sporto / Sotto il frontone / Il nido delle rondini / il recinto dell’orto / E l’acqua della fontana di larice / Tutto si rinnova // Fa’ che ci rinnoviamo / Anche noi”). Mi pare una scena estiva o primaverile, più che invernale. Mi chiedo se, nel profondo delle cose, anche oggi accada il rinnovamento. Ma la fontana è spenta, la crosta di neve impassibile. Non ci sono campane, solo il frullare degli uccelli sugli alberi e il flusso del traffico al semaforo.
 Arriva un suono più lancinante degli altri. Alzo gli occhi e vedo un pick-up della Toyota che, uscito in retromarcia dal parcheggio, sta cercando di superare un mucchio di neve. Il ringhio del motore si fa più cattivo, finché con uno scatto rabbioso il pick-up scavalca il cumulo di neve e sbatte contro un albero. Rumore di vetri infranti, lamento di lamiera accartocciata. L’autista non si volta indietro, ma riparte con un nuovo ringhio, nel quale stavolta mi pare di cogliere un rimpianto, una nota di tristezza.
Poi tutto tace, ancora, e niente si rinnova.
Penso al Natale. In qualunque modo ci si districhi fra panettoni e aperitivi aziendali, anche involontariamente, si finisce per attribuire a questa festa un senso di promessa. Come se qualcosa dovesse cambiare: Fa che dvaintan nouvs / Eir no. Mi pare che questa aspettativa vada oltre la dimensione religiosa, o forse ne conservi le caratteristiche anche in assenza della fede. La stagione spoglia, la rarefazione della luce inducono per reazione viscerale a un’attesa dal valore antropologico, legata alla nostra condizione di essere umani più che ai nostri riferimenti culturali. Secondo la Chiesa, l’incarnazione non è solo qualcosa di cui si fa memoria ma è un evento che deve avvenire di nuovo per ciascuno, fino alla fine dei tempi. In generale, pure chi non crede nell’incarnazione sente il bisogno di qualcosa che dia un senso alla quotidianità. Il Natale è implacabile: è difficile fare finta di niente. C’è chi lavora, chi è circondato da stuoli di parenti, chi è solo, chi è ammalato. Ognuno, per un moto inestirpabile dell’anima, aspetta qualcosa. Ognuno cerca di guardare oltre il buio e la barriera dell’inverno.
Passa un aeroplano alto, sopra la piazzetta, tracciando una lunga scia che si perde sulle montagne. L’uomo che guidava il pick-up torna indietro a piedi, dalla direzione opposta a quella in cui era partito. Si ferma davanti all’albero, raccoglie il pezzo di lamiera più grande e poi si allontana, con la testa incassata fra le spalle. Il senso di una “festa”, nella storia umana, è distinguere un giorno dalla serie dei giorni normali. Ma tutto questo accade ancora? Il Natale può raccogliere i nostri frammenti sparsi, può accendere una qualunque forma di luce e mantenerla viva nella routine dei prossimi mesi?
Questa è la domanda.
Cumün sainza champs / Sainza üert e sunteri / Mo plain d’sömmis // La not / As distach’üna staila / Da l’ur dal tschêl / E voul s’unir / A la terra (“Paese senza campi / Senza orto né cimitero / Ma pieno di sogni // La notte / Si stacca una stella / Dall’orlo del cielo / E vuole unirsi alla terra”). Con le parole di Luisa Famos, il mio augurio per Natale è che una stella, di qualunque tipo essa sia, possa staccarsi dall’orlo del cielo e venire accolta nella nostra terra, nella nostra quotidianità.
Dalla piazzetta vera e da quella virtuale del blog, buon Natale a tutti voi!

PS: Ho citato integralmente le liriche Sunansoncha (“Scampanio”) e Ant Nadal (“Prima di Natale”), con la traduzione di Marisa Keller-Ottaviano, tratte da Luisa Famos, Tutto si rinnova (Casagrande 2012).

PPS: Questa è l’ultima puntata della serie di reportage dalla piazzetta anonima bellinzonese. Ecco gli articoli di gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre e novembre.

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