Sweet bird

Quando lavoro alla radio, alla Rete2 della RSI, mi sveglio alle quattro. Mi lavo, mi vesto, bevo un bicchiere di tè freddo e mangio un frutto. Poi prendo la macchina e guido da Bellinzona a Lugano, nel buio delle mattine invernali o, com’è accaduto la settimana scorsa, nel blu misterioso e lucente che precede il crepuscolo. A volte tutto è limpido, silenzioso, a volte invece si scatena un temporale, magari mentre salgo verso il Ceneri; in quei momenti, nell’abitacolo battutto dalla pioggia, mi pare di essere solo al mondo. Poi arrivano i fari di qualche automobile a ricordarmi che su questa terra esistono altri esseri umani, come me aggrappati a un volante e diretti da qualche parte sotto il diluvio.


Ancora non ho pronunciato una parola. Lascio la macchina nel parcheggio della radio e mi dirigo verso lo studio (dove leggerò i quotidiani prima di cominciare la diretta). Se non piove, mi fermo per un istante ad ascoltare le ultime notizie così come vengono trasmesse da un nugolo di uccelli nel folto degli alberi. I trilli, i pigolii, le melodie ripetute, i gorgheggi e i fischi s’intrecciano fra loro, tessendo la trama di un discorso incomprensibile (per me), ma non per questo meno vero.


Di fatto la voce degli uccelli esprime una verità sul mondo pari a quella che esprimerà il primo notiziario del mattino. Per me, che passo in pochi minuti dal mondo del canto a quello delle news, è importante ascoltare entrambi i discorsi. È il cinguettio fra gli alberi a dirmi che 1) sta sorgendo un’altra alba: questo merita di essere annunciato, perché le albe non sono infinite e non vanno sprecate; 2) se sono qui e ora è per un motivo: non devo smettere di cercare una voce che rappresenti nello stesso tempo le mie domande, le mie risposte, la mia tristezza o la mia meraviglia davanti alla realtà; 3) il silenzio e la musica sono la fonte da cui sgorgano le parole: non c’è frase scritta o pronunciata al microfono che sia efficace, se prima non si è confrontata con questo mondo aereo e ancora privo di sillabe umane. Per riassumere:
1) annuncio (An);
2) espressione dell’interiorità (EI);
3) attesa della parola (AP).
Queste tre funzioni vanno poste in relazione con ciò che succede alla radio. Di colpo, il campo sonoro ornitico, più o meno immutato da cento milioni di anni, lascia il posto al fattore umano. Ecco quindi 1) l’inesausta attualità dei giornali, i loro titoli, gli editoriali che segno con un evidenziatore giallo; 2) l’irruzione del mondo: scorrono i flussi delle notizie d’agenzia, appare sullo schermo la scaletta dei brani musicali, arrivano i notiziari e i bollettini meteo; 3) il tempo sminuzzato della diretta: conto i secondi che mancano alla sigla, parlo con il tecnico-regista che mi aiuta a tenere il ritmo, la mia voce entra nel microfono e si diffonde in luoghi che non vedrò mai. Per riassumere:
1) attualità (At);
2) espressione del mondo (EM);
3) diffusione della parola (DP).
Credo che le funzioni degli uccelli abbiano lo scopo di produrre una curva di equazione cartesiana in un piano munito di sistema di riferimento con assi perpendicolari. Così ogni elemento radiofonico risulta da una funzione ornitica.
f(An) = At
f(EI) = EM
f(AP) = DP
Non sto a disegnare il grafico: è la forma di una mattinata di lavoro, vissuta nella tensione fra silenzio e parola. Prima il silenzio, il canto degli uccelli, il fruscio delle pagine dei giornali, in un crescendo d’immersione nel mondo. Poi le mie parole, tese verso ascoltatori invisibili. La ferita dei notiziari: titoli inesorabili (La guerra ed ora anche il colera: è allarme-epidemia nello Jemen, in ginocchio per gli scontri e per la situazione sanitaria: oltre 200mila i casi conclamati); statistiche sui migranti che dietro le cifre celano lo strazio di chi fugge (Il governo italiano lancia l’allarme: situazione insostenibile, nelle ultime ore oltre 12mila arrivi, dal 1 gennaio +13,43%); un neonato a Londra che sopravvive attaccato a un respiratore, mentre intorno infuria la polemica (La Corte di Strasburgo sul piccolo Charlie: si può staccare la spina). Nel corso della mattinata le notizie si alternano alle canzoni, alle rubriche, alle interviste.
Quando torno nel parcheggio, dopo la riunione di redazione, sento di nuovo gli uccelli. Sullo sfondo c’è anche il ronzio di un motore: qualcuno da qualche parte sta tagliando l’erba.

 

Mi rimane impresso questo sotterraneo e un po’ assurdo collegamento fra il canto degli uccelli e le voci della radio.
Nel pomeriggio recupero un vecchio saggio di Edward Neill: Musica, tecnica ed estetica nel canto degli uccelli (Zanibon 1975). L’autore trova affascinante l’ipotesi che l’uomo primordiale abbia potuto trarre ispirazione dal canto degli uccelli in generale per modulare le sue prime manifestazioni canore, e, in particolare, che per costruire il proprio rudimentale sistema melodico si sia rifatto a strutture aventi un carattere intervallico come quelle del Tordo eremita (Hylocichla guttata). Neill mostra poi alcune trascrizioni musicali elaborate da un certo dottor Szöke (nel cui nome mi sembra di cogliere l’eco di un colpo di becco ben assestato).
Penso al mio lavoro: come scrittore, ma anche alla radio o nell’insegnamento. Di certo, per essere efficaci le parole devono nutrirsi di silenzio, di musica. E il canto degli uccelli racchiude un nocciolo antico di melodia che, come dice il saxofonista brasiliano Ivo Perelman, stupisce per la sua coerenza: non sono stati a scuola, nessuno ha detto loro di cantare in quel modo, non sono nemmeno coscienti di farlo. Eppure, cantano. E qualcosa di quel suono primordiale si ritrova in ogni musicista, in ogni poeta.
Il mattino seguente, mentre vado alla radio, ascolto il brano Sweet bird, composto da Joni Mitchell e riproposto da Herbie Hancock nell’album River: the Joni letters (Verve 2007). Mi pare che nella musica risuoni la semplicità di un canto ancestrale. Specialmente nelle improvvisazioni al sax di Wayne Shorter, che a volte imita la cadenza degli uccelli (a 1.50, a 2.30, a 5.30, a 6.37) e che alla fine diventa un soffio. Ma pure nel fischio che affiora qui e là (per esempio a 0.30, a 0.39, a 4.09), come se un volatile invisibile accostasse la sua voce a quella di Hancock al piano, di Shorter al sax, di Dave Holland al basso, di Vinnie Colaiuta alla batteria e di Lionel Loueke alla chitarra.

Arrivo alla radio. Entro nel mondo delle parole, come ogni giorno, e cerco di conservare nell’anima un ricordo di melodia. Questa bellezza si esprime sia come riflesso malinconico, sia come speranza che – dietro il male che tracima dalle notizie – resista la capacità di affermare la parte generosa del mondo. Le parole feriscono ma, quando sono pronunciate nel modo e nel momento giusto, possono anche guarire.

PS: L’osservazione di Ivo Perelman proviene dal numero 688 della rivista “Jazz Magazine” (ottobre 2016). Anche Perelman, nelle sue improvvisazioni libere, imita talvolta il canto degli uccelli; si vedano per esempio i due album con Karl Berger: Rêverie (Leo Records 2014) e The Hitchhicker (Leo Records 2016).

PPS: Per chi fosse interessato all’intervento aviario nella musica umana, è simpatico il duetto che il pianista Misha Mengelberg registrò insieme a Eeko, il pappagallo di sua moglie: a volte, si ha quasi l’impressione che Eeko sappia swingare… Il brano si trova nell’album Epistrophy (ICM 1972). Lo metto anche qui come omaggio a Mengelberg, morto il 3 marzo di quest’anno a 82 anni.

PPPS: Infine, ecco il Tordo eremita di cui parlano Edward Neill e il dottor Szöke. Mi sembra che, nel profondo della sua solitudine, sappia trovare un modo per colmare il fossato tra sé e il mondo, con uno dei canti più umanamente melodici che esistano: secondo Neill le emissioni vocali di questo uccello che vive prevalentemente in Nord-America sono strutturate in modo assai simile a quello che caratterizza la nostra musica diatonica e pentatonica. Neill precisa inoltre che i Tordi eremiti sono asociali nel senso in cui lo sono gli artisti che possono creare solo se in compagnia di sé stessi. Non posso fare a meno di citare almeno un’opera del dottor Szöke: P. Szöke, W. W. H. Gunn, M. Filip, The Musical Microcosm of the Hermit Trush, in “Studia Musicologica Academiae Scientiarum Hungaricae”, 11, Budapest 1969.

PPPPS: Per essere precisi, il silenzio mattutino che mi accompagna dal risveglio fino al luogo di lavoro non è interrotto soltanto dal cinguettio degli uccelli. C’è anche quel momento, inevitabile, in cui la mia automobile mi avvisa perentoriamente che non ho ancora allacciato la cintura…

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Lady Sweet

A volte mi capita di trovarmi da qualche parte in macchina, di notte. Di solito ho appena parlato con qualcuno, magari ho visto degli amici, ho cenato, ho letto brani delle mie storie, ho discusso di letteratura, della vita, o semplicemente di quelle cose stupide che vengono in mente la sera tardi. Al momento in cui chiudo la portiera e mi avvio per tornare a casa, c’è un silenzio nel quale riecheggiano pensieri buoni o pensieri molesti. Se sono buoni, lascio che il silenzio li faccia crescere. Se sono molesti, cerco di combatterli con l’aiuto di Dexter Gordon.
IMG_0066Il suo sax tenore, con un suono che sembra risalire dal profondo della terra, è l’ideale per accompagnare i viaggi a notte fonda. C’è una vibrazione antica come i vulcani, e nello stesso tempo c’è una limpidezza nitida come un cielo primaverile, dove spiccano i colori, la forma delle note. Tutto questo insieme a una sapienza ritmica così naturale, così ovvia che sembra lo sguardo di un amico in mezzo alla folla, una strizzata d’occhio, il suono di un passo conosciuto che si avvicina alla porta. Di solito ascolto l’album Go, oppure Our man in Paris. Lo strazio dolce delle ballate è compensato dai brani veloci, nei quali Gordon si diverte a scolpire ogni nota, a sputarla fuori rotonda e perfetta, concedendosi ogni tanto qualche citazione ironica.
IMG_9994Protagonista della scena musicale americana negli anni Quaranta, il saxofonista conobbe in seguito anni dolorosi, nei quali l’alcol e le droghe presero il sopravvento. Alto un metro e novantasei, dinoccolato, con gli occhi gentili e un sorriso affascinante, Long Tall Dexter si perse nel buio degli ospedali, delle prigioni, in una rovina che pareva irreversibile. Invece trovò il coraggio di tirarsene fuori: si trasferì in Europa, a Parigi e a Copenaghen, e seppe inventarsi una seconda carriera. Addirittura, nel 1986, fu scelto dal regista francese Bertrand Tavernier per interpretare ’Round midnight, che è forse il miglior film sul jazz che sia mai stato girato fino a oggi.

Non è il classico biopic, ma il tentativo di rappresentare un’atmosfera, una visione del mondo. Dexter Gordon interpreta il personaggio di Dale Turner, un grande musicista alcolizzato; è una figura in parte ispirata al saxofonista Lester Young, in parte al pianista Bud Powell, in parte allo stesso Gordon. Il film è ambientato alla fine degli anni Cinquanta e narra la storia dell’amicizia fra Turner e Francis Borier, un grafico appassionato di jazz. Non avendo i soldi per il biglietto, Francis si rannicchia sul marciapiede, accanto a una finestra del Blue Note di Parigi. Sera dopo sera, ascolta con rapimento la musica di Turner, che si esibisce dal vivo. Con il tempo fra i due comincia una lunga, intensa amicizia.
UnknownCome tutte le grandi amicizie, anche questa è inaspettata e diffonde intorno a sé un fermento di vita, di scoperte. Francis racconta a Turner come la sua musica lo abbia cambiato e lo abbia portato a interessarsi di arte, di letteratura, lo abbia reso più sensibile. Turner continua a suonare, ma non riesce a stare lontano dall’alcol. Di continuo Francis lo va a cercare negli ospedali e nei commissariati, lo trascina fino al suo appartamento, lo mette a letto.
FullSizeRender-5Come spiega allo stesso Francis un conoscente di Turner: Quando devi esplorare ogni sera, ti suscitano dolore anche le cose belle che trovi. Il film rappresenta bene questo tormento. Gordon infatti non è un attore, così come tutti i musicisti che si vedono nel film. I concerti sono ripresi dal vivo: c’è una tensione reale che si percepisce nei gesti di Herbie Hancock al piano, John McLaughlin alla chitarra, Billy Higgins o Tony Williams alla batteria. Tavernier voleva proprio mostrare la violenza della creazione, il sudore dello sforzo, gli sguardi di due musicisti che si domandano a vicenda quali note suoneranno. Ci sono momenti che solo la diretta poteva offrire: quando Billy Higgins prende le spazzole, poi vede Dexter che sta suonando una variazione e allora cambia e prende le bacchette… non potevo fare tutto questo in playback. È come se in un western gli attori non fossero capaci di cavalcare.

Turner è consapevole del suo talento, ma anche del logorio che questo comporta. Non puoi uscire e prendere uno stile così, cogliendolo da un albero. L’albero è dentro di te, e cresce con naturalezza. Il saxofonista sconta con la sofferenza la crescita dell’albero interiore, staccandosi sempre di più dalla realtà e riducendosi in uno stato pietoso. Finché un mattino, dopo aver visto Francis piangere per lui, Turner promette di cambiare. Le presenze oscure nell’anima del musicista non se ne vanno del tutto, ma in qualche modo allentano la presa. Turner riesce a suonare, a incidere, a comporre musica. La storia è ispirata alla realtà per tanti piccoli dettagli. Il personaggio di Francis Borier, per esempio, ricorda Francis Paudras, lo scrittore amico di Bud Powell (che aveva suonato con Dexter Gordon proprio a Parigi).
Unknown-2Grazie anche alla splendida colonna sonora di Herbie Hancock, Tavernier riesce a mostrare con delicatezza questi paesaggi interiori. Restano nella memoria la voce roca e cantilenante di Gordon, la sua ironia, la dedizione di Francis, il rapporto di entrambi con le loro figlie, i colori azzurri e grigi dei locali notturni parigini, cui fanno da contrasto la luce forte delle poche scene girate all’aperto. Ogni tanto alle immagini del film si alternano quelle in bianco e nero catturate da Francis con una cinepresa; in questo modo si fondono lo sguardo onnisciente del regista con quello intimo e affettivo dell’amico.
imagesIn una delle poche scene in esterno giorno, i due protagonisti sono seduti su una spiaggia. Turner riflette a mezza voce: È strano che il mondo si trovi all’interno del nulla. Insomma, tu hai il cuore, l’anima, dentro di te; i bambini stanno dentro le loro mamme; i pesci stanno dentro il mare. E il mondo? Il mondo si trova dentro un niente. Turner tace e guarda il mare, ma queste domande tornano con forza nella voce possente del suo sax, che lui chiama Lady Sweet.

’Round Midnight ha molti aspetti malinconici, ma la forza, la vitalità della musica afferma una speranza. È memorabile, per esempio, la scena in cui Turner ritrova la cantante Darcey Leigh (interpretata da una sfavillante Lonette McKee). Fra i due c’è una tenera e tenace amicizia, che ricorda quella fra Lester Young e Billie Holiday. L’intensità del loro legame si esprime nella complicità con cui interpretano il brano di Gershwin How long has this been going on? Ci sono rapporti umani che le parole non arrivano a definire; ma per fortuna – come dice lo stesso Dale Turner – non tutto ha bisogno di parole.

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PS: Dexter Gordon nacque a Los Angeles il 27 febbraio 1923 e morì a Philadelphia il 25 aprile 1990. Ho citato all’inizio gli album Go (Blue Note 1962) e Our man in Paris (Blue Note 1963). Esistono pure due dischi con la colonna sonora del film, entrambi molto buoni: ’Round midnight (Columbia 1986) e The other side of ’Round midnight (Blue Note 1986). Le parole di Bertrand Tavernier provengono da un’intervista con Léo Bonneville, pubblicata sul numero 127 della rivista Séquences nel 1986. La canzone ’Round midnight, venne composta dal pianista Thelonius Monk e dal trombettista Cootie Williams all’inizio degli anni Quaranta, con parole di Bernie Hanighen (è uno dei brani più noti e più suonati nel mondo del jazz).
La fotografia che appare sopra questo Post Scriptum è di Giuseppe Pino, che la scattò a Milano nel 1971; è tratta dal volume Sax! (Earbooks 2005). Qui sotto, invece, vedete un ritratto di Gordon nel 1948 al Royal Roost di New York; è opera di Herman Leonard ed è una delle foto più celebri del jazz. Le altre immagini di questo articolo, quando non siano le copertine dei dischi o la locandina, sono dei fotogrammi tratti dal film.
Una versione di questo articolo si trova sulla rivista Cinemany.

 

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Watermelon man

C’è qualcosa di misterioso, nelle giornate storte. Non arrivano solo per una serie di eventi negativi, ma hanno una loro consistenza particolare. Per esempio ci sono giorni in cui, fin dal mattino, sono incapace di scrivere: pesano i giudizi negativi, la tristezza, il sospetto strisciante che la mia ricerca sia vana. E tutto prende un sapore amarognolo, una forma paludosa. Vorrei conoscere la formula chimica di queste giornate, il loro segreto. Come combatterle? Quando arriva l’estate, una delle mie strategie è fare ricorso all’uomo delle angurie.
image1Nel South Side di Chicago, negli anni Quaranta, lo si sentiva arrivare da lontano, con il suo carretto trainato dai cavalli. Le strade erano pavimentate da ciottoli e il clackety-clack clackety-clack del carretto era inconfondibile. Il pianista Herbie Hancock, cresciuto a Chicago, se ne rammentò nel 1962: aveva 22 anni e desiderava comporre qualcosa che affondasse le radici nella sua esperienza. L’uomo delle angurie – watermelon man – era il personaggio più caratteristico della sua infanzia: Hancock trasformò il clackety clack in un ritmo caratteristico. Mancava però una melodia. Forse avrebbe potuto usare la cantilena del venditore? Watey-mee-low! Red, ripe, watey mee-low! Ma il richiamo, per quanto fosse ritmico, non era abbastanza melodico. Hancock ripensò allora alle donne sedute in veranda, che quando lo sentivano arrivare gridavano: Hey-eyyy, watermelon man! Eccola, quella era la melodia! Hancock scrisse dunque un arrangiamento funky, con la melodia cadenzata su un pattern ritmico ispirato al rumore delle ruote nei ciottoli, e lo intitolò Watermelon man. Fra l’altro, questa scelta da parte di un giovane musicista rovesciava anche il luogo comune che associava il watermelon man alla caricatura del negretto – per usare le parole dello stesso Hancock – con le treccine, gli occhioni bianchi e i denti luccicanti. La sincerità del ricordo, l’autenticità di quel frammento di una storia intima e nello stesso tempo collettiva, era il miglior antidoto a ogni forma di pregiudizio razziale.
IMG_4305Il brano ebbe un certo successo. È un blues in sedici battute, con un’estensione per quattro battute della frase finale del blues regolare in dodici. Alla fine del 1962, Hancock aveva un ingaggio con il percussionista cubano Mongo Santamaria. Una sera, durante l’intervallo di un concerto in un locale, così per caso, fece sentire Watermelon man a Santamaria. Il percussionista cominciò a muovere la testa. Continua, gli disse, poi si mise alle congas e attaccò un ritmo chiamato guajira. Era perfetto. Gli altri musicisti attaccarono a suonare, i clienti si alzarono dai tavoli e presero a ballare. Da quella jam improvvisata lì per lì, nacque la versione latina di Watermelon man. Pubblicata nel 1963 da Mongo Santamaria, fu un enorme successo.
Nel 1973 la canzone conobbe una nuova giovinezza quando il batterista Harvey Mason propose a Hancock di riarrangiarla, per renderla ancora più funky. Il percussionista Bill Summers, un altro membro del gruppo, ebbe l’idea di usare alcuni elementi dello hindewhu, uno stile musicale dei pigmei Babenzélé. Riempì d’acqua una bottiglia di birra e s’inventò un ritmo a tre note, la prima e la terza cantata, la seconda prodotta soffiando sulla bocca della bottiglia (sempre con la bottiglia, sovraincise poi alcune contromelodie).
image2Perché questa lunga rassegna storica su Watermelon man? Perché l’arrivo dell’uomo delle angurie, con il suo carrettino, non è più solo un evento confinato alla Chicago degli anni Quaranta. Lo possiamo sentire anche oggi, oltre il suono del traffico e gli squilli di cellulare, oltre la patina delle giornate storte. È un grido della quotidianità, un richiamo da quartiere popolare che ha saputo diventare musica e incidersi nei cuori di più generazioni.
L’impasto chimico delle giornate storte è potente. Hai voglia di pensare che tutto passerà, che ciò che scrivi non è inutile, che i fallimenti sono occasioni da cogliere, ci sono momenti in cui la palude prende il sopravvento. Allora, per rimettervi in moto, provate tendere l’orecchio, pronti ad afferrare il clackety-clack dell’uomo delle angurie.
A seconda dei momenti, potete scegliere la versione più opportuna.
1) L’incisione originale del 1962 è appropriata per un ascolto serale. Ci devono essere ombre nella stanza, ed è meglio che siate seduti comodi. Le braccia distese, le dita chiuse intorno a un bicchiere dal vetro spesso. Dopo un po’, senza volerlo, il piede comincerà a battere il tempo, come mosso da una volontà propria.

2) La versione di Mongo Santamaria è adatta alle mattine estive, magari ascoltata in macchina a un volume più alto del necessario. Ma funziona anche all’ora dell’aperitivo, mentre qualcuno sta arrostendo qualcosa sulla griglia e dal prato arrivano grida di ragazzi, con il rumore di un tosaerba sullo sfondo.

3) La versione del 1973 è più elusiva, più lenta ed esotica. È ideale se doveste svegliarvi nel cuore della notte, senza più sonno. Anche questa funziona in macchina; non in autostrada, però. Può suonare bene in una strada di campagna, piena di curve, con il buio profondo del bosco che circonda il vostro viaggio.

Perché Watermelon man mi aiuta a combattere le giornate storte? Perché c’è qualcosa di irrimediabilmente fiducioso in quel richiamo, in quel ritmo inesorabile. Ma anche perché per un attimo mi guarisce dall’ascolto di me stesso, delle mie esitazioni. In questo senso, Herbie Hancock mi dà una lezione importante: per scrivere bene, bisogna imparare a togliersi di mezzo. Lo ripete anche nella sua autobiografia Possibilities (pubblicata in italiano da Minimum Fax nel 2015). Improvvisare significa esplorare ciò che non sai. Significa entrare in una stanza buia nella quale non riconosci nulla. Significa lasciarti guidare dall’istinto più che dalla mente. È un obiettivo al quale continuo a lavorare ogni giorno: imparare a togliermi di mezzo. Non è facile, ma quando ci si riesce è magia vera.

PS: Ecco un video dove Herbie Hancock, prima di suonare Watermelon man, spiega la genesi del brano. Sono più o meno le stesse cose che ho scritto sopra, prendendole in parte proprio dal video e in parte dall’autobiografia. (Si noti come Hancock usi un pianoforte di marca “Fazioli”… anche questo è un segno!)

PPS: L’immagine del prete che addenta l’anguria è di Giovannino Guareschi. L’ho tratta dalla copertina del volume Lo spumarino pallido (Rizzoli, 1988). Non c’entra niente con il watermelon di Chicago: questa è un’anguria (o un cocomero) della Bassa parmense… ma senza dubbio, anche Guareschi è un ottimo antidoto contro le giornate storte.

PPPS: Per completezza, aggiungo che Watermelon man è stato negli anni interpretato da molti artisti di generi assai differenti. Non sto a elencare jazzisti: sarebbero troppi (mi limito a indicare di sfuggita la versione di Errol Garner nel 1968). Nel mondo del blues, segnalo Buddy Guy, Albert King e Little Walter. Nel 1963, Jon Hendricks scrisse delle parole, così come fecero anche altri cantanti. Nel suo libro Gli standard. Una guida al repertorio (EDT), Ted Gioia racconta che il brano fu perfino adottato come sigla dalle ATA Airlines. E aggiunge: È davvero strano che in una carriera così fortunata il pezzo più famoso sia venuto dal primo brano del primissimo disco che Hancock incise da leader, quando ancora era un giovane pianista sconosciuto di Chicago. Misteri della vita (e della musica).
Per chi ancora avesse qualche minuto, ecco una versione con Miles Davis, in un concerto tenuto a Parigi nel luglio 1991, poco prima della morte di Miles.

Fra l’altro, Hancock racconta – sempre nella sua autobiografia – di aver fatto uno scherzo a Davis durante l’interpretazione di Watermelon man: impostò la tastiera portatile in maniera che suonasse come la tromba sordinata dello stesso Davis (fra le risate dei musicisti, dal minuto 1.06). L’idea può piacere o non piacere, ma di certo dimostra come l’uomo delle angurie abbia sempre in serbo una sorpresa…

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Stella by Starlight

L’uscita di un romanzo mi coglie sempre di sorpresa, mi riempie di strane incertezze e paure. Questo si acutizza al momento delle presentazioni: il 17 marzo a Lugano, poi a Mendrisio, a Milano e altrove. Sono combattuto: da una parte il piacere di festeggiare con un brindisi insieme agli amici, dall’altra la sensazione di non essere all’altezza. È un sentimento irrazionale, ma persistente: ciò che ho portato per mesi nella mente e nel cuore adesso è lì, davanti a tutti, tangibile, e a me tocca spiegare in che modo sia venuto alla luce. Com’è possibile?

L’arte del fallimento (Guanda) è in libreria da qualche settimana. In questi giorni stavo leggendo l’autobiografia dell’autrice britannica PD James (1920-2014), scritta a settantanove anni. A un certo punto, la vecchia signora accenna a un cambiamento di costumi: se da giovane le bastava pubblicare un libro, ora le organizzano lunghi tour di reading. Sono un po’ stancanti, alla sua età, ma almeno ha la possibilità di stringere la mano di persona ai suoi lettori. L’ironia di PD James mi ha fatto riflettere: che valore ha la presentazione di un libro? Non è imbarazzante, porsi davanti alla propria storia?
IMG_2058Lo so, anch’io sto facendo un tour di presentazioni. Qual è il probema, allora? Nel mio caso, non si tratta di imbarazzo. Sono un giornalista, ho anni di esperienza nella conduzione radiofonica e televisiva: benché abbia un’indole timida, ho imparato a parlare in pubblico. La verità è che non si tratta di mestiere: nei miei romanzi, anche se a prima vista non sembra, metto a nudo la parte più intima di me. So gestire professionalmente un’intervista alla radio o alla tivù, ma quando devo indagare la mia scrittura mi chiedo se – con le mie parole – non rischi di togliere l’incanto, di aggiungere concetti e commenti alla storia, che dovrebbe bastare a sé stessa.
Seguendo il filo di queste riflessioni, mi è venuto in mente un pensiero dello scrittore nigeriano Ben Okri: È il lettore che scrive il libro, perché la vera destinazione dei libri è la vita, e i viventi. Sono convinto che uno scrittore debba essere discreto, e che sia necessario difendere il proprio silenzio, la solitudine necessaria alla creazione. Ma credo pure che sia utile vedere qualche volta i propri lettori davanti a sé, sentire i loro commenti, il loro punto di vista. Parliamone, dunque, scherziamoci sopra, critichiamo. Togliamo i libri dalla teca di cristallo. Assecondiamo il ritmo della vita. Basta non dimenticare che, prima e dopo, c’è il tempo silenzioso della creazione (sia come autore, sia come lettore, perché la lettura è una forma di creazione).
Visto che L’arte del fallimento parla di jazz, lasciatemi fare un esempio musicale. È una bellissima versione di Stella by Starlight, registrata dal vivo dal quintetto di Miles Davis con George Coleman (sax tenore), Herbie Hancok (piano), Ron Carter (contrabbasso), Tony Williams (batteria) alla Philarmonic Hall di New York il 12 febbraio 1964.

Fin dall’inizio, c’è un’atmosfera speciale: l’improvvisazione ripete gesti trovati in tanti concerti (come il glissando che Hancock e Davis suonano insieme a 0:42). Poi Davis comincia a variare il tema con note lunghe, sempre dialogando con il piano; fra 1:46 e 1:52 il tutto culmina in un lungo acuto della tromba, che finisce con due note brevi subito ripetute al volo da Hancock (che tempismo!). Davis si ferma, qualcuno dal pubblico risponde all’acuto con un urlo altrettanto lungo. Davis allora reagisce con una scala che lo riporta in alto. La musica si fa più incandescente, il gruppo va più veloce (tecnicamente, in double time feel). IMG_2343
Mi piace questa testimonianza di un grido dal pubblico che muove i musicisti, li sollecita, e rimane nell’incisione. L’assolo di Davis continua fino a 4.35, quando parte George Coleman (bello anche il re acuto, ripetuto con insistenza da Davis a 4:14, quasi a scuotere il gruppo). Insomma, durante il concerto dialogano i musicisti, reagisce il pubblico, accadono cose. Come dice un verso della poetessa Rita Pacilio, intorno alla tromba si parla, si frana.
La lettura di un romanzo è diversa è un’attività più intima e silenziosa. E la scrittura non è di certo un’arte performativa, come la musica. Ma per chi scrive, come me, non è male ogni tanto vedere qualche faccia, sentire qualche voce. Quello strano, irrazionale timore resta vivo, ma è vivo anche il piacere di brindare insieme all’arte del fallimento.

PS: Qualche indicazione bibliografica: PD James, Il tempo dell’onestà, Mondadori 2001; Ben Okri, La tigre nella bocca del diamante, Minimum Fax 2000.

PPS: L’analisi tecnica del brano jazz proviene dal volume di Stefano Zenni I segreti del jazz. Una guida all’ascolto (Stampa Alternativa 2007). È un manuale prezioso e documentatissimo, che permette di cogliere meglio le sfumature della bellezza.

PPPS: Di bellezza si tratta anche nell’opera di Rita Pacilio Il suono per obbedienza (Marco Saya 2015). Per descrivere l’assolo di Davis in realtà sarebbero bastati i versi in cui Rita Pacilio osserva come noi siamo il passaggio tra due sfere, / sperimentazione / e obbedienza. Siamo doppi, / simultanei. È proprio vero che l’arte ci aiuta a convivere in due mondi. Potete leggere qui la poesia ispirata a Miles Davis, da cui ho rubato un verso. Trovate qui, invece, la lirica che ho appena citato sopra.

PPPPS: Quasi me ne stavo dimenticando… Se volete brindare anche voi al fallimento, trovate i dettagli sulle presentazioni qui nel mio sito, oppure anche (con tanto di carta geografica) nel sito “Il Libraio”.

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