La stanza chiusa

A casa mia c’è una stanza senza porte, senza aperture, con una sola finestra ermeticamente chiusa. Sta sopra la biblioteca, di fianco alla mansarda. Per entrarci, bisognerebbe abbattere una parete, forare il soffitto della biblioteca o spaccare il vetro della finestra. In teoria, appoggiando una scala alle pareti esterne, si potrebbe sbirciare dentro; io però non ci ho mai provato, anche se abito lì da cinque anni. Quando mi siedo da solo in balcone, per leggere un libro, fumare o ascoltare musica, mi capita di alzare gli occhi verso la finestra chiusa. Allora provo una sensazione strana, come se i miei occhi si affacciassero su un territorio inesplorato. In fondo, è un luogo dove nessuno può mettere piede. È uno spazio irrimediabilmente distante, come uno sperone di nuda roccia negli anfratti di una montagna, o come una navicella perduta nelle solitudini dello spazio.
copia-di-image1-2
Mi capita di parlarne a qualche amico, mentre beviamo qualcosa prima di cena. In genere, gli amici contemplano la finestra con una blanda curiosità. Ma se insisto, se ripeto che non so che cosa ci sia all’interno, nelle loro pupille si accende un lampo, simile a quello che appare negli occhi di un navigatore quando approda a un’isola non segnata nelle carte. È la valle segreta, il pianeta inesistente, la casa stregata, la radura nel cuore della giungla. È una stanza in una casa qualunque, a Bellinzona, ma è anche il simbolo dell’ignoto.
L’edificio risale credo agli inizi del ’900, se non prima. Non so perché l’architetto che l’ha restaurato abbia voluto chiudere quella stanza: forse per risparmiare. Certo, non posso fare a meno d’immaginare che il loculo nasconda segreti sconvolgenti. C’è solo l’imbarazzo della scelta.
img_6882
1) Qualcuno è stato murato vivo, anni fa, e il suo fantasma si affaccia pallidamente alla finestra nelle notti di piena luna. 2) È il rifugio di un super eroe, il quale accede all’interno grazie a super poteri che gli consentono di passare attraverso i muri.  3) Era il covo di un serial killer, con i resti delle sue vittime. È stato chiuso proprio dal killer, per cancellare le prove (O forse anche l’assassino è murato nella sua “stanza degli orrori”?) 4) È la base operativa di una spia, nella quale si entra mediante un passaggio segreto abilmente dissimulato. 5) È una macchina del tempo, allestita da uno scienziato nel 3978: grazie alla tecnologia sofisticata del trentanovesimo secolo, si può entrare e viaggiare verso il passato o il futuro. 6) È un ponte dimensionale per un universo parallelo. 7) È il nascondiglio di un tesoro inestimabile, raccolto da un rapinatore in decenni di colpi fortunati: montagne di lingotti d’oro, monete di ogni valuta, gioielli, pietre preziose.
image2
Potrei continuare. Ma se appoggiassi la scala al muro e dessi un’occhiata, tutte queste ipotesi svanirebbero come neve al sole (o lacrime nella pioggia). La verità è che luoghi mai visti, qualche volta, accendono la fantasia più dei viaggi reali. In fondo quando leggiamo, quando guardiamo un film o ascoltiamo un racconto, vogliamo addentrarci in regioni sconosciute. Anche quando si tratta di posti che conosciamo e situazioni note, l’atto narrativo è sempre un viaggio di scoperta. È questa la forza delle storie: nel momento in cui indagano la nostra intimità, esse ci conducono verso sentieri nuovi, misteriosi. Come diceva lo scrittore Giuseppe Pontiggia, la letteratura svela quell’ignoto che non ci è estraneo. Il movimento dell’arte è sempre duplice: è un’indagine su ciò che siamo, su ciò che desideriamo, e allo stesso tempo è uno sguardo spalancato sulla varietà del mondo. Dentro e fuori di noi, troviamo una realtà fatta di contraddizioni: pozzi profondi di male accanto a inaspettati bagliori di bellezza. Ci sono panorami sconfinati, sentieri angusti e, qualche volta, stanze chiuse…
La vita della mia famiglia si svolge intorno a quello spazio inaccessibile, da cui riverbera un continuo alone di mistero. Le parole della quotidianità penetrano appena nel cubicolo, insieme ai raggi del sole che oltrepassano i vetri opachi della finestra. Per il resto, là dentro, tutto è immobile e silenzioso.
Nel 1956 lo scrittore Giovannino Guareschi, sul settimanale “Candido”, racconta una situazione simile: un mistero nel paesaggio consueto.

Ricordo che quando ero ragazzo, per quindici anni ho abitato a Marore. E siccome ero tutto il giorno a cavallo della bicicletta, conoscevo tutte le strade e le viottole dentro un raggio di dieci chilometri. Una sola strada non ho voluto mai percorrere sino in fondo: ed è quella che comincia dalla casa rossa. Arrivato alla casa rossa mi sono sempre fermato. E ancor oggi, e così sarà negli anni successivi, non so dove vada a finire. Non lo so e non lo voglio sapere. È un errore voler vedere e conoscere tutto: bisogna lasciare dei pascoli per la fantasia.

Guareschi conosceva alla perfezione il suo territorio, proprio perché era abituato a lavorare sulla quotidianità di un mondo piccolo per dimensioni, non certo per profondità e ricchezza di materiale umano. Ma sentiva il bisogno di non trascurare il mistero, di non dare per scontato lo scenario dei suoi racconti (anche per questa ragione, forse, è un autore che riesce a essere insieme umile e grande).
img_6880
La fantasia, così come i muscoli o l’orecchio musicale, va tenuta in allenamento. Per uno scrittore, l’allenamento più proficuo consiste nella lettura, insieme all’attenzione verso le storie che capitano intorno a noi. Ma anche una stanza chiusa sopra la biblioteca può fare la sua parte. Quando sono nel mio studio a scrivere, al pianterreno, e non c’è nessun altro in casa, mi succede talvolta di sentire un rumore insolito, come un passo pesante che si trascina. Salgo le scale, rimango in ascolto. Il rumore si ripete. Vuoi vedere che…? Per un attimo rimango con il fiato sospeso. Poi scendo le scale e torno a scrivere.

PS: Se qualcuno volesse ammirare con i suoi occhi la stanza chiusa, respirarne l’atmosfera da vicino, ascoltarne il silenzio, osservare i bagliori del sole sul vetro… Be’, si può fare. Se siete un bel gruppo, vedrò di organizzare una visita guidata con sconto comitive

PPS: Pontiggia dà la sua definizione di letteratura nel volume di saggi L’isola volante (Mondadori 1996); prima o poi tornerò a parlarne. Il brano di Guareschi proviene da Fantasie della Bionda (scene da un romanzo all’antica), pubblicato nel 1995 da Rizzoli a cura di Carlotta e Alberto Guareschi. La foto della chiesa di Marore, che vedete qui sotto, è presa dallo stesso volume ed è stata scattata da Guareschi nel 1943. I curatori fanno notare che la sfera di bronzo alla base della croce era stata posta lassù negli anni Venti da un giovane e ardimentoso Nino (cioè dallo stesso Giovannino Guareschi, nato nel 1908 e morto nel 1968).

image1-2

Condividi il post

Watermelon man

C’è qualcosa di misterioso, nelle giornate storte. Non arrivano solo per una serie di eventi negativi, ma hanno una loro consistenza particolare. Per esempio ci sono giorni in cui, fin dal mattino, sono incapace di scrivere: pesano i giudizi negativi, la tristezza, il sospetto strisciante che la mia ricerca sia vana. E tutto prende un sapore amarognolo, una forma paludosa. Vorrei conoscere la formula chimica di queste giornate, il loro segreto. Come combatterle? Quando arriva l’estate, una delle mie strategie è fare ricorso all’uomo delle angurie.
image1Nel South Side di Chicago, negli anni Quaranta, lo si sentiva arrivare da lontano, con il suo carretto trainato dai cavalli. Le strade erano pavimentate da ciottoli e il clackety-clack clackety-clack del carretto era inconfondibile. Il pianista Herbie Hancock, cresciuto a Chicago, se ne rammentò nel 1962: aveva 22 anni e desiderava comporre qualcosa che affondasse le radici nella sua esperienza. L’uomo delle angurie – watermelon man – era il personaggio più caratteristico della sua infanzia: Hancock trasformò il clackety clack in un ritmo caratteristico. Mancava però una melodia. Forse avrebbe potuto usare la cantilena del venditore? Watey-mee-low! Red, ripe, watey mee-low! Ma il richiamo, per quanto fosse ritmico, non era abbastanza melodico. Hancock ripensò allora alle donne sedute in veranda, che quando lo sentivano arrivare gridavano: Hey-eyyy, watermelon man! Eccola, quella era la melodia! Hancock scrisse dunque un arrangiamento funky, con la melodia cadenzata su un pattern ritmico ispirato al rumore delle ruote nei ciottoli, e lo intitolò Watermelon man. Fra l’altro, questa scelta da parte di un giovane musicista rovesciava anche il luogo comune che associava il watermelon man alla caricatura del negretto – per usare le parole dello stesso Hancock – con le treccine, gli occhioni bianchi e i denti luccicanti. La sincerità del ricordo, l’autenticità di quel frammento di una storia intima e nello stesso tempo collettiva, era il miglior antidoto a ogni forma di pregiudizio razziale.
IMG_4305Il brano ebbe un certo successo. È un blues in sedici battute, con un’estensione per quattro battute della frase finale del blues regolare in dodici. Alla fine del 1962, Hancock aveva un ingaggio con il percussionista cubano Mongo Santamaria. Una sera, durante l’intervallo di un concerto in un locale, così per caso, fece sentire Watermelon man a Santamaria. Il percussionista cominciò a muovere la testa. Continua, gli disse, poi si mise alle congas e attaccò un ritmo chiamato guajira. Era perfetto. Gli altri musicisti attaccarono a suonare, i clienti si alzarono dai tavoli e presero a ballare. Da quella jam improvvisata lì per lì, nacque la versione latina di Watermelon man. Pubblicata nel 1963 da Mongo Santamaria, fu un enorme successo.
Nel 1973 la canzone conobbe una nuova giovinezza quando il batterista Harvey Mason propose a Hancock di riarrangiarla, per renderla ancora più funky. Il percussionista Bill Summers, un altro membro del gruppo, ebbe l’idea di usare alcuni elementi dello hindewhu, uno stile musicale dei pigmei Babenzélé. Riempì d’acqua una bottiglia di birra e s’inventò un ritmo a tre note, la prima e la terza cantata, la seconda prodotta soffiando sulla bocca della bottiglia (sempre con la bottiglia, sovraincise poi alcune contromelodie).
image2Perché questa lunga rassegna storica su Watermelon man? Perché l’arrivo dell’uomo delle angurie, con il suo carrettino, non è più solo un evento confinato alla Chicago degli anni Quaranta. Lo possiamo sentire anche oggi, oltre il suono del traffico e gli squilli di cellulare, oltre la patina delle giornate storte. È un grido della quotidianità, un richiamo da quartiere popolare che ha saputo diventare musica e incidersi nei cuori di più generazioni.
L’impasto chimico delle giornate storte è potente. Hai voglia di pensare che tutto passerà, che ciò che scrivi non è inutile, che i fallimenti sono occasioni da cogliere, ci sono momenti in cui la palude prende il sopravvento. Allora, per rimettervi in moto, provate tendere l’orecchio, pronti ad afferrare il clackety-clack dell’uomo delle angurie.
A seconda dei momenti, potete scegliere la versione più opportuna.
1) L’incisione originale del 1962 è appropriata per un ascolto serale. Ci devono essere ombre nella stanza, ed è meglio che siate seduti comodi. Le braccia distese, le dita chiuse intorno a un bicchiere dal vetro spesso. Dopo un po’, senza volerlo, il piede comincerà a battere il tempo, come mosso da una volontà propria.

2) La versione di Mongo Santamaria è adatta alle mattine estive, magari ascoltata in macchina a un volume più alto del necessario. Ma funziona anche all’ora dell’aperitivo, mentre qualcuno sta arrostendo qualcosa sulla griglia e dal prato arrivano grida di ragazzi, con il rumore di un tosaerba sullo sfondo.

3) La versione del 1973 è più elusiva, più lenta ed esotica. È ideale se doveste svegliarvi nel cuore della notte, senza più sonno. Anche questa funziona in macchina; non in autostrada, però. Può suonare bene in una strada di campagna, piena di curve, con il buio profondo del bosco che circonda il vostro viaggio.

Perché Watermelon man mi aiuta a combattere le giornate storte? Perché c’è qualcosa di irrimediabilmente fiducioso in quel richiamo, in quel ritmo inesorabile. Ma anche perché per un attimo mi guarisce dall’ascolto di me stesso, delle mie esitazioni. In questo senso, Herbie Hancock mi dà una lezione importante: per scrivere bene, bisogna imparare a togliersi di mezzo. Lo ripete anche nella sua autobiografia Possibilities (pubblicata in italiano da Minimum Fax nel 2015). Improvvisare significa esplorare ciò che non sai. Significa entrare in una stanza buia nella quale non riconosci nulla. Significa lasciarti guidare dall’istinto più che dalla mente. È un obiettivo al quale continuo a lavorare ogni giorno: imparare a togliermi di mezzo. Non è facile, ma quando ci si riesce è magia vera.

PS: Ecco un video dove Herbie Hancock, prima di suonare Watermelon man, spiega la genesi del brano. Sono più o meno le stesse cose che ho scritto sopra, prendendole in parte proprio dal video e in parte dall’autobiografia. (Si noti come Hancock usi un pianoforte di marca “Fazioli”… anche questo è un segno!)

PPS: L’immagine del prete che addenta l’anguria è di Giovannino Guareschi. L’ho tratta dalla copertina del volume Lo spumarino pallido (Rizzoli, 1988). Non c’entra niente con il watermelon di Chicago: questa è un’anguria (o un cocomero) della Bassa parmense… ma senza dubbio, anche Guareschi è un ottimo antidoto contro le giornate storte.

PPPS: Per completezza, aggiungo che Watermelon man è stato negli anni interpretato da molti artisti di generi assai differenti. Non sto a elencare jazzisti: sarebbero troppi (mi limito a indicare di sfuggita la versione di Errol Garner nel 1968). Nel mondo del blues, segnalo Buddy Guy, Albert King e Little Walter. Nel 1963, Jon Hendricks scrisse delle parole, così come fecero anche altri cantanti. Nel suo libro Gli standard. Una guida al repertorio (EDT), Ted Gioia racconta che il brano fu perfino adottato come sigla dalle ATA Airlines. E aggiunge: È davvero strano che in una carriera così fortunata il pezzo più famoso sia venuto dal primo brano del primissimo disco che Hancock incise da leader, quando ancora era un giovane pianista sconosciuto di Chicago. Misteri della vita (e della musica).
Per chi ancora avesse qualche minuto, ecco una versione con Miles Davis, in un concerto tenuto a Parigi nel luglio 1991, poco prima della morte di Miles.

Fra l’altro, Hancock racconta – sempre nella sua autobiografia – di aver fatto uno scherzo a Davis durante l’interpretazione di Watermelon man: impostò la tastiera portatile in maniera che suonasse come la tromba sordinata dello stesso Davis (fra le risate dei musicisti, dal minuto 1.06). L’idea può piacere o non piacere, ma di certo dimostra come l’uomo delle angurie abbia sempre in serbo una sorpresa…

Condividi il post

Buon Natale!

Ho trentacinque anni, mi ricordo che un giorno ne ho avuti otto e, rimboccati i baffi, mi costruisco un piccolo Presepe di cartone. Lo faccio smontabile: non si sa mai. Sono parole scritte da Giovannino Guareschi nel 1943, quando era prigioniero in un campo di concentramento germanico. Così i figli dell’autore descrivono il presepe, che è sopravvissuto fino a oggi: Un cartoncino come fondale al quale è appiccicato, col sistema delle casette intagliate della Val Gardena, il frontale della Capannuccia. All’interno la Sacra Famiglia con il bue e l’asinello. In alto i due angioletti che sorreggono il cartiglio con l’augurio e la speranza di pace. A sinistra della Capannuccia una pompa dell’acqua, l’unico sostentamento, oltre alla brodaglia e alla “razione tedesca”, del Lager. L’ambiente è quello del campo di concentramento (con la torretta di controllo e le baracche), mentre l’albero di Natale è un ramo di betulla. Sullo sfondo c’è la scuola di Marore, dove in tempo di guerra stava la famiglia di Guareschi. In alto si vede una stella cometa, ritagliata nella carta stagnola di un pacchetto di sigarette.
IMG_0764Penso che questa minuscola opera, creata in mezzo al fango e alla desolazione, possa dirci qualcosa. Non importa se viviamo il Natale da credenti o da atei, da dubbiosi o da sentimentali. Che cosa sia l’amore per i nostri cari, che cosa siano il freddo e la paura, tutti lo sappiamo, o possiamo immaginarlo. Così come possiamo immaginare che cosa sia la mancanza di libertà, la nostalgia che diventa una ferita straziante. Il presepe di Guareschi è un piccolo gesto di speranza nato in un momento buio. Niente di più, niente di meno. E con i tempi che corrono, di speranza abbiamo tutti bisogno.
Concludo con un pensiero dello studioso Giovanni Pozzi. Bisogna far tacere il lavorio del proprio pensiero, sedare l’irrequietezza del cuore, il tumulto dei fastidi, ogni sorta di distrazioni. Nulla come l’ascolto, il vero ascolto, ci può far capire la correlazione fra il silenzio e la parola. È l’augurio che mi faccio come scrittore: vorrei sempre di più imparare ad ascoltare, perché le mie parole siano vive, autentiche. Ma in generale, al di là della scrittura, l’ascolto può essere un primo passo verso l’armonia. Ascoltiamolo dunque, questo presepe clandestino di Guareschi, e prendiamo in prestito la sua forza, la sua speranza. Buon Natale!

PS: Le parole di Giovannino Guareschi, così come quelle dei suoi figli Alberto e Carlotta, provengono dal volume Giovannino nostro babbo, edito da Rizzoli nel 2009. L’altra citazione è presa dal volumetto Tacet (Adelphi 2013), uno degli ultimi testi di padre Giovanni Pozzi (1923-2002), critico, studioso e docente di letteratura italiana a Friburgo.

Condividi il post