Questo sono io

Se avete qualche minuto di tempo, mi piacerebbe che andassimo insieme nella steppa asiatica, vicino all’avamposto occupato da un distaccamento dell’armata mongola. È il IV secolo avanti Cristo ed è un giorno come tutti gli altri. Raffiche di vento, odore di cuoio, di cavalli. Gli ordini secchi dei comandanti, i colpi di un martello. Un gruppo di soldati sta giocando a dadi, ai margini dell’accampamento, mentre due cani si azzuffano poco più in là. Lentamente il sole si arrampica nel cielo finché, all’inizio del pomeriggio, si staglia all’orizzonte un gruppo di uomini a cavallo.
Un fermento corre nella truppa… oggi non è più un giorno come tutti gli altri. Da mesi i soldati non vengono pagati, ma finalmente sono arrivati i soldi. Gli uomini si mettono in fila e il tesoriere, con fare solenne, consegna a ognuno di loro una moneta d’argento. Tutti ridono, si danno pacche sulle spalle. 
Un soldato basso, di corporatura robusta, si allontana senza dire niente. Dimostra quarant’anni e il volto, segnato dalla fatica, ha dei tratti occidentali. I suoi compagni, pur rispettandolo, ne hanno un certo timore, forse perché è mancino o perché ha gli occhi di due colori diversi: uno azzurro e l’altro nero. Fissando il soldo d’argento, il soldato prende a borbottare fra sé. Avviciniamoci, senza far rumore, e tendiamo l’orecchio. «Sono io – mormora con voce rotta. – Questo sono io.» Si rigira la moneta fra le mani. «Io ho fatto coniare questa moneta per celebrare una vittoria su Dario, quand’ero Alessandro di Macedonia.»

Questa piccola gita asiatica è ispirata a The Clipped Stater, una poesia di Robert Graves. Il poeta britannico immagina che Alessandro Magno non sia morto a Babilonia nel giugno del 323 avanti Cristo. Dopo una battaglia il condottiero era rimasto separato dall’esercito. Confuso, smarrito, a lungo vagò per una foresta e in seguito attraversò fiumi e montagne. Jorge Luis Borges, che amava questa leggenda, racconta che un giorno Alessandro «scorge i fuochi di un accampamento. Uomini dagli occhi obliqui e di carnagione gialla lo accolgono, lo salvano e infine lo arruolano nel loro esercito. Fedele al suo destino di soldato, partecipa a lunghe campagne nei deserti di una geografia che ignora.» Solo il giorno della paga Alessandro ritrova la sua identità. O meglio, riconosce una vicinanza fra l’uomo della moneta e l’uomo arruolato nell’esercito mongolo. È realmente la stessa persona?

La vita è un lungo moltiplicarsi. Se mi volgo indietro, se immagino il futuro, scorgo una quantità di Andrea diversi. Alcuni mi osservano con stupore infantile, altri sono disillusi, addolorati, malinconici, altri ancora mi offrono saggezza e perfino lampi di felicità. Ogni volta, con diffidenza prima e poi con meraviglia, mi convinco che siamo la stessa persona: quel che avevo di buono nell’infanzia non è perduto, anche se talvolta si nasconde ai miei occhi offuscati.
Anche scrivendo, e qui la faccenda si complica, m’interrogo sull’identità dei miei personaggi. È appena uscito per l’editore Casagrande il romanzo Le vacanze di Studer, che ho scritto a quattro mani con l’autore svizzero Fredrich Glauser. A quattro mani per modo di dire, visto che Glauser visse tra il 1896 e il 1938… In realtà l’editore ha fatto tradurre alcuni frammenti di un romanzo inedito, ambientato nel Canton Ticino, a cui Glauser stava lavorando prima di morire.

Glauser aveva abbozzato una trama: nel 1921 il sergente Studer, della Polizia cantonale bernese, sta trascorrendo una vacanza ad Ascona quando s’imbatte in un misterioso omicidio avvenuto nei ditorni del Monte Verità. La storia si muove tra ambienti sociali diversi: i commercianti e i pescatori di Ascona, gli artisti del Monte Verità, i primi turisti attirati dal Lago Maggiore. 
All’inizio ho faticato a trovare il passo, forse per soggezione. Leggo Glauser da quando sono ragazzo e lo ammiro per lo stile, per la capacità di evocare un’atmosfera, per la maestria con cui usa il genere poliziesco. Il suo obiettivo non era costruire un indovinello intorno a un cadavere e nemmeno titillare i lettori con scene morbose; al contrario, Glauser desiderava portare i lettori «in piccole stanze che non hanno mai visto», mettendo in scena personaggi memorabili. Il sergente Studer, creato negli anni Trenta, è protagonista di parecchi racconti e romanzi. Il suo metodo è molto simile a quello del commissario Maigret di Simenon, e consiste proprio nel non avere un metodo. Studer si muove con passo lento, parla con le persone, s’impregna degli odori, dei sapori, dei pensieri altrui.
Per superare le mie difficoltà, ho deciso di condividerle. Insieme alla storia, nella quale metto in scena Studer, ho narrato anche il modo in cui ho affrontato questa sfida. Mi ha aiutato il fatto che lo stesso Studer si trova in difficoltà, perché deve muoversi in un ambiente che non è il suo. Il Ticino è assai diverso da Berna e il poliziotto, con il suo dialetto svizzero tedesco, si sente impacciato, lontano dalla realtà. Questa condizione lo conduce a interrogarsi sul suo ruolo d’investigatore, ma non solo. A un certo punto, di fronte a una bambina appena nata, Studer vive un momento di vertigine.

«Studer sbirciò la bambina. I suoi occhi azzurri, sgranati, parevano intenti a osservare un mondo invisibile a tutti [gli adulti presenti]. Ad un tratto Studer ebbe nostalgia di quella vastità, di quella meraviglia. Un giorno anche lui aveva conosciuto la tenerezza e l’abbandono di chi si aspetta qualcosa dalla vita; di certo anche il piccolo Köbu, fra le rassicuranti strade di Berna, aveva fissato una fontana, un geranio, una carrozza, un ciuffo d’erba o un ciottolo, e forse li aveva visti per ciò che sono realmente. Chi ne sapeva di più? Il piccolo Köbu o lo smaliziato sergente Jakob Studer, della Polizia cantonale di Berna?»

È la stessa domanda: quella di Alessandro il Grande, quella di Studer, quella di tutti noi. Questi interrogativi giungono spesso nei momenti difficili, quando ci sembra di essere lontani dalla realtà, così come accade a Studer. Il mio augurio per Natale è che, anche in tempi segnati dalla crisi (sanitaria, economica, esistenziale…), sappiamo ritrovare il senso del passato e la speranza nel futuro, con la coscienza che entrambi non esistono se non ancorati nel presente, con tutte le sue ombre. Sembra contorto, «eppure – come scrive Glauser – la faccenda è naturale se non addirittura misteriosa, proprio come il fatto che un melo che si credeva seccato incominci d’un tratto a fiorire.»

PS: Buon Natale alle lettrici e ai lettori di questo blog!

PPS: Il romanzo Le vacanze di Studer. Un poliziesco rirovato (Casagrande 2020) è uscito in anteprima nella Svizzera italiana. A partire da gennaio sarà disponibile in tutte le librerie.

PPPS: La poesia The Clipped Stater di Robert Graves (1895-1985) venne pubblicata per la prima volta nel volume Welchman’s Hose, The Fleuron Press, London 1925. Si trova in numerose antologie e anche in The complete poems, Penguin Modern Classics, London 2003. Jorge Luis Borges (1899-1996) ne parlò in due racconti brevi. Il primo, Un mito de Alejandro, si trova nella raccolta Cuentos breves y extraordinarios (1955), scritta con Adolfo Bioy Casares e tradotta da T. Scarano con il titolo Racconti brevi e straordinari, Adelphi, Milano 2020; il secondo, Graves a Deyá, si trova nella raccolta Atlas(1984), tradotta da D. Porzio e H. Lyria con il titolo di Atlante in Tutte le opere, Mondadori, Milano 1985. Nell’articolo ho citato frasi da entrambe le versioni. Inoltre, Borges raccontò questa «favola tanto bella che meriterebbe di essere antica»in alcune conferenze e dialoghi (si veda per esempio l’intervista del 9 dicembre 1985 con Armando Verdiglione, pubblicata in Una vita di poesia, Spirali, Milano 1986).

PPPPS: La fotografia della moneta d’argento e quella che ritrae Glauser sono prese da internet. Purtroppo le dimensioni delle fotografie potrebbero risultare troppo grandi o troppo piccole, a seconda del supporto su cui leggete l’articolo. O magari invece saranno perfette. Sto riscontrando qualche problema tecnico che spero di risolvere al più presto.

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Panchinario 56-64

Nel romanzo Maigret s’amuse, il commissario creato da Simenon si trova per una serie di circostanze a passare le sue vacanze a Parigi. Come occupare il tempo? Ecco il programma di Maigret: lunghe passeggiate, lettura dei giornali al bar, osservazione di ciò che succede fuori dalla finestra di casa, ristorante e cinema con la signora Maigret. Fra una cosa e l’altra, il commissario seguirà da lontano – tramite i giornali – un caso di cui si occupa Janvier, l’ispettore che lo sostituisce.
Ma qual è l’atto più rivoluzionario di queste vacanze parigine di Maigret?
«C’era un’altra cosa che avrebbe fatto, ma senza parlarne a sua moglie, per paura che si prendesse gioco di lui. Forse sarebbe stato costretto a scegliere un luogo poco frequentato, la place des Vosges, per esempio, oppure il Parc Montsouris? Aveva voglia di sedersi su una panchina e di rimanerci a lungo, tranquillo, senza pensare a niente, fumando la pipa e guardando i bambini giocare.»

56) LUGANO, alla foce del Cassarate
Coordinate: 2’717’920.3; 1’095’693.8
Comodità: 4 stelle su 5
Vista: 5 stelle su 5
Ideale per… entrare in una cartolina del 1920.
Lo chiamano “mago”, ma in francese: Magicien. Con il cilindro, il vestito nero, i guanti bianchi e il monocolo, sembra il padrone di un circo nella Parigi d’inizio Novecento. Io l’ho incontrato a Lugano, un giorno d’estate. Dalla mia panchina ammiravo il lago scintillante, la curva dolce del monte Brè. Mi sono voltato e il Magicien era lì, dietro il suo treppiede, che mi stava  scattando una foto. Subito il paesaggio è diventato bianco e nero. Le case sul Brè sono sparite. I passanti indossavano abiti d’epoca. Allora ho capito: ero scivolato dentro la fotografia, nella Lugano del 1920! Accanto a me, due ragazzi parlavano in dialetto. Un turista sedeva a pescare sul bordo del lago. L’incanto è durato finché ho battuto le palpebre, poi sono tornato nella Lugano di oggi. Il Magicien era scomparso. Ma non è mai lontano: si aggira intorno a noi, sempre intento a trasformare il mondo in una vecchia cartolina.
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Colonna sonora (30 secondi):

 

57) LOCARNO, in via del Tiglio, davanti alla Chiesa della SS. Trinità
Coordinate: 2’704’216.5; 1’114’442.2
Comodità: 4 stelle su 5
Vista: 5 stelle su 5
Ideale per… ascoltare un matrimonio.
I matrimoni sono una strana faccenda. Capita di averne paura prima di sposarsi: sarà la persona giusta? Ma anche dopo: oh, merda, e adesso che cosa faccio? Tutta la vita è un sacco di tempo! Ci sono poi altre paure, diciamo così, collaterali: ehi, ma come testimone non dovrò mica fare un discorso? Oppure: cerimonia, pranzo, giochi vari, dal mattino fino a mezzanotte… dovevano proprio invitarmi? Tuttavia ci sono matrimoni che si presentano con una intatta grazia, con una dolce freschezza: sono quelli fra persone che non conosciamo. Basta sedersi di sabato su questa panchina locarnese. Con un po’ di fortuna, mentre guardiamo dall’altra parte, sentiremo alle nostre spalle la colonna sonora dello sposalizio. Applausi, schiocchi di baci, congratulazioni, musica, chiacchiericcio, disperate richieste di un aperitivo. Ascoltare un matrimonio è come leggere un romanzo d’avventura.
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58) CHIASSO, in piazza Indipendenza
Coordinate: 2’723’699.0; 1’077’028.7
Comodità: 3 stelle su 5
Vista: 3 stelle su 5
Ideale per… osservare la linea d’ombra.
«Ma chi sta veramente bene?» La domanda, vertiginosa, mi accoglie appena varco la soglia del bar. È una giornata caldissima. La cameriera sventola il menu plastificato come un ventaglio. Al bancone, un uomo sulla sessantina indossa un abito di lino e un paio di sandali. Sta parlando della felicità. Secondo la cameriera, se una persona sta bene può essere felice. E lui, torvo: «Ma chi sta veramente bene?» Poi, dopo un secondo, aggiunge una frase che è un perfetto endecasillabo e che taglia come un rasoio: «Anamnesi! Lo sai cos’è un’anamnesi?» Torno fuori. Cammino attraverso la piazza. Mi siedo su una panchina all’ombra e ascolto il fruscìo delle fontane. Niente si muove, tranne la linea d’ombra proiettata dalle case. La osservo spostarsi, indietreggiare, farsi sempre più vicina. Respiro adagio, mi asciugo il sudore sulle tempie. Fra poco rimarrò esposto al sole.
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59) SALERNO, sul lungomare accanto alla spiaggia Santa Teresa
Coordinate: 40°40’40” N; 14°45’27” E
Comodità: 1 stelle su 5
Vista: 4 stelle su 5
Ideale per… sorvegliare il sole.
A un certo punto, su questa panchina, mi coglie un dubbio. Anzi, un moto di paura. Ho l’impressione che il meccanismo si sia inceppato. Normalmente le giornate procedono ora dopo ora, scivolando dal pallore mattutino giù fino al buio della notte. Invece oggi tutto è fermo. L’impeccabile blu del mare, il porto di Salerno, le palme. L’incessante viavai di famiglie, turisti, giovani e anziani. È un tranquillo pomeriggio estivo. Ma non era lo stesso ore fa? Quanto può durare un pomeriggio? Perché il sole non si muove più? La luce abbagliante mi avvolge come un incantesimo. Che cosa succede? Infilo gli occhiali scuri, lancio un’occhiata al sole. Forse ha bisogno di un incoraggiamento. Qualcuno che gli dica: ti sto tenendo d’occhio. Infatti, piano piano, il pomeriggio sfuma nella sera, mentre il mare si tinge di rosso e di viola. Accanto a me si accende un lampione. Anche per oggi è fatta.
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60) AEROPORTO MALPENSA, a Somma Lombardo
Coordinate: 45°38’56” N; 8°43’11” E
Comodità: 1 stella su 5
Vista: 2 stelle su 5
Ideale per… restare con i piedi per terra.
Due milioni di anni fa l’Homo erectus migrò dall’Africa verso l’Europa. Immagino che qualcuno abbia detto «Be’, mi sa che dobbiamo andare», qualcuno avrà radunato i bambini… e via, verso l’ignoto. Il 6 settembre 1620 un centinaio di persone salpò sul galeone Mayflower, diretto negli Stati Uniti. Immagino che tutti abbiano rivolto un ultimo sguardo alle coste di Plymouth, sapendo che non avrebbero mai più rivisto l’Inghilterra. Oggi, qui all’aeroporto della Malpensa, una numerosa famiglia composta da genitori, figli, fidanzate dei figli e, se non sbaglio, anche una nonna (o una vecchia zia), corre verso il terminal. E io, seduto su una panchina di cemento, rimango. Fermo, senza nessun altra ragione per essere qui se non guardare gli aeroplani che passano avanti e indietro sopra di me, incrociando storie, desideri, speranze, destini, mescolando chi viaggia per vedere posti nuovi e chi per salvarsi la vita.
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61) MOLARE, accanto alla fermata dell’autopostale
Coordinate: 2’704’782.2; 1’149’323.1
Comodità: 1 stella su 5
Vista: 3 stelle su 5
Ideale per… lasciar passare i pensieri.
La bicicletta sfreccia silenziosa. Prima la strada scende: Tengia, Rossura. Poi sale con pendenze ripide per una decina di chilometri: Primadengo, Calpiogna, Campello, Molare, Carì. Lentamente mi allontano da ciò che ero, o che credevo di essere. La salita è altrove, è un mondo segreto dentro il mondo di tutti i giorni. Non c’è differenza fra me e la bicicletta: siamo un macchinario fatto di cuore, catena, polmoni, ruote. Sono solo con la mia fatica, con i miei pensieri, con le immagini che vanno e vengono nella mia testa. Arrivato in cima, volto la bici e scendo fino a Molare, dove mi siedo per qualche minuto su questa piccola panchina. Un cartello avvisa di lasciare l’acqua pulita («niente sapone!»). Bevo, ascolto la fontana. Mentre guardo la strada assolata mi sembra che tutti i miei pensieri – le preoccupazioni, i dubbi, i timori – passino davanti a me, in un soffio, e svaniscano come fantasmi.
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62) BRISSAGO, vicino all’Alpe Arolgia e al rifugio “Al Legn”
Coordinate: 2’723’699.0; 1’077’028.7
Comodità: 2 stelle su 5
Vista: 5 stelle su 5
Ideale per… inventare i nomi delle montagne.
Chi decide i nomi delle montagne? Un giorno, da bambino, qualcuno mi indicò il Pizzo Mezzogiorno e io ci rimasi male: nella mia testa l’avevo già chiamato Monte Piramide. Le montagne non sono eterne – niente a questo mondo lo è – però danno una sensazione d’immutabilità, mentre generazioni di esseri umani si succedono l’una dopo l’altra. Chi mai può avere l’ardire di mettere un nome a qualcosa che durerà per millenni dopo la sua morte? Questa panchina si trova sulle pendici di quello che la gente del posto chiama Monte Gridone; nella Svizzera italiana tuttavia è più diffuso il nome Ghiridone, mentre sulle mappe italiane è indicato come Monte Limidario. Del resto, che importa? Il panorama è stupendo: il Lago Maggiore, la pianura Padana, Milano che sfuma in lontananza… è bello sedersi qui, un mattino d’estate, e divertirsi a battezzare le montagne.
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63) CASTIGLIONE DELLA PESCAIA, in via Nazario Sauro
Coordinate:42°45’57” N; 10°52’24” E
Comodità: 1 stella su 5
Vista: 2 stelle su 5
Ideale per… immaginare il mare.
Castiglione della Pescaia è un villaggio toscano che si affaccia sul mare. È dotato di spiagge, scogli, pinete, e anche di un centro storico arroccato su un promontorio. Proprio in cima, vicino al castello medievale, c’è un belvedere che sembra fatto apposta per le fotografie. Perché allora cercare questa panchina di cemento, costruita accanto a un parcheggio? Be’, prima di tutto i due ulivi fanno una bella ombra… Inoltre, a ben vedere, il mare non è lontano. Sul retro della panchina qualcuno ha lasciato un segno azzurro: appaiono onde, barche, gabbiani; e pare quasi che, fra le automobili e le motociclette, si sprigioni un profumo di salsedine. Vi consiglio di sedervi qui la mattina presto o la sera tardi, quando non c’è traffico. Dopo qualche minuto avrete l’impressione che gli ulivi, nel loro linguaggio impercettibile, si raccontino a bassa voce i pettegolezzi degli ultimi cento o duecento anni.
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64) ASCONA, in piazza Giuseppe Motta
Coordinate: 2’702’886.9; 1’112’148.4
Comodità: 4 stelle su 5
Vista: 4 stelle su 5
Ideale per… leggere Friedrich Glauser.
Nato nel 1896, l’autore svizzero Friedrich Glauser ebbe una vita avventurosa: partecipò alla nascita del dadaismo a Zurigo, si arruolò nella Legione Straniera, lavorò come minatore in Belgio; intorno al 1920 visse anche nel Canton Ticino, dove frequentò gli artisti del Monte Verità. Nel 1938, prima di morire, stava lavorando a un romanzo poliziesco ambientato proprio ad Ascona. Seduto di fronte al lago, provo a immaginare il sergente Studer alla pensione “Mimosa”, sulle tracce di un assassino. Di fronte a me, sul pontile, c’è una fila di variopinti pinguini di plastica. Pinguini dadaisti? Chissà. Glauser scrisse che durante il suo soggiorno ticinese aveva imparato una lezione importante: le cose che riusciamo a dire, in parole o immagini, non dipendono dalla nostra volontà: «ci vengono donate, e vanno considerate come un dono» (F. Glauser, Dada, Ascona e altri ricordi, trad. di Gabriella de’ Grandi, Casagrande 2018).
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Colonna sonora (30 secondi):

 

PS: Ho citato un estratto da questo romanzo: Georges Simenon, Maigret s’amuse, Presses de la Cité 1957. Un altro titolo della serie per gli amanti delle panchine è Maigret et l’homme du banc (Presses de la cité 1953); in questo caso l’occhio del narratore si posa su «quegli individui senza una professione precisa che se ne stanno per ore sulle panchine dei boulevard a guardare vagamente i passanti.»

PPS: Esprimo la mia gratitudine a chi mi aiuta, mi accompagna e mi fa scoprire nuove panchine. In particolare, grazie mille ad Alice (Lugano, Locarno e Brissago) e a Martina (Lugano).
Potete leggere qui le prime quattro panchine, qui le panchine da 5 a 10, qui da 11 a 17 e qui da 18 a 23, qui da 24 a 30, qui da 31 a 37, qui da 38 a 45 e qui da 46 a 55. In generale, nella categoria Panchinario (in alto a destra), si trovano tutte le panchine.

PPPS: Ringrazio anche le lettrici e i lettori che m’inviano fotografie di panchine (da ogni parte del mondo!). Mi annoto sempre i suggerimenti; e, quando posso, vado a vedere con i miei occhi. In futuro magari pubblicherò, con il consenso degli autori, alcune di queste panchine, come mi è già capitato di fare qualche volta qui nel Panchinario.

 

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Il sergente Studer?

#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.

A volte gli addii sono più lunghi del viaggio.
Prima di partire saluti la persona che ti sta accanto. Le stringi la mano. Dopo qualche secondo entri nell’automobile. Accendi il motore e abbassi il finestrino, per una parola di commiato. Lei resta in piedi e ti fa un cenno. Tu rispondi, mentre con l’altra mano ruoti il volante per uscire dal parcheggio. Lei sta ancora sventolando il braccio destro. Tu alzi brevemente i fari, come un battito di ciglia. Poi t’immetti in una strada che gira intorno al cortile e un’altra volta passi di fianco a lei che, instancabile, muove il braccio avanti e indietro. Allora per forza rallenti, abbassi il finestrino – ciao, gridi sporgendo la mano – acceleri leggermente e un attimo dopo, alzando il capo, la scorgi nello specchietto retrovisore… è ritta in piedi, ancora ti sta guardando; e a te sembra che ogni istante apra un solco nella memoria, nella speranza, come una ferita. Tu pensi alla strada, alla direzione da prendere. Ma vorresti tornare, salutare di nuovo la persona che ami, prolungare il gesto dell’addio, anche se quello stesso gesto ti riempie di dolore.
Ecco, per me il mese di novembre funziona più o meno così. Ci sono queste giornate sontuose, con i muretti caldi al sole del mezzogiorno. Ma il blu del cielo è diverso, più circospetto. I pomeriggi mettono in scena una sorta di parodia della lentezza estiva, con la luce che si distende, che incide il profilo delle montagne. Le montagne tuttavia sono brune, il cielo si spegne in pochi minuti, il freddo scende nei polmoni a ogni respiro. Questo incombere del buio ti fa pensare al tempo che si accorcia, alla vita che si consuma. Perché l’addio dev’essere tanto lungo? Perché l’inverno non arriva in un soffio? Ma niente, novembre ci tiene alla sua bellezza.
In uno di questi giorni di commiato, Yari e io andiamo a Paradeplatz. Stavolta ci arriviamo in maniera diversa: uno concretamente e l’altro affacciato alla finestra di FaceTime. Accadde già nel mese di maggio: Yari, per ragioni di forza maggiore, dovette visitare Paradeplatz attraverso il mio sguardo. Stavolta sono io che mi affido ai suoi occhi per tentare di capire questo luogo che ancora ci ossessiona con il suo segreto, undici mesi dopo l’inizio delle nostre indagini.
Mi trovo in un giardino, a Breganzona, con una spendida vista sul laghetto di Muzzano. Novembre si mette in mostra: lo scintillio del sole sull’acqua, il verde smagliante dei prati, il vento quasi tiepido che pulisce l’aria. Dall’altra parte, è tutto grigio. Nello schermo del telefono vedo Paradeplatz intrisa di pioggia e di malinconia: grigio l’asfalto, grigie le facciate delle banche e dell’hotel, grigio l’albero di Natale, grigie anche le bocce colorate, grigi i tram, grigi i passanti che scantonano sotto l’ombrello, grigia la vetrina di Marsano – ma dove sono andati i fiori? – e grigia la faccia di Yari irrigidita dal freddo.
Gli alberi di Natale schierati sopra il tetto dell’UBS sembrano un plotone di esecuzione poco prima dell’alba. Ma non è l’alba. Non è nemmeno mattina, sebbene l’orologio segni le undici. È un mondo senza tempo, dove novembre a lungo scioglie il suo canto d’addio. Yari e io ci scambiamo qualche parola, ma non sappiamo bene che cosa dire: questo incrocio di universi, questo urtarsi di sole e pioggia, di verde e grigio, questo paradosso che filtra nei nostri telefoni parla da sé.
– Ho portato una poesia – borbotta Yari dopo un po’.
– Ah bene – dico io.
– Non è facile da capire, devi leggere attentamente.
Comincio a preoccuparmi.
– Arriva da molto lontano – aggiunge Yari. – Te la invio?
Poco dopo, sullo schermo del mio telefono appare un codice miniato.

[AF]

*

Essere in ritardo quando nessuno ti sta aspettando è un’esperienza decisamente meno adrenalinica rispetto al canonico ritardo, quello che prevede la presenza di almeno un’altra persona o di un quadro istituzionale, professionale, sociale. Così quando il treno che da Berna mi sta portando a Zurigo si ferma improvvisamente a Rothrist, e il vagone è attraversato da un vociare convulso di donne scandalizzate e uomini isterici, io appoggio sul tavolino il libro di Friedrich Glauser e guardo con stanchezza attraverso il finestrino. Alla fine saranno trenta i minuti di ritardo complessivi, che su un viaggio di poco meno di un’ora non sono irrilevanti, come fa notare qualcuno. L’annuncio del capotreno germanofono è epico, soprattutto nel forzato passaggio al francese – «dérangement de véhicules», pronunciato lentamente e con la gravità di chi conosce, di chi sa– e infine a un inglese tanto improbabile da far pensare alla Linea di Cavandoli (forse una citazione voluta).
Continuo a guardare dal mio rettangolo trasparente quello che offre il panorama, cioè pioggia. E sullo sfondo il collo chino, dalle movenze preistoriche, di una gru o una scavatrice. Questa volta le ragioni di forza maggiore hanno reso la trasferta di Andrea impossibile. Il signore con i baffi seduto davanti a me – piuttosto anziano, senza nulla d’appariscente – osserva il mio taccuino mentre scrivo: non-ritardo. Non si capisce bene se sia serio o sorrida. A pochi metri, una donna anziana sembra sentirsi poco bene, poi l’emergenza rientra.
Giunto a Paradeplatz propongo una videochiamata ad Andrea e cerco di mostrargli tutto quello che novembre ha tolto: i fiori, i colori, la spensieratezza. Complice la pioggia, la gente si stringe sotto la tettoia centrale e sembra poco propensa al sorriso. Tutti consultano orari e tabelloni. Alcune vetrine digitali mostrano il solito Natale standard di candeline, renne, paesaggi innevati, calorose casette, zenzero, marzapane e vogliamoci bene. «Ehi, ma allora siamo vicini. Io sono a Paradeplatz, hai in mente? Sì, le banche. Ti aspetto davanti alla Lindt&Sprüngli»: l’uomo spegne il telefono, esita, ma dopo pochi istanti se ne va di corsa, senza guardarsi intorno. Evito di restare nei paraggi, d’incrociare – chi lo sa – uno sguardo deluso. Si può dire addio anche se non ci si è incontrati?
Sarà l’inesorabile bellezza di novembre, ma sono sfiduciato. Eppure, quasi ottocento anni fa, tale Giovanni di Pietro di Bernardone, umbro d’origine, sembrava nutrire una maggiore fiducia in quello che gli stava intorno, tanto da scrivere una delle poesie più memorabili fra le memorabili. Già. Chissà cosa direbbe oggi Francesco d’Assisi della sora nostra matre terra. Siederebbe pure lui al riparo dalla pioggia, nel tripudio d’asfalto, rotaie e addobbi natalizi. Osserverebbe passare i fenicotteri rosa con le zampe a mollo in un blu-piscina pubblicitario, su uno dei tanti tram. Poserebbe lo sguardo sulle due alci dorate all’entrata del fioraio. Loderebbe il suo Signore per Paradeplatz. Poi, con una piccola dose – diciamo una punta – di cinismo, ricorderebbe una volta di più la sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare.
Spedisco ad Andrea il Cantico delle creature: magari lui, che è dall’altra parte del mondo, riesce a essere più fiducioso. Intanto un ragazzo mi guarda e solo dopo avere registrato il mio (finto) disinteresse si siede sulla panchina, a pochi centimeri dal mio zaino, e gioca a calcio sul suo cellulare. Se non fosse stato per lui, non avrei notato l’uomo alle nostre spalle, dietro la porta d’entrata dei bagni pubblici. Immobile, vicino al vetro, guarda intorno con pazienza. Mi sembra di riconoscerlo, piuttosto anziano, senza nulla d’appariscente, con quei baffi che non si capisce bene se sia serio o sorrida.

[YB]

*

Era un uomo piuttosto anziano che non aveva nulla d’appariscente: camicia con colletto floscio, abito grigio un po’ sformato perché il corpo che vestiva era grasso. Quell’uomo aveva un volto pallido, magro, i baffi coprivano la bocca, sicché non si capiva bene se sorridesse o fosse serio. Si frugò in tasca, ne cavò un sigaro Brissago e lo infilò tra le labbra. Aveva gli occhi semichiusi, ma non gli sfuggiva niente di quanto accadeva sulla piazza lucida di pioggia. Passanti, ombrelli, tram… tutto appariva come doveva essere. Davvero? Fece un passo avanti, accostando la porta alle sue spalle. Trasse una scatola di fiammiferi e accese il sigaro, mentre la sua attenzione veniva attratta da un dettaglio bizzarro. Un’inceppatura nel sistema? Qualcosa del genere…
Un uomo alto, infagottato in un giaccone. Prima aveva parlato a lungo al telefono, poi aveva scattato fotografie agli edifici intorno alla piazza. Ora aveva per le mani un documento dall’aspetto antico, e leggeva mormorando le parole a fior di labbra. Era tutto normale? L’uomo anziano si domandò che cosa avrebbero detto i suoi giovani colleghi. Sicuramente che dava i numeri.
Quando i colleghi dicevano che era matto, forse volevano dire che aveva troppa fantasia per un bernese. Ma anche questo non era del tutto vero. Vedeva forse un po’ al di là del suo naso che sporgeva lungo, appuntito e sottile sul volto magro, e non si adattava affatto al suo corpo massiccio.
Notò che l’uomo alto stava per salire su un tram, ma aveva lasciato la pergamena, o quello che era, appoggiata sulla panchina. Si avvicinò. Provò a leggere quelle strane lettere che parevano arrivare da un altro mondo.

Altissimu, onnipotente, bon Signore,
tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
Ad te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu omo ène dignu Te mentovare.
Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue Creature,
spetialmente messor lo frate Sole,
lo qual è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora Luna e le Stelle:
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale a le Tue creature dài sustentamento.
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’Acqua,
la quale è multo utile et umile et pretiosa et casta.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate Focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.
Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore
et sostengo infirmitate et tribulatione.
Beati quelli ke ’l sosterranno in pace,
ka da te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare:
guai a·cquelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ’l farrà male.
Laudate et benedicete mi’ Signore et rengratiate
e serviateli cum grande umilitate.

[AF]

*

Non so quanta umilitate ci voglia per accettare un eufemismo come «Personenunfall – Accident de personne», che è quanto si sente ogni tanto sui treni che fanno la spola fra Romandia e Svizzera tedesca, a cui segue un contegno artificioso e, solitamente, il poco dissimulato nervosismo dei pendolari. Nessuno – io incluso – si chiede mai se la persona che giace inerte sui binari se ne sia andata con ancora addosso i suoi peccata mortali, chi fosse, cosa facesse, e naturalmente: perché. «Non c’è tempo», si dirà. «Così va il mondo». Per fortuna c’è ancora chi cava un Brissago dalla tasca.

[YB]

PS: La Linea è il celebre e indimenticabile personaggio animato di Osvaldo Cavandoli (1920-2007), creato alla fine degli anni ’50.

PPS: San Francesco d’Assisi (1181-1226) scrisse le Laudes Creaturarum o Canticum fratris Solis nel 1224. Il Cantico è considerato il primo testo poetico (di cui si conosca l’autore) della letteratura italiana. Per altri dettagli si veda Gianfranco Contini, Letteratura italiana delle origini, Sansoni, 1976.

PPPS: Il testo contiene due citazioni da Friedrich Glauser. La frase in corsivo che comincia con Era un uomo piuttosto anziano è tratta da Il sergente Studer (Sellerio 1986; traduzione di Gabriella De’ Grandi e Valeria Valenza da Wachtmeister Studer, Morgarten, Zürich 1936). La frase in corsivo che appare qualche riga sotto (quella che comincia con Quando i colleghi; ma già l’espressione dava i numeri) è tratta da Il grafico della febbre (Sellerio 1985; traduzione di Gabriella De’ Grandi da Die Fieberkurve, Morgarten, Zürich 1938). Entrambe sono riferite a Jakob Studer, l’investigatore della Polizia cantonale di Berna protagonista di alcuni romanzi e racconti di Friedrich Glauser (1896-1938).

PPPPS: La terza immagine di questo articolo è un dipinto dell’artista tedesco Wolf Panizza (1901-1977). È intitolato Novemberlandschaft, risale al 1935 ed è conservato nella Pinakothek der Moderne di Monaco.

PPPPPS: Vi segnaliamo le altre puntate della serie. Siamo già stati a Paradeplatz in gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugnoluglioagostosettembre e ottobre.

 

 

 

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