La solitudine del formichiere

#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.

Lorenzo ha diciannove anni e vive allo zoo di Zurigo. È uno dei più vecchi formichieri del mondo. Anzi, per essere precisi è un tamandua (Tamandua tetradactyla): è lungo circa un metro dalla punta del naso alla fine della coda, ha una lingua di quaranta centimetri, è di indole solitaria e divora qualche migliaio di formiche al giorno. Un anno fa i responsabili dello zoo ebbero l’idea di farlo socializzare con un gruppo di scimmie leonine (Leontopithecus rosalia). Ma le scimmie, che sono animaletti vivaci, dalla coda lunga e dalla pelle color albicocca, non erano d’accordo. Entrambe le specie sono originarie del Sudamerica, tuttavia questo non basta per fondare un’amicizia. In linea di massima Lorenzo si sarebbe anche adattato alla compagnia, non avendo grandi esigenze se non quella di passeggiare fra i tronchi d’albero aspirando formiche. Le scimmie però adottarono un atteggiamento di chiusura, arrivando a episodi di bullismo e costringendo il vecchio formichiere a rintanarsi nel suo buco. Secondo gli specialisti, probabilmente il maschio riproduttore dei leontopitechi si era sentito attaccato nel suo «Sicherheitsbedürfnis», cioè nel suo bisogno di sicurezza. Immagino che gli stessi specialisti avranno provato a spiegargli che il placido Lorenzo non intendeva mettersi in competizione con nessuno; ma si sa, i maschi riproduttori talvolta sono lenti a comprendere le cose.
Appena scendo dal tram, in una Paradeplatz inondata dal sole, mi sento un tamandua tra le scimmie leonine. Mi guardo intorno e mi accorgo che il luogo è pieno di gente che si sta divertendo, che si è appena divertita o che sta per andare a divertirsi. Ragazzi glabri e abbronzati, fanciulle che schioccano le infradito, famiglie che fanno jogging. Nessuno ciondola senza combinare niente: anche il divertimento, qui, è una cosa seria. Un uomo lucido di sudore si avvicina correndo e quasi mi travolge, mentre un gruppo di turisti consuma un’orgia di selfie. Cerco di rifugiarmi sotto la tettoia, ma tutto è diverso. Le panchine sono semivuote, l’edicola è chiusa e le scale che portano ai bagni sono disseminate di cartelli inquietanti: pavimento scivoloso – scale sdrucciolevoli – superficie viscida – badate a voi!
Passano meno tram. A momenti Paradeplatz diventa quasi silenziosa, percorsa da lontani scampanii che sembrano già un ricordo, come uno di quei sogni sognati il mattino presto, prima di svegliarsi, e subito dimenticati. Poi appaiono cappelli di paglia, tavole per nuotare nel lago, cesti da picnic, palette di plastica per la sabbia. Vedo una sola cravatta ma è rossa a pallini gialli, quindi forse non conta.
Leggiamo una poesia di Anna Achmatova.

No, non sotto un cielo straniero,
non al riparo di ali straniere:
io ero allora col mio popolo,
là dove, per sventura, il mio popolo era.

Esistono cieli che non siano stranieri? Esistono luoghi che possiamo definire “nostri”? Credo di no, e infatti i versi parlano di un popolo, non di un luogo. Ma è difficile per me riconoscermi in questo popolo domenicale, almeno finché non mi rendo conto che ne faccio parte anch’io. Come sempre, c’è chi è più tamandua e chi è più scimmia leonina. Ed è normale che i tamandua ogni tanto si sentano soli.
Yari e io abbiamo pianificato di visitare lo zoo di Zurigo con alcuni amici e famigliari. Ecco dunque che anche il nostro gruppo, mentre si raduna intorno a una panchina ombreggiata, diventa un frammento di popolo: voci, saluti, richiami. All’angolo della panchina, fra l’altro, c’è un uomo che dorme con il capo posato sopra una valigia. È immobile, e resta così per almeno quaranta minuti, mentre noi studiamo gli orari dei tram, acquistiamo i biglietti, telefoniamo agli amici. Quando l’uomo si sveglia e incrocio il suo sguardo un po’ smarrito, all’improvviso, per un attimo, avverto un moto di riconoscimento.
Dopotutto, i tamandua sono più numerosi di quanto credessi.

[AF]

*

Non so quanto si possa considerare permalosa una piazza. Vero è che Paradeplatz, nel momento del bisogno, non si fa problemi a fartela pagare. Succede infatti che quando la domenica decidi di andare allo zoo di Zurigo con Andrea e le rispettive famiglie, raggiungendo a piedi la famosa piazza per uno sguardo furtivo, di passaggio, quasi scherzoso, come a dire «eccola» sorridendo sotto i baffi che non hai (ma sogni di avere), ebbene succede che una voce fuori campo ti chieda con misurata sufficienza: dove pensi di andare? E scopri in breve tempo che i tram diretti allo zoo non esistono. I tram che fino a un giorno prima – e per tutti i mesi che hai frequentato la piazza – portavano fieri sulla loro ampia fronte il capolinea «ZOO» non esistono. I tram che ancora ieri scampanellavano selvaggiamente per farti notare che se c’è qualcuno che deve spostarsi sei tu e solo tu (e anzi datti una mossa) non esistono.
La tabella degli orari sembra una vignetta satirica: da lunedì a sabato una rete fittissima di arrivi e partenze, delle colonne dense di numeri neri come il carbone, come se lo zoo di Zurigo fosse il centro del mondo; e poi sulla destra, placida, una colonna bianca come la rampa del salto con gli sci, una striscia di vuoto cosmico, a rappresentare naturalmente la domenica. Spiegalo tu, a una piazza, che si può anche intraprendere il viaggio combinando le attività, unendo l’utile al dilettevole (come dice chi si vergogna di fare qualcosa di utile e vuole sottolineare a tutti i costi la presenza del dilettevole; o per i più strani il contrario), non avere insomma come Scopo Ultimo di un viaggio a Zurigo l’osservazione di Paradeplatz. Ma niente, tram non ce ne sono, la piazza indispettita guarda altrove, se ne va a «culodritto» direbbe Guccini, e a noi tocca incamminarci con il pranzo al sacco alla ricerca di un altro luogo di partenza, magari un luogo più accogliente, simpatico e meno suscettibile. (Sì, l’ho presa benissimo questa cosa dei tram.)
Certo, incamminarsi in gruppo con un passeggino e qualche sacco, scoprendo qualcosa di nuovo a ogni occhiata, sottolinea una volta di più la nostra estraneità al tessuto urbano zurighese. Se in Paradeplatz non ci sentiamo più del tutto stranieri, bastano pochi metri per ripiombare nei panni dei forestieri. E in fondo, anche la familiarità con Paradeplatz è soprattutto una nostra proiezione. Basta guardare l’architettura e l’utilizzo della piazza, leggere le insegne, ascoltare gli avventori: tutto porta lontano dalla nostra cultura d’origine e dalla nostra lingua madre. Non c’è nulla di più intrigante, beninteso, ma la distanza rimane; e, pur con qualche eccezione, rimarrà. Insomma siamo e resteremo stranieri, a meno che il concetto non risulti obsoleto. Quando penso alla geografia, per esempio, o più precisamente all’appartenenza a un luogo, i miei sentimenti sono molto diversi da quelli che potevano avere i miei avi (che del resto erano ovunque, salvo nei luoghi in cui sono nato e cresciuto).
Credo che Andrea abbia ragione: non ci sono luoghi che possiamo definire “nostri”. L’appartenenza e il radicamento sono da ricercare altrove. Possono essere un popolo, come appunto per l’Achmatova: «io ero allora col mio popolo, / là dove, per sventura, il mio popolo era» (in un testo che apre un ciclo intitolato, simbolicamente, Requiem). Possono essere la nostra lingua o la nostra cultura, come avrei tendenza a credere. Possono essere un ideale o un sogno. In ogni caso, dubito si tratti di qualcosa che potremmo fissare e scolpire nella pietra: più probabile che sia volubile e volatile. Ancorché necessario.
Mi piace sempre ricordare Simone Weil, che ne La prima radice afferma: «Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana. È tra i più difficili da definire. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale, all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice. Partecipazione naturale, cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente. Ad ogni essere umano occorrono radici multiple. Ha bisogno di ricevere quasi tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente».

[YB]

*

Infine, stanchi ma felici, tornammo a casa. Così un tempo finivano i temi scolastici. Ora si tende a evitare quel passato remoto tanto perentorio e, soprattutto, non è sempre chiaro dove sia “casa”. Un altro “pensierino”: Oggi andammo allo zoo. L’animale che più mi piacque…
Yari, quale animale maggiormente ti piacque allo zoo di Zurigo?

[AF]

*

Caro amico di penna,
il gorilla è il mio animale preferito. Mio papà dice che ci sono diversi tipi di gorilla, ma sono sempre pelosi. Sono neri e anche un po’ grigi. Allo zoo di Zurigo c’è un gorilla che è anche più vecchio del mio papà. È nato nel 1977. Quando lo guardi lo capisci che è più vecchio e che ha visto più cose e sa anche molte più cose di te.
Quando lo guardi per tanto tempo forse anche lui ti guarda. Il gorilla ti guarda sempre in modo triste. Forse perché è chiuso in uno zoo o forse perché è solo triste di essere triste. Ma lui lo sa di sicuro perché è vecchio e saggio. Il mio papà mi ha detto che lui invece non lo sa. Quando il gorilla mi guarda divento triste anch’io, ma non so perché. Sono triste senza saperlo.
Scrivimi presto.
La tua amica di penna

[YB]

PS: Un ringraziamento speciale a Martina e Gregorio. Le informazioni sugli animali provengono dalla newsletter e dal sito dello Zoo di Zurigo.

PPS: I versi di Anna Achmatova fungono da epigrafe al ciclo intitolato Requiem, che si può leggere in Poema senza eroe e altre poesie (Einaudi, 1966; traduzione di Carlo Riccio).

PPPS: La canzone di Francesco Guccini Culodritto, dedicata alla figlia Teresa (allora bambina), è nell’album Signora Bovary, uscito nel 1987. Comincia così: «Ma come vorrei avere i tuoi occhi, spalancati sul mondo come carte assorbenti / e le tue risate pulite e piene, quasi senza rimorsi o pentimenti, / ma come vorrei avere da guardare ancora tutto come i libri da sfogliare / e avere ancora tutto, o quasi tutto, da provare»…

PPPPS: La citazione di Simone Weil è in La prima radice (Edizioni di Comunità, 1954, ripubblicato nel 2017; traduzione di Franco Fortini).

PPPPPS: Vi segnaliamo le altre puntate della serie. Siamo già stati a Paradeplatz in gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio e giugno.

 

Condividi il post

Le piogge d’aprile

IMG_0181In questi giorni le mie corde vocali sono affaticate. La mia voce è sparita, poi è tornata ma è roca, fragile. Così cerco di seguire i consigli del medico: quando posso, me sto zitto. Sospetto che tale indicazione abbia una valenza che superi l’aspetto strettamente fisiologico. Mentre siedo in balcone, circondato da questa luce primaverile così tagliente, mi chiedo se il silenzio non abbia qualcosa da dirmi. Penso che, al di là di ogni tentazione morale, l’insegnamento del silenzio consista nel suo non essere silenzioso. Infatti dopo un po’ vengo raggiunto dal fruscio della fontana, dallo stormire del vento nei rami di una betulla, da una lontana conversazione femminile, dall’eco di una moto, dal richiamo di un uccello… Nell’attimo in cui sembrano negarlo, questi piccoli suoni abitano il silenzio e mi aiutano a percepirlo.
IMG_0179Mi viene in mente che fra pochi giorni si festeggia la Pasqua. Così come il Natale, anche questa festa è strettamente legata al silenzio. Se nello stupore natalizio può insinuarsi una certa dolcezza, qui si tratta dello sgomento davanti alla tomba. Non importa se siamo cristiani oppure no; la crudezza inesorabile della morte la conosciamo tutti. Possiamo credere oppure no alla resurrezione, a quella speranza mattutina, ma di certo conosciamo bene l’angoscia pomeridiana, lo strazio della fine. Non è forse vero che, minuto dopo minuto, il tempo della nostra vita ci crocifigge? Mutano le stagioni, si rinnova la luce delle primavere, ed eccomi qui seduto sul mio balcone, senza parole. I bambini giocano nel cortile, uomini e donne passano nell’aiuola qui sotto con il cane, aspettano che il cane faccia la cacca, raccolgono con cura gli escrementi, li gettano nelle apposite cassette. E mi consuma la tristezza, perché non riesco più a comprendere, a condividere queste grida, questa luce di primavera – ah, ma è un piacere star fuori in queste giornate! – questa cura nel ripulire la terra dagli stronzi di cane. Forse, se di colpo venisse a piovere sarebbe più facile: gente che corre, finestre che si chiudono, il tamburellio contro i vetri.
Ma dove sono andate quelle piogge d’aprile / che in mezz’ora lavavano un’anima o una strada / e lucidavano in fretta un pensiero o un cortile / bucando la terra dura e nuova come una spada? Dalla memoria risale una canzone di Guccini che mi ricorda estati senza fine / senza sapere la parola “nostalgia”, mi parla di stagioni smisurate quando ogni giorno figurava gli anni a venire / e dove a ogni autunno quando finiva l’estate / ritrovavi la voglia precisa di ripartire.

Forse il problema è questo. Forse si tratta di momenti svuotati, dell’affollarsi di ombre: che ci potrai fare di quelle energie finite, / di tutte quelle frasi storiche da dopocena; / consumato per sempre il tempo di sole e ferite, / basta vivere appena, basta vivere appena… A volte non è facile mantenere la forza pura del desiderio, quel desiderio inconscio di arrivare più in fondo / per essere più vero. In generale, la stanchezza e la mancanza di slancio misurano una distanza fra me e il mondo, tanto che il perimetro del balcone diventa un fossato invalicabile. In questi momenti lo schiaffo improvviso di una pioggia d’aprile corrisponde a ciò che Guccini chiama un’occasione ladra, un infinito o un ponte per ricominciare.
IMG_0180Credo che il ponte, se c’è, non possa che portarci verso il mattino. Mi piace pensare che, nella canzone di Guccini, a costruire questo ponte sia il sax di Antonio Marangolo. Sarà colpa delle mie corde vocali infiammate, ma ho l’impressione che il ponte debba nascere dal silenzio, sbocciando all’improvviso così come sgorga un assolo di sax alla fine di una strofa. Anch’io non posso fare altro che provare la mia voce, aspettando le parole giuste. Per me scrivere significa proprio tracciare un ponte. Tento di animare i miei personaggi per riflettermi dentro di loro, per muoverli al di là del fossato. Non so se questo basti, e mi rendo conto che forse la scrittura non può essere un ponte davvero solido. Ma di certo è un principio: nel gesto di cercare le parole, di raccoglierle con cura (come se fossero escrementi di cane) c’è di sicuro un’ombra di desiderio. Non si può raccontare una storia senza credere, sia pure in maniera inconscia, che la vita possa cominciare di nuovo, anche quando tutto sembra perso nel buio pomeridiano. Mi sembra di aver colto qualcosa del genere in una lirica di Melania Panico.

Se il silenzio potesse parlare
farebbe crollare palazzi
o restaurerebbe
portoni infestati da tarli.
Ma il silenzio non può
parlare
e i palazzi resistono
e i portoni dei palazzi
sopportano la pioggia
restando muti
fino al prossimo
mattino.

Chissà, magari in qualche modo il silenzio può restaurare anche me (e le mie corde vocali), magari a un certo punto anche sul mio balcone pioverà. In questi giorni di primavera sono più sensibile alla presenza del male: le mie ferite, quelle di chi mi sta accanto, la sofferenza che dilania il mondo, tra solitudini, malattie, innocenti massacrati e vite che bruciano senza che nessuno se ne accorga, nel corso di un tranquillo, banale pomeriggio di aprile. Auguro a me e ai lettori di questo blog, comunque siano messi di fronte alla Pasqua, il coraggio di non cedere alla disperazione. Bisogna avere fiducia e tentare di avvertire, dietro lo schermo del pomeriggio, il silenzio pieno di meraviglia del prossimo mattino.

IMG_0178

PS: La canzone di Francesco Guccini si chiama Le piogge d’aprile ed è tratta dall’album Signora Bovary (EMI 1987). Melania Panico è una poetessa nata nel 1985 a Napoli; la sua raccolta Campionature di fragilità è stata pubblicata da La Vita Felice nel 2015. La poesia che dà il titolo al libro finisce con due versi che, in un certo senso, sono anche un augurio: Il peso da dare alle cose / lo scriviamo ad occhi aperti. Il resto ve lo lascio scoprire da soli.

Condividi il post